Come la rendita finanziaria e tecnologica soffoca l’economia. Sull’ultimo libro di Mariana Mazzucato

Enrico Grazzini

L’ultimo libro di Mariana Mazzucato “Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale”[1] è una documentata critica scientifica nei confronti della rendita finanziaria che pesa sull’economia, della rendita legata ai brevetti e ai monopoli tecnologici, e delle politiche di austerità che soffocano l’attività pubblica. Rendita finanziaria, rendita degli oligopoli tecnologici e politiche di austerità, secondo la Mazzucato, succhiano valore, frenano l’economia, impediscono allo stato di promuovere ambiziose politiche di progresso e di innovazione, e inibiscono lo sviluppo dell’economia e del benessere sociale.

Il libro della docente americana nata in Italia ha alcune qualità molto rare, difficili da reperire nel nostro Paese, dove la cultura è spesso appiattita sull’establishment, e dove nel campo dell’economia prevale la scuola liberista della Bocconi mentre quella progressista e keynesiana è timida, manca di incisività e piglio critico, è troppo spesso convenzionale e puramente accademica (quindi praticamente inutile): il libro di Mazzucato non ha solo il merito di approfondire problemi di frontiera e di battere strade nuove ma anche di essere radicalmente critico, coraggioso e controcorrente. Associa l’analisi teorica alla concreta analisi dei fatti senza cadere in sterile astrattezza.

La critica della Mazzucato al potere finanziario e tecnologico – cioè a chi sottrae valore da chi lo produce con il suo lavoro – è certamente controcorrente nel tempo attuale dominato dal dogma del “libero mercato” e dall’apologia del capitalismo finanziario. Non è certo un caso che Mazzucato in Italia (e naturalmente anche all’estero) sia nota e celebrata per le sue tesi esposte nel libro sullo stato innovatore ma che invece questo suo ultimo libro contro gli oligopoli della finanza e delle tecnologie sia stato pochissimo recensito e in pratica ignorato nel nostro Paese.

La tesi fondamentale della Mazzucato è che la rendita – come la rendita fondiaria criticata dai grandi classici dell’economia politica, e soprattutto attualmente la rendita finanziaria e tecnologica – comporta l’estrazione (o anche la distruzione) di valore dalle attività produttive che generano valore per la società. L’altra tesi collegata è che lo stato non deve essere considerato un peso per l’economia di mercato e un fattore improduttivo: al contrario, lo stato, in quanto rappresentante democratico della società e della comunità nazionale, ha, o comunque dovrebbe avere, un ruolo diretto e attivo nella promozione del valore e nella formazione, organizzazione e indirizzo dei nuovi mercati. Le istituzioni pubbliche non dovrebbero intervenire solo per riparare i “fallimenti di mercato” ma dovrebbero maturare la capacità politica e le necessarie competenze tecniche così da indirizzare attivamente l’economia e i mercati per affrontare i grandi cambiamenti in corso – le trasformazioni tecnologiche, la rivoluzione energetica, i cambiamenti climatici (e attualmente, ovviamente, la crisi sanitaria) – a beneficio del benessere comune.

La rendita, chiarisce Mazzucato, si esercita attraverso la proprietà e l’esercizio del controllo esclusivo di un bene essenziale e scarso (come per esempio il denaro o le conoscenze tecnologiche). Sostanzialmente la rendita è un pedaggio parassitario che pesa sul lavoro altrui, sulle attività che producono effettivamente valore.

Chi controlla la moneta o le conoscenze tecnologiche ed esercita il monopolio su di esse (un monopolio, beninteso, riconosciuto e legalizzato, addirittura protetto dagli stati) può accumulare enormi ricchezze – per decine e centinaia di miliardi, per parecchi punti di PIL – estraendo valore dalle attività intellettuali e materiali che generano valore. La critica dell’economista italo-americana appare radicale ma è scientificamente fondata a partire innanzitutto dall’analisi della teoria del valore.

La critica alle teorie del valore e il caos della finanza

Il libro parte proprio dall’analisi delle teorie del valore: che cosa è il valore? Come si crea e come si produce? Queste le prime domande del libro. Mazzucato evidenzia le due principali versioni della teoria del valore: Adam Smith, David Ricardo e Karl Marx erano economisti molto diversi tra loro ma avevano in comune almeno una tesi importante: per loro il valore deriva innanzitutto dal lavoro. Agli economisti classici, secondo la Mazzucato, si è contrapposta la scuola marginalista per cui il valore è invece determinato soggettivamente dagli individui e si esprime immediatamente nel prezzo. In sostanza secondo i marginalisti tutto ciò che ha un prezzo ha valore in quanto il prezzo esprime un livello di utilità soggettiva.

