Cinema: “Zeta – Il film” di Cosimo Alemà
Giona A. Nazzaro
C’è qualcosa di nuovo in città. Qualcosa che non si vedeva da molto tempo. Qualcosa che mancava. Qualcosa di cui c’era e c’è un gran bisogno. Un cinema al presente indicativo. Un cinema privo di nostalgie. Che non si fa illusioni. Un cinema che c’è, però. Che esiste nel cuore della città.
Zeta – Il film di Cosimo Alemà è quasi troppo bello per essere vero (come Lo chiamavano Jeeg Robot, d’altronde) e non perché sia un film perfetto, tutt’altro. Semplicemente perché con uno scatto imperioso riporta nel cinema italiano una Roma mai vista, una Roma, se si vuole, ri-aperta, lontana dai salotti monteverdini nei quali si consumano insipidi microdrammi piccolo borghesi. La città di Zeta – Il film è una città off limits per molti. Bisogna viverci o cercarla per sapere della sua esistenza. Alemà, dotato di uno sguardo in grado di cogliere i conflitti nelle geometrie dei luoghi, filma Corviale, la distesa di cemento del Serpentone, con un rispetto pari solo all’affetto che nutre per i suoi straordinari protagonisti.
Il suo racconto esiste e pulsa a partire proprio dalla consapevolezza formale dei luoghi; luoghi che sono già un racconto e che formano vocazioni e destini. Ma non solo Corviale. Tor Bella Monaca e il Casilino. Componendo così un mosaico, epico, nel senso di racconto, di un’altra città, rimossa sempre dall’immagine dominante del Centro. Una Roma "extra comunitaria", la galassia estesa della Roma est, regno delle suburre sollimiane che nelle mani di Alemà diventa una specie di Compton, dove le comunità che la popolano di fatto si autogestiscono il presente e la vita nell’assenza colpevole e complice delle istituzioni.
Una città che si offre nuovamente allo sguardo. Una città che vuole essere scoperta. Non una terra desolata del degrado ma il suo polmone resistenziale. In questo senso Zeta è, anche, un sorprendente esempio di cinema del reale.
Il grande merito del film di Alemà è proprio di dare corpo a questa enorme riserva e dignità (sotto)proletaria. All’ombra dei cosiddetti "quartieri dormitorio", dove in realtà non dorme nessuno, altrimenti la vita t’azzanna e perdi tutto in un "gnente", pulsa un’umanità che lavora, per pochi spicci; un’umanità anch’essa "extracomunitaria", considerato la natura esclusiva delle comunità che si peritano di appioppare etichette agli altri. Alex/Zeta e Gaia che di notte si perdono felici sotto la pioggia a Piazza Vittorio sono il segno, invece, di un piccolo, ma fondamentale, "roma ci appartiene" che raramente al cinema abbiamo visto in forme più icastiche prima dell’apparizione di Enzo Ceccotti. Un momento, magnifico, che vale quanto un’epifania.
Alemà, dal canto suo, con l’umiltà di un artigiano vero, afferma di avere voluto realizzare un teen movie per i ragazzi di oggi; lo sguardo, però, e la tenerezza che riversa sui suoi personaggi appartengono più a un Mario Mattoli (il pudore con il quale filma la splendida Irene Vetere, autentica rivelazione del film) o a un Dino Risi, l’amarezza con la quale segue il perdersi di Alex in un mondo che non è il suo. Alemà, infatti, senza sbandierarlo, lavora nel solco della tradizione del cinema italiano. Il suo Zeta – Il film è una specie nota a pie’ di pagina al filone di Poveri ma belli. Giovani esposti alle promesse di un benessere che non si riesce mai ad agguantare se non a prezzo della propria dignità o integrità.
In questo senso il rap, o l’hip-hop, diventa il segno di un lavoro realizzato da chi è privo dei più elementari mezzi di produzione. Il lavoro di chi un lavoro non ce l’ha e che, stando le cose come stanno, neanche lo vuole più. Alemà riesce nell’impresa di cogliere la pulsione mitopietica dell’hip hop italiano dopo la sbornia dell’impegno militante a tutti i costi, evidenziando come nel frattempo un altro linguaggio è andato prendendo piede nelle periferie di Roma e per estensione di tutte le città italiane. I rapper nel film di Alemà si mettono letteralmente in scena come protagonisti della loro vita. Un tessuto connettivo che si offre in sostituzione di quello sociale. E al di là di quel che si può pensare dei singoli artisti (ecco, magari di J-Ax si poteva fare a meno considerato la sua sovresposizione mediatica), resta il fatto incontrovertibile che rapper come come Rancore, Ensi, Salmo, gente come Noyz Narcos o Club Dogo, hanno fornito il tessuto narrativo e mitologico a una generazione dimenticata nelle pieghe di case popolari e quartieri ai margini della città.
Alemà riesce nell’impresa di un realizzare un film che è una vera e propria mappa del sentire urbano odierno. Una mappa piena di dettagli significativi. La copertina del vinile di 1999 di Prince nello studio di Marco (il magnifico Jacopo Olmo Antinori); la locandina di Poliziotto sprint di Stelvio Massi nel commissariato; l’essere diabetico di Alex (Diego Germini, straordinario…) come il mai dimenticato Phife Dawg dei A Tribe Called Quest.
Zeta – Il Film offre l’immagine di un mondo e di una mitologia "mai vista"; un autentico scarto rispetto al visibile possibile del cinema italiano contemporaneo. Un film che è soprattutto un gesto di discontinuità. Un cambio di ritmo. Un beat completamente nuovo.
(4 maggio 2016)
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