Come vincere la sfida del Recovery Fund: un promemoria per il governo

Pierfranco Pellizzetti

«L’innovazione è un processo collettivo
e cumulativo»[1]
Mariana Mazzucato

«Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi
e preferiremo il bene all’utile»[2]
John Maynard Keynes

Costruire futuro

Dopo aver superato in maniera convincente le trappole dalle fasi Uno e Due, riuscirà il governo Conte bis a essere all’altezza anche della fase Tre?

Se fino a oggi il premier ci aveva piacevolmente sorpreso, diventando “il più amato dagli italiani”, saprà ripetersi anche domani, affrontando la sfida del tutto differente del Recovery Fund? Provo a spiegarmi meglio: liberatosi del pesante fardello dell’invadenza salviniana durante l’alleanza giallo verde (Conte I), con il passaggio al giallo-rosa “l’avvocato del popolo” ha messo le ali esprimendo notevoli capacità mediatorie, che hanno consentito di affrontare l’incognita mondiale del Covid-19 prima e meglio di qualsivoglia altro esecutivo occidentale (Fase Uno). A seguire, esibendo rilevanti attitudini diplomatiche, ha saputo tessere un’importante rete di relazioni nel consesso europeo che hanno tratto l’Italia fuori dalla cronica marginalità, arrivando a concorrere attivamente all’elezione del presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e assumendo l’apprezzato profilo di accreditato interlocutore del Concerto di Bruxelles; tanto da portare a casa il più consistente finanziamento post pandemia (Fase Due).

La Fase Tre in arrivo – dopo la stagione del mediatore e poi del negoziatore – è quella del builder: ossia la ricostruzione di un Paese in declino già ben prima della mazzata pandemica. Quell’Italia che da decenni aveva smarrito il sentiero dello sviluppo, affondando in tutta una serie di regressioni economiche, sociali, etiche e culturali che lo hanno ridotto nella condizione di malato d’Europa: de-industrializzazione, smobilitazione delle conquiste nella protezione sociale, devastazione speculativa del territorio, deterioramento dell’etica pubblica, perdita di vigore intellettuale, espansione della malavita organizzata e diffusa. Un paese in ginocchio, mentre il sistema-Mondo affronta la più grande crisi dal 1929.

Una serie di mortali nodi scorsoi che, per essere sciolti, impongono la disponibilità di un immenso accumulo di risorse. Di cui la pur ultra cospicua dotazione del Recovery Fund non può essere che l’indispensabile innesco.

Dunque il problema della ripresa della capacità di creare ricchezza sociale, da parte di un sistema produttivo ad oggi inceppato, che diventa priorità assoluta. Nella sequenza canonica: partecipazione di tutte le risorse nazionali al discorso pubblico sul tema della competitività economica, messa a punto di idee innovative, leadership per indirizzarle alla conquista di un futuro condiviso.

Da qui la domanda: esiste il consenso per una tale rivoluzione delle mentalità? Ci sono nel sistema d’impresa energie latenti da virare a forze propulsive? Esistono energie intellettuali atte a risvegliare dal lungo letargo un Paese intorpidito nelle semplificazioni banalizzanti del Neoliberismo e dall’accreditamento delle peggiori pulsioni egoistiche? Saprà il prudente neo-moroteo Conte trasformarsi in un Roosevelt redivivo, per mettersi alla testa di un New Deal nazionale?

Purtroppo i primissimi passi non sembrano confortanti: gli Stati Generali del giugno scorso, convocati su un testo base di sconcertante vacuità, si sono rivelati un’inutile messa in scena presenzialista, i 600 e passa progetti predisposti dalle burocrazie ministeriali, come destinazione dei finanziamenti europei in auspicabile arrivo, inducono a dedurne l’assenza di un’idea-forza unificante, sostituita dai riflessi condizionati dei soliti interventi a pioggia corporativi, il riferimento alla Green Economy suona ad appiccicaticcio di maniera (e alla moda).

Un vuoto di pensiero strategico.

Quando esistono concreti precedenti di successo a cui ispirarsi.

Se il roosveltismo poteva giovarsi del patrimonio strategico messo a punto dal più grande genio economico del Novecento – John Maynard Keynes – già dalla metà degli scorsi anni Ottanta aree dell’Occidente hanno sperimentato modalità vincenti per superare la cosiddetta “crisi fordista”: il drammatico passaggio alla società post-industriale. E sempre – da FDR al sindaco di Barcellona Pasqual Maragall – trovando nella politica democratica la stella polare della costruzione orientata al futuro.

