Colao, un piano che accentua le diseguaglianze
Fausto Carmelo Nigrelli
Dal punto di vista di chi si occupa di territorio il “piano Colao” può apparire una lista della spesa che è stata compilata senza avere una idea della pietanza che deve essere cucinata, quindi ci sono tanti ingredienti che potrebbero essere utilizzati per una prelibatezza o che potrebbero dare origine a un veleno.
Si dirà che si tratta di un documento tecnico e che adesso è la politica che deve operare le sue scelte e ciò è senz’altro vero e, semmai, il problema sta proprio nella mancanza di autorevolezza della politica in questa fase e, dunque, nella difficoltà di convincere il Paese delle scelte che dovrà fare. Tuttavia un documento tecnico non è né può essere neutrale. La sua lettura, dunque, consente di capire quale è la visione non dichiarata che i redattori propongono ai decisori politici.
La prima reazione, quella che il piano Colao non ha una visione da qui a venti o trenta anni, non è, dunque, corretta: la visione c’è, è chiara ancorché nascosta e, dal mio punto di vista, non è condivisibile.
Potrei sinteticamente dire che in questa visione non c’è il territorio e non c’è il territorio italiano con la sua ricchezza, la sua complessità, le sue contraddizioni, la sua identità, insomma. Non ci sono i luoghi, ma c’è soltanto uno spazio euclideo nel quale programmare «Il progressivo reinsediamento sul territorio nazionale di attività produttive e ad alto valore aggiunto in precedenza svolte all’estero» contribuendo in tal modo significativo «all’accrescimento del gettito erariale e all’incremento del prodotto interno lordo, generando altresì un impatto positivo in termini di occupazione» (scheda 18).
La parola “agricoltura” è contenuta nel documento una sola volta in relazione a interventi di manutenzione dei bacini idrici a servizio del settore primario (scheda 33-34), come se la recente esperienza di lockdown non abbia messo in evidenza l’importanza della produzione agricola di prossimità, la necessità di attivare o riattivare le filiere corte, l’esigenza di ridurre la dipendenza dall’estero per l’approvvigionamento delle derrate alimentari. E come se un grande piano di messa in sicurezza del territorio dal rischio idrogeologico non dovesse avere nella costante manutenzione del suolo – che si fa essenzialmente con l’agricoltura – il suo atout principale (assente nella scheda 35). Come se, ancora, il paesaggio agricolo non fosse l’elemento di connessione e collegamento di quello straordinario capitale non replicabile che sono il paesaggio e il patrimonio culturale. E questo non solo nella Val d’Orcia o nelle Langhe o nelle colline di Valdobbiadene, riconosciuti nella World Heritage List, ma anche nel sud est della Sicilia o nel Salento, nel delta del Po o nella Maremma.
Anzi, promuovendo la «realizzazione di 1-2 nuovi Grandi Poli turistici al Sud» (Scheda 51.i) si continua a lavorare non sulle reti, ma sui poli, non sulla riduzione dei gap, ma sulla loro accentuazione. Che differenza ci sarebbe tra i poli turistici proposti da Colao e i poli industriali creati negli anni sessanta/settanta (da Taranto a Gela, da Gioia Tauro a Siracusa/Augusta)? Scelte megalomani eterodirette in cui al massimo ci si deve assicurare «l’approvazione della popolazione locale, dopo aver predisposto il progetto, in modo che non ne ostacoli la realizzazione». Chiamare questo un atteggiamento coloniale è un eufemismo come conferma il passaggio successivo in cui si prevede la nomina di: «un commissario straordinario che garantisca efficienza ed efficacia nell’esecuzione dei lavori». Il Sud come colonia è qualcosa che mai nessuno – neanche negli anni della creazione della Aree di Sviluppo Industriale – aveva mai osato pensare.
Questa logica fa il paio con la considerazione che è riservata alla cultura la quale non è intesa come elemento strategico di crescita della popolazione, connettivo del sistema paese, elemento capace di produrre innovazione, ma solo come “risorsa” per il settore del turismo, come bene di consumo. Ne è la prova il fatto che la quasi totalità delle 16 schede poste sotto il titolo “turismo, arte e cultura”, riguardano il settore economico del turismo e non quello della messa in valore del patrimonio paesaggistico e culturale e anche quando si fa riferimento al patrimonio diffuso lo si fa sempre in termini esclusivi di redditività degli investimenti («Sviluppando programmi di investimento mirati su poli (es. 30-40 poli prioritari) ad alto potenziale (es. artistico, culturale, paesaggistico), che garantiscono un ritorno di investimento maggiore» (scheda 51i). E anche quando si fa riferimento all’eccellenza riconosciuta dall’Unesco, non ci si rivolge ai 55 siti della Lista mondiale, ma alle 13 “Città Creative", di fatto escludendo il 75% del territorio nazionale
ambientale.
La stessa sorte tocca all’università alla quale si rimprovera una «buona qualità media delle università italiane, ma carenza di poli di eccellenza internazionalmente competitivi» per indicare la correzione: indurre le «università piccole o mono-disciplinari a specializzarsi in una particolare combinazione delle diverse funzioni oggi svolte: formazione di base, formazione specialistica e dottorale, ricerca pura, ricerca applicata e terza missione, partecipazione a network internazionali, contributo allo sviluppo territoriale, ecc.» puntando sui grandi atenei in cui tutte queste attività dovrebbero svolgersi in forma integrata e che rimarrebbero gli unici in cui si coltiverebbe la specificità dell’attività universitaria, che è proprio quella di tenere insieme tutte quelle funzioni.
Concentrazione, concentrazione e concentrazione, dunque.
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C’è, quindi, nel piano Colao una precisa impostazione culturale non dichiarata, anzi quasi velata, nascosta: dare la sensazione di operare per la riduzione delle diseguaglianze individuali, ma accentuando quelle territoriali, in questo modo, nella realtà, vanificando gli eventuali risultati di quelle. E infatti i termini Mezzogiorno e Sud compaiono una ventina di volte per evidenziarne i ritardi e mai per individuare il contributo specifico di quella parte dell’Italia al progresso complessivo. E nella stessa direzione va la proposta del «welfare di prossimità» (scheda 88), cioè della creazione di presidi multiservizi di assistenza a chi presenta una qualunque forma di disagio, da concentrare nei poli metropolitani, nelle città con più di 50 mila abitanti (146 su oltre ottomila comuni italiani) o in comuni consorziati, di fatto abbandonando chi vive condizioni di disagio nella quasi totalità delle città italiane.
In altre parole accentuare le diseguaglianze, fare diventare i forti più forti e, nella migliore delle ipotesi, avere nei confronti dei più deboli un atteggiamento paternalistico, se non peggio. Per questo non trovano ospitalità in questo documento la pianificazione territoriale e l’urbanistica, perché, con tutti gli errori che sono stati commessi, queste discipline rendono esplicite le scelte sul territorio, possono contribuire a ridurre significativamente le diseguaglianze e coinvolgono i cittadini stimolandone la partecipazione libera.
(15 giugno 2020)
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