Questo però secondo la Mazzucato, impedisce di riconoscere valore a tutte quelle funzioni pubbliche (ricerca, sanità, istruzione, sicurezza, ecc) e ai lavori domestici a cui non viene attribuito un prezzo e che però rappresentano attività produttive indispensabili. Il problema è che le attività promosse dallo stato (e quelle svolte tradizionalmente dalle donne nelle mura domestiche) vengono rappresentate, secondo la logica marginalista tuttora dominante nell’economia mainstream, come improduttive o addirittura come spreco, secondo la scuola della Public Choice, perché non hanno un prezzo di mercato.

Invece attività che non generano valore – come per esempio le attività finanziarie puramente speculative e quelle immobiliari che non aggiungono nessun valore ma guadagnano solo sulle differenze di prezzo – vengono considerate come produttive, in quanto aumentano i prezzi. Le ideologie dominanti rovesciano la realtà.

Secondo la Mazzucato la finanza – invece di adempiere al compito che le assegnano i libri di scuola, cioè di finanziare le attività produttive che producono valore e innovazione, di fare incontrare l’offerta con la domanda di denaro trasformando il risparmio in investimenti – è finita in gran parte fuori controllo, si è resa autonoma e autoreferenziale rispetto al resto dell’economia, cosicché gli investimenti della finanza rimangono per la maggior parte interni al sistema e gonfiano la finanza stessa. E generano un sistema caotico e ingovernabile di scommesse improduttive.

La finanza ha abbandonato il suo ruolo di intermediazione tra risparmio e investimento ed è diventata dagli anni ’80 in poi, in particolare con la fine delle regole stabilite a Bretton Woods, un casinò: la finanza è diventata sostanzialmente una bisca in cui si scambiano scommesse. Questo soprattutto a causa di due fenomeni strettamente collegati tra loro: la cartolarizzazione dei crediti da parte delle banche (e la vendita dei titoli cartolarizzati sui mercati del sistema bancario-ombra), e l’emissione di derivati, ovvero di titoli-scommessa su altri titoli o indici sottostanti, come i tassi di interesse, il valore delle valute, i mercati azionari, delle materie prime, ecc.

La finanza domina sull’economia per quantità e dimensione di transazioni svolte e la condiziona sul piano qualitativo: da qui la finanziarizzazione dell’economia reale, non più volta solo e tanto al semplice profitto d’impresa, ma a “creare valore per gli azionisti”, a gonfiare i valori azionari, magari con operazioni di buy-back che manipolano i mercati.

Il caos della finanza ha sconvolto una decina di anni fa l’economia mondiale con la Grande Crisi dei subprime, minaccia continuamente lo sviluppo economico e condiziona tutta l’economia. Questo accade perché gli stati hanno abdicato a un compito fondame
ntale: quello di regolamentare e di organizzare i mercati finanziari e di indirizzarli verso obiettivi produttivi socialmente e ecologicamente condivisi e sostenibili.

Contabilità senza valore

È interessante e originale l’analisi che Mazzucato fa sulle regole contabili per calcolare il PIL e il loro rapporto con la finanza e le attività pubbliche. Un rapporto complesso e controverso per il quale, per esempio, le attività pubbliche sono contabilmente sottovalutate, mentre quelle attività che assorbono valore, come gran parte della finanza e delle attività immobiliari (che trasferiscono solamente la proprietà di un titolo o di un immobile da un soggetto ad un altro senza creare nulla), sono contabilizzate come produttrici di valore e come fattori importanti di incremento del PIL.

L’ideologia liberista che influenza i criteri contabili attuali ha rovesciato le parti: lo stato che produce valore e beni comuni, come la sanità, la ricerca, la scuola, la sicurezza, appare come non produttivo, mentre la finanza speculativa sembra che produca un forte incremento del PIL. Anche se invece – come hanno denunciato e denunciano anche altri autori come Susan Strange[2] e attualmente Michael Hudson[3] – la finanza speculativa è sostanzialmente parassitaria e creatrice di squilibri, di fortissime tensioni e di crisi periodiche.