Il terribile Novecento

La tesi che qui si andrà a sostenere è che l’Italia – inesorabilmente centralistica e verticistica – e l’attuale governo potranno vincere la vitale sfida del Recovery Fund recependo gli insegnamenti di una serie di esperienze novecentesche che andrebbero considerate non alla stregua di singoli episodi quanto – piuttosto – la sequenza teorico-pratica costitutiva di un vero e proprio paradigma, fondato su un’idea diversa di riformismo; attraverso il fertile mixaggio di programmazione e civismo.

Il volto buono e generoso di un secolo terribile.

Infatti. Accertato che quanto lo storico Eric Hobsbawm chiama “Lungo Ottocento” (1780-1914) ha rappresentato la rottura di un modello di organizzazione sociale – o meglio, di una civiltà – che durava da otto-novemila anni, il successivo “Secolo Breve” (1914-2001) è il periodo storico in cui le contraddizioni e i conflitti insiti in tali rotture sono degenerati in catastrofi belliche e decimazioni sociali, devastazioni inenarrabili che suonarono campane a morto per la stessa egemonia occidentale.

Eppure, nel mondo squassato da due guerre mondiali, seguite dal crollo degli imperi coloniali e da crisi economiche di vastità senza precedenti, nel dilagare di follie tendenzialmente suicide, sono venute formandosi isole di resistenza al disastro; esperienze che proponevano in modi originali un ritorno alla ragionevolezza, declinata in pratiche politiche di costruttivismo democratico.

Che qui si suggerisce di pensarle come “sistema”: la riscoperta in forme attualizzate della politica come “discorso pubblico” e non come “tecnologia del potere”.

Sistema a “scorrimento carsico” di cui andremo a esporre i passaggi significativi; precedenti importanti per le attuali sfide politiche che ci si parano innanzi.

Si potrebbe dire, il mite Erasmo declinato nelle pratiche di coesione dopo l’overdose pluri-secolare di cinismo alla Machiavelli.

La “chiamata nazionale” del patrizio american

La prima messa in discussione politica del dogma capitalistico come individualismo possessivo, del privilegio materiale in quanto intoccabile diritto di nascita, avvenne nel punto di suo massimo radicamento – il mondo anglo-sassone – e ad opera di un esponente della sua aristocrazia borghese: Gli Stati Uniti di Franklin Delano Roosevelt, giunto alla carica di presidente nel 1933. Nel bel mezzo di una recessione di portata epocale, sino ad allora curata con scelte anti-sociali che l’avevano ulteriormente aggravata; portando il Paese sull’orlo della catastrofe. Come fu detto, «La Grande crisi distrusse per mezzo secolo il liberismo economico» e l’eliminazione della disoccupazione di massa divenne l’obiettivo di un capitalismo riformato in senso democratico[3]. E qui arriva FDR, sulla scia del cugino Theodor e di Woodrow Wilson (che definiva “il comandante in capo”), ribaltò completamente l’analisi: «la catastrofe era radicata nella specu
lazione finanziaria, nella ricerca ossessiva del profitto a vantaggio di ristrette minoranze, nell’aumento di una produzione che le masse lavoratrici non erano in grado di assorbire dati i loro redditi del tutto insufficienti»[4]. Da qui la mossa – per l’epoca assolutamente sorprendente – del varo di un vasto programma di opere pubbliche allo scopo di creare occupazione e operare redistribuzione monetaria attraverso i salari. La più iconica di tali iniziative fu la creazione di una Tennessee Valley Autority (Tva), affidando un ruolo attivo alla pubblica amministrazione statale che scandalizzò i fautori del tradizionale individualismo americano. Da cui tutti gli inciampi ai programmi innovativi creati dai consolidati preconcetti della cultura dominante che si dovettero superare.

Nella survey sull’esito dell’operazione Tva, coordinata dal celebre sociologo dell’organizzazione Philip Selznick negli anni tra il 1942-43, si sottolineava che la primaria condizione di successo dell’iniziativa era stata la scelta di instaurare un fertile rapporto tra istituzioni federali e organizzazioni private locali: «in realtà l’Ente doveva adattarsi non tanto alla popolazione in genere, quanto alle istituzioni realmente esistenti che hanno il potere