Colombia, la morte di Mario Paciolla e il massacro di indigeni e attivisti

L. C.

Mario aveva 33 anni. Era operatore Onu. È stato trovato morto lo scorso 15 luglio, poche ore prima di lasciare la sua casa di San Vicente del Caguán per fare rientro in Italia. La sua morte si inserisce in uno scenario che vede il paese sudamericano come il più pericoloso per difensori della terra e dell’ambiente e in cui gli indigeni sono il primo bersaglio. La “pace” non è mai stata così lontana.

Parlava sempre di Napoli, dicono i suoi amici dalla Colombia. E aveva in tasca un biglietto per tornare a casa.

«Mario non avrebbe mai scelto di morire lontano da Napoli. È questa la certezza di chi lo conosceva, e di chi farà di tutto per cercare la verità», dice – sotto anonimato per ragioni di sicurezza – un amico di Mario Paciolla, operatore Onu 33enne trovato morto lo scorso 15 luglio nella sua casa di San Vicente del Caguán, nel sud della Colombia.

Dall’agosto 2019, Mario lavorava per la missione delle Nazioni Unite per la verifica degli accordi di pace nel dipartimento di Caquetá. Un lavoro complesso e difficile, in un paese martoriato da oltre mezzo secolo di guerra civile e dove la pace tanto promessa dagli accordi non è mai divenuta realtà.

A due settimane dalla sua morte, si attendono ancora i risultati delle due autopsie, quella eseguita dalla polizia colombiana e quella “italiana”. In entrambi i paesi le autorità hanno affermato di aver dato alta priorità al caso, ma continuano a mantenere il massimo riserbo in attesa di ulteriori elementi. Le Nazioni Unite, che hanno lanciato una propria indagine interna, hanno finora pubblicato solamente una nota stringata in cui esprimono le proprie condoglianze alla famiglia e agli amici di Mario, senza nemmeno menzionare il suo nome.

La polizia colombiana ha inizialmente ipotizzato un suicidio e ha riferito di aver trovato l’operatore Onu impiccato e con delle ferite da taglio sul corpo, dopo l’allarme dato da una sua collega che – non vedendolo arrivare in ufficio – era andata a cercarlo a casa. Ma l’ipotesi del suicidio è stata immediatamente scartata da chi conosceva Mario e aveva parlato con lui di recente.

Secondo quanto riportato dai media italiani e internazionali, nelle ultime settimane Mario aveva confidato alla madre di essere preoccupato e agitato. Il 10 luglio avrebbe avuto un’accesa discussione con i suoi capi della missione Onu e aveva detto di essersi «ficcato in un guaio». Il contratto di Mario sarebbe scaduto il 20 agosto, ma aveva deciso di anticipare il viaggio di un mese. Proprio il 15 luglio avrebbe dovuto lasciare San Vicente del Caguán per recarsi nella capitale e avviare le pratiche per il viaggio di ritorno. La sua amica giornalista e attivista Claudia Julieta Duque sull’Espectador scrive che Mario si sentiva minacciato, e che aveva per questo rafforzato le misure di sicurezza nella propria abitazione e tolto un lucchetto dal tetto per assicurarsi una via di fuga nel caso qualcuno irrompesse a casa sua.

All’interno della missione Onu, Mario si occupava di un programma di reinserimento sociale per ex-guerriglieri, in uno dei 24 “spazi territoriali di formazione e reincorporazione” creati in seguito agli accordi di pace firmati nel 2016 tra il governo e le Farc (Forze Armate rivoluzionarie colombiane). Mario conosceva bene le complesse dinamiche del paese, perché per due anni era stato un volontario di Peace Brigades International in Colombia, accompagnando i difensori dei diritti umani a rischio. Laureato all’Orientale di Napoli, aveva svolto varie esperienze di lavoro e volontariato all’estero, in India, Giordania e Argentina. Sotto lo pseudonimo di Astolfo Bergman, aveva inoltre scritto articoli per diverse testate ed era stato tra i fondatori della rete di Cafébabel.

La pace che non c’è

Mario era arrivato in Colombia alla vigilia degli accordi di pace, in una fase storica di grandi contraddizioni e grandi speranze. Nel 2016 ci si illudeva di poter finalmente vedere la luce alla fine del tunnel e di porre fine a una guerra civile che imperversava da 52 anni e che aveva causato oltre 260mila vittime, 80mila desaparecidos, e milioni di sfollati interni. Ma a frenare quelle speranze, c’era la consapevolezza di quanto fosse tortuoso il cammino per la pace e di quanto fossero fragili le premesse su cui si stavano costruendo i negoziati e gli accordi.

A quattro anni di distanza, la situazione appare sempre più drammatica. La maggior parte dei guerriglieri ha abbandonato le armi, permettendo in questo modo la formazione del partito politico delle Farc (il cui acronimo sta oggi per Forza Alternativa Rivoluzionaria del Comune). Ma nelle aree lasciate libere dalle Farc sono velocemente avanzati altri gruppi armati. Oggi il paese è un campo minato, controllato da una complessa rete di formazioni paramilitari, narcotrafficanti, guerriglieri, esercito, imprenditori e politici collusi, che si contendono il controllo del territorio e delle risorse naturali. Inoltre, alcune frange dissidenti delle Farc, particolarmente attive nel dipartimento di Caquetá dove viveva Mario, non hanno mai accettato gli Accordi di pace, e restano a un punto morto anche le negoziazioni con i guerriglieri dell’Eln (Esercito di liberazione nazionale).

