Città e territori: dalla competitività alla desiderabilità
Fausto Carmelo Nigrelli
A partire dalla fine degli anni 1980 si è progressivamente affermata, fino a diventare dominante, la cultura della città e dei territori come merce che, come tale, devono essere sottoposti alle logiche che sovrintendono alla produzione, promozione e commercializzazione tipiche di ogni bene economico che è, per sua natura, oggetto di contrattazione e di scambio.
Quali sono stati gli effetti dell’adozione di una tale paradigma da un punto di vista territoriale? Esattamente gli stessi che hanno riguardato gli altri campi della società italiana e occidentale in generale: l’abbandono di ogni solidarietà, delle logiche di welfare, delle politiche di riequilibrio che pure nel trentennio 1950-1980 avevano significativamente ridotto il gap tra Mezzogiorno e regioni settentrionali. Le politiche nazionali e la scelta della regionalizzazione di molte azioni fino ad allora competenza dello stato hanno prodotto una crescita del disequilibrio tra aree forti e aree deboli del paese, ma anche all’interno delle tre macro regioni o dei singoli confini regionali. Ne è un esempio il dato più eclatante: la riduzione degli investimenti nel Mezzogiorno al quale negli anni 1960 era destinato lo 0,84% del pil e oggi è destinato lo 0,15% e l’uso dei fondi europei non come aggiuntivi agli investimenti nazionali, ma come sostitutivi.
È perfino ovvio che un meccanismo come quello descritto ha l’inevitabile esito di rendere sempre più profondo il solco tra aree forti e aree fragili, di cui la cosiddetta “fuga dei cervelli”, cioè la ripresa dell’emigrazione di massa soprattutto dal Mezzogiorno e soprattutto di giovani ad alta scolarizzazione, non è che la più recente e la più grave delle conseguenze, poiché si configura come un vero e proprio furto di futuro.
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Le evidenze dei legami tra forme insediative e vulnerabilità a questa e alle prossime pandemie, come quelle dell’insostenibilità ambientale del modello della iperconcentrazione di funzioni, persone, attività possono rimettere in discussione il paradigma della città-merce e dei territori-merce, con il corollario che la ricerca della competitività può non essere più l’obiettivo principale delle politiche pubbliche a livello nazionale e locale.
Partiamo dalla fine. Perché un territorio o una città devono essere valutati in termini di competitività quando sono – come abbiamo detto – luoghi, cioè insieme di spazio fisico, spazio sociale, spazio simbolico?
Questo dovrebbe essere l’obiettivo di un Piano nazionale di riequilibrio territoriale che, inglobando il piano per il Sud di Provenzano che intende destinare il 34% degli investimenti alle otto regioni meridionale e utilizzando lo stesso principio ai fondi del MES e del Recovery Fund, potrebbe costituire l’esito positivo della crisi generata dal Covid-19.
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