In Italia solo rarissimi studiosi hanno avuto il coraggio e la competenza di andare controcorrente e di criticare il potere finanziario che domina le economie occidentali e l’eurozona. Il compianto Luciano Gallino è stato tra i pochissimi critici del “finanzcapitalismo”, cioè di un sistema che vuole creare valore monetario dalla moneta, che di per sé invece è improduttiva, e che quindi sottrae valore all’economia reale[4].

Le rendite prosperano sull’innovazione tecnologica

La speculazione finanziaria sfrutta anche e forse soprattutto i mercati dell’innovazione. “L’estrazione di valore nell’economia dell’innovazione avviene in diversi modi” avverte Mazzucato “in primo luogo nel modo in cui il settore finanziario… interagisce con il processo di creazione della tecnologia. In secondo luogo nel modo in cui si è evoluto il sistema della proprietà intellettuale…In terzo luogo nel modo in cui i prezzi e i prodotti innovativi non riflettono il contributo della collettività a tali prodotti, in campi così diversi come la salute, l’energia e la banda larga; e da ultimo attraverso le dinamiche della rete”, cioè gli effetti delle cosiddette economie di rete.

I colossi dei servizi Internet possono estrarre valore solo per il fatto di sfruttare le cosiddette economie di rete: quando infatti molti utenti utilizzano uno stesso sistema – per esempio un software operativo o un social network – dopo una certa soglia diventa praticamente impossibile per i nuovi utenti non utilizzare il medesimo sistema semplicemente perché questo garantisce la necessaria compatibilità con gli altri utenti. La legge di Metcalfe afferma che l’utilità e il valore di una rete sono proporzionali al quadrato del numero degli utenti.

L’economia di rete procura così ai primi arrivati una rendita di posizione praticamente inattaccabile. L’accumulo iniziale di utenti genera una barriera che diventa insormontabile per i competitor. Così avviene anche nel campo della raccolta di dati da elaborare con programmi di intelligenza artificiale. Gli utenti generano valore apportando i loro dati ai colossi del web, ma il valore genera profitto solo per questi ultimi. In tale modo si formano degli oligopoli privati che vivono di rendita e che bloccano la competizione di mercato e l’innovazione. Il profitto d’impresa si combina con la rendita di posizione.

Lo stato sopporta i costi della ricerca ma gli oligopoli privati guadagnano

Nell’economia della conoscenza l’innovazione deriva sempre di più dalla ricerca scientifica, e la ricerca di base in particolare è indispensabile per tutte le svolte tecnologiche nel campo microelettronico, delle comunicazioni, delle biotecnologie, delle nanotecnologiche, della chimica e della farmaceutica, ecc: ma la ricerca di base ha risultati incerti e di per sé non produce profitti diretti, e quindi è lo stato che la porta avanti e la finanzia. Poi, sulla base delle scoperte legate all’attività pubblica, nascono le imprese private di successo, come per esempio Intel, Apple, Microsoft, Ibm, e tutte le altre imprese innovatrici nelle attività di frontiera.

Il problema è che tutto il profitto dell’innovazione va ai privati mentre le spese relative all’indispensabile ricerca di base, da cui tutto nasce, sono sostenute dallo stato e dalle tasse dei contribuenti. La suddivisone dei ricavi e dei profitti tra privati e stato non rispecchia la reale divisione dei costi e dei meriti. Lo stato come al solito perde, mentre gli azionisti privati prendono tutto il valore.

In effetti “i brevetti e strumenti simili, quali i diritti di autore e i marchi, si sono trasformati da mezzi per stimolare l’innovazione a mezzi per bloccarla” scrive la Mazzucato. I problemi riguardano quattro maggiori aree cioè 1) che cosa viene brevettato 2) la lunghezza della protezione dei brevetti 3) la facilità con cui brevetti possono essere ottenuti anche per invenzioni banali 4) le ragioni per cercare la protezione dei brevetti.

I brevetti su progetti nuovi e originali, suscettibili di applicazioni industriali, vengono concessi con un doppio obiettivo: il primo è di incoraggiare le invenzioni concedendo agli inventori un diritto di monopolio limitato nel tempo sulle loro scoperte, in modo che i loro sforzi siano premiati sul piano economico e che le loro idee non vengano “rubate” e sfruttate indebitamente. Il secondo è che dopo la scadenza del brevetto l’invenzione possa diffondersi rapidamente nell’economia e quindi fertilizzare tutte le attività economiche. Il compromesso e il bilanciamento tra i due obiettivi è difficile ma il secondo obiettivo, quello di diffondere le conoscenze e le tecnologie, dovrebbe sempre prevalere sul primo.