Gli interessi in gioco sono alti e le tacite alleanze tra questi gruppi mutano a seconda della reciproca convenienza, ma quello che resta costante è uno scenario di profonda, sistematica violenza in cui a farne le spese sono la popolazione civile e i gruppi più vulnerabili. Gli attivisti per i diritti umani e le organizzazioni internazionali denunciano che la situazione sta ulteriormente peggiorando con il governo di destra di Duque, al potere dal 2018, accusato di fare il gioco dei poteri economici e di aver fatto naufragare le riforme promesse dagli accordi.

«Agli inizi di quest’anno, nel nostro ultimo viaggio in Colombia, abbiamo potuto toccare con mano quanto sia grave la situazione», racconta Francesca Caprini di Yaku, associazione che si batte per la difesa dell’acqua e contro la privatizzazione dei beni comuni, in solidarietà con le lotte delle comunità indigene, contadine e afrodiscendenti in America Latina. «Abbiamo visto territori completamente militarizzati, in cui i paramilitari camminavano al fianco dell’esercito. Questi gruppi controllano il territorio in una maniera più che capillare, in una maniera mafiosa. Le estorsioni e gli omicidi sono all’ordine del giorno».

Secondo l’ultimo report pubblicato dall’Istituto di Studi per lo Sviluppo e la Pace (Indepaz), dalla firma degli Accordi di pace al luglio 2020 sono stati assassinati 971 difensori e difensore dei diritti umani. Come si legge nel report appena pubblicato dall’Ong Global Witness, “Difendendo il futuro”, i difensori della terra e dell’ambiente sono tra quelli più a rischio. Dei 212 attivisti assassinati nel mondo l’anno scorso, ben 64 casi (ovvero il 30 per cento) sono stati registrati in Colombia. Le popolazioni indigene sono quelle che pagano il prezzo più alto: nonostante rappresentino appena oltre il 4 per cento della popolazione, la metà delle persone assassinate nel 2019 nel paese latino-americano apparteneva a comunità indigene, considerate “scomode” perché costituiscono l’ultimo baluardo contro l’espansione estrattivista.

«Più del 50 per cento del territorio colombiano è dato in concessione a imprese private: la guerra interna è funzionale all’accaparramento delle risorse», dice Caprini. «Due anni fa quando il presidente Iván Duque aveva presentato il suo piano di ‘sviluppo’ economico per la Colombia, aveva dato il via libera all’accaparramento delle risorse e dei territori a discapito dei diritti comunitari, con un meccanismo chiamato Obras por impuestos che dava alle multinazionali la possibilità di investire nel paese senza nemmeno dover versare le tasse, in cambio della costruzione di infrastrutture di supposto interesse pubblico. Ed è così che le grandi imprese sono potute entrare in territori prima integri, senza rispettare il diritto delle comunità locali al consenso libero, previo e informato». In questo difficile contesto, il lavoro di Mario Paciolla – prima con Peace Brigades International e poi con la missione Onu – era estremamente importante. Con la sua presenza, con le sue testimonianze e con l’accompagnamento alle comunità locali, Mario cercava di tenere vive quelle poche speranze non ancora risucchiate nella spirale di continua violenza. Come ricorda una sua amica colombiana, “il suo impegno e il suo idealismo erano la sua più grande forza, perché gli hanno impedito di arrendersi anche quando gli altri non ci credevano più”.


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Giustizia per Mario

Da Napoli alla Colombia, si stanno moltiplicando le iniziative per chiedere verità e giustizia per Mario. Il 30 luglio nella sua città natale si svolgerà un evento commemorativo, organizzato dagli amici e dalla famiglia. Continuano inoltre ad arrivare sempre più adesioni all’appello di Europaz, rete accademica nata in sostegno agli accordi di pace in Colombia, dove si chiede alle autorità colombiane di assicurare un’indagine trasparente, verità e giustizia per Mario. Una richiesta quanto mai urgente, in uno dei paesi con il più alto tasso di impunità al mondo. Secondo quanto denuncia Global Witness, in Colombia quasi il 90 per cento degli omicidi di difensori dei diritti umani resta impunito.

«La morte di Mario è l’ultimo caso di una lunga lista di persone uccise in Colombia, uccise solo perché credevano in un futuro di pace», dice Ivi Oliveira, Coordinatrice per l’America Latina dell’organizzazione non-governativa Front Line Defenders, che offre supporto pratico ai difensori dei diritti umani nel mondo. «Mario faceva parte della mia stessa famiglia, perché anche io sono stata volontaria con Peace Brigades International. Ed era parte di quella grande famiglia di tutti coloro che nel mondo lottano per difendere i diritti umani. È per questo che anche Front Line Defenders ha lanciato un appello alle autorità colombiane, chiedendo che ci sia un’indagine rigorosa e trasparente per scoprire cosa c’è dietro la morte di Mario».

(30 luglio 2020)




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