Il problema invece è che il monopolio garantito per legge ai privati è troppo forte e tende a rafforzare i privilegi delle grandi società a scapito dei nuovi entranti e della diffusione delle conoscenze e delle tecnologie. La logica del profitto di pochi oligopoli prevale su quella dello sviluppo economico e dell’innovazione. Le grandi aziende, per esempio, comprano cluster di brevetti in modo da aumentare le barriere all’entrata nei nuovi mercati e bloccare i nuovi entranti.

Oggi l’accordo sui brevetti è diventato sbilanciato al punto che il sistema dei brevetti non aiuta più l’economia dell’innovazione ma ostacola i cambiamenti”. Le società che dominano la rete e che, grazie ai brevetti e alle economie di rete, fanno enormi profitti – come Amazon, Apple, Facebook, Google – non esisterebbero se Internet non fosse stata inventata e finanziata in ambito pubblico, come del resto tutta la microelettronica. Senza l’attività e i finanziamenti del National Institutes of Health (NIH), l’agenzia americana per la ricerca medica, molti importanti medicine non sarebbero state realizzate. Però poi i profitti legati all’attività pubblica collettiva (al general intellect) vengono privatizzati dai colossi dell’industria farmaceutica.

I prezzi dei farmaci non rispecchiano il loro valore

Secondo Mazzucato l’attuale sistema dei brevetti è particolarmente dannoso nel se
ttore dei prodotti farmaceutici. “In un settore ad alta intensità di brevetti come quello farmaceutico una più alta protezione dei brevetti non ha portato un aumento dell’innovazione in effetti è successo l’opposto: abbiamo più medicine con scarso o nullo valore terapeutico”. Mazzucato dimostra che i prezzi dei prodotti farmaceutici spesso non rispecchiano il loro valore effettivo, ma piuttosto il potere di monopolio delle grandi società. La domanda dei farmaci è generalmente anelastica, cioè indipendente dal prezzo – dal momento che tutti sono disposti a pagare qualsiasi prezzo per salvarsi la vita – e quindi i prezzi sono completamente sganciati dal valore effettivo dei prodotti.

I prezzi dei nuovi farmaci in generale non riflettono il costo per la ricerca e sviluppo o il costo di produzione ma rappresentano una fonte di rendita per le società farmaceutiche. I cittadini pagano così due volte i prodotti farmaceutici: prima per la ricerca come contribuenti, e poi, come clienti delle società oligopoliste.

L’austerità strangola l’economia perché soffoca l’attività pubblica

Mazzucato è anche (giustamente) molto critica sulle politiche di austerità imposte soprattutto nell’eurozona. L’austerità mira a comprimere le spese statali e a limitare l’ambito di attività dello stato a favore della privatizzazione dei beni comuni. Il problema è che la compressione indiscriminata delle spese pubbliche è controproducente: la riduzione delle spese statali ha un effetto negativo sia sul Pil che sullo stesso settore privato.

La crisi del 2008 è stata causata dagli eccessi della finanza speculativa e dall’alto debito privato; ma poi lo Stato è stato costretto a prendere in carico i debiti bancari privati e li ha trasformati in deficit pubblici da recuperare a spese dei cittadini e dei contribuenti tagliando le spese per i servizi sociali, le infrastrutture e la ricerca, e aumentando le tasse. Tuttavia l’austerità e il taglio della spesa pubblica hanno prodotto il congelamento dell’economia: infatti, con la contrazione della spesa pubblica, il PIL è diminuito in maniera più che proporzionale alla riduzione di spesa. Si è verificato che, in gergo, il “moltiplicatore del reddito” è superiore a uno (1): così il rapporto debito pubblico/PIL è aumentato invece di diminuire, e l’economia si è fermata o quasi.

Invece, suggerisce Mazzucato, andrebbe valorizzato il ruolo dello stato e della spesa pubblica in deficit per rilanciare l’innovazione, l’economia e i mercati. Il deficit pubblico, se ben indirizzato per produrre investimenti, ricerca e innovazione, è indispensabile per l’economia. L’austerità è invece controproducente. Deprime il ruolo innovatore e anti-ciclico dello stato. Mazzucato cita il caso dell’Italia. Dal 1991, con l’esclusione del 2009, l’Italia ha sempre avuto un avanzo di bilancio, inoltre negli ultimi vent’anni il deficit italiano è sempre stato inferiore a quello tedesco. Eppure il debito pubblico su PIL continua a crescere.

La missione innovatrice dello stato

Lo stato, secondo Mazzucato, dovrebbe riprendere a darsi – come talvolta già in passato, per esempio durante l’epoca kennediana della “Nuova Frontiera” – delle visioni e delle missioni ambiziose e attuare delle politiche volte all’innovazione in modo da fare crescere l’economia mirando alla soddisfazione dei sempre nuovi bisogni sociali. Lo stato, secondo Mazzucato, non solo non è un peso per l’economia ma anzi è indispensabile per creare valore. Senza l’intervento delle istituzioni pubbliche l’economia e l’innovazione muoiono.

In questo senso Mazzucato supera Keynes, perché, differentemente dal grande economista inglese del novecento, secondo l’italo-americana lo stato non deve intervenire solo o prevalentemente in funzione anti-ciclica, cioè per rattoppare l’economia e i “fallimenti di mercato” con l’aumento della spesa pubblica quando l’economia è in crisi. Lo stato può e deve intervenire costantemente nell’economia per stimolare l’innovazione, creare nuovi mercati, organizzare e regolamentare l’iniziativa privata in modo che sia indirizzata verso il maggiore benessere sociale.

Tre osservazioni critiche

Tre osservazioni critiche al prezioso lavoro della Mazzucato: ella dà giustamente un grande valore all’azione dello stato come creatore di valore. Ma forse la sua visione dell’azione pubblica è viziata da una valutazione eccessivamente ottimistica, di tipo illuministico. È infatti difficile che l’azione pubblica lasciata a sé stessa non si corrompa rapidamente: qui andrebbe a mio parere aperta la questione fondamentale della democrazia economica, cioè della partecipazione dei lavoratori, degli utenti, degli enti territoriali e più in generale degli stakeholder, nella gestione diretta delle attività pubbliche (e private)[5]. Altrimenti, senza dibattito e partecipazione democratica, è inevitabile che lo stato finisca con perdere le sue potenzialità innovatrici.


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Inoltre dispiace che forse non venga sufficientemente messa in luce l’opera di autori che pure a mio parere sono molto vicini alle tesi della Mazzucato, come Strange, Gallino e Hudson, o anche Ellen Brown[6] e altri.

Infine mi sembra che andrebbero approfonditi il problema della privatizzazione della moneta, e il ruolo della moneta bancaria, della moneta privata emessa dalle banche, e per converso il ruolo che potrebbe avere una moneta pubblica per rivitalizzare l’economia e l’innovazione. Sono infatti le banche commerciali – come chiarisce la Bank of England[7] – a creare dal nulla il 90% della moneta. Che è moneta privata emessa per profitto, da dover restituire come debito con interesse. Ma la moneta dovrebbe al contrario essere un bene pubblico libera dal debito. È paradossale che lo stato debba andare sui mercati finanziari per cercare il denaro necessario per i suoi investimenti, e che così si sottometta alla moneta bancaria e perda la sua autonomia. Occorre che lo stato, in un contesto di democrazia economica e di compartecipazione della società civile, possa creare una moneta pubblica. Ma questo è un altro discorso che spero di approfondire in altro luogo.

NOTE

[1] Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale, Laterza, Roma-Bari 2018,

[2] Susan Strange “Casino capitalism”: with an introduction by Matthew Watson, Manchester University Press, 2015; “Denaro impazzito. I mercati finanziari: presente e futuro”, Edizioni di Comunità, Einaudi, 1999

[3] Michael Hudson, “Killing the host” ISLET; First edition (August 20, 2015)

[4] Luciano Gallino, “Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi” 2011, Einaudi

[5] Enrico Grazzini “Manifesto per la democrazia economica” Castelvecchi, 2014

[6] Ellen Brown, “Web of Debt: The Shocking Truth About Our Money System and How We Can Break Free”, Third Millennium Press, 2007

[7] Bank of England, Quarterly Bulletin 2014 Q1 “Money creation in the modern economy” By Michael McLeay, Amar Radia and Ryland Thomas of the Bank’s Monetary Analysis Directorate.


(1 luglio 2020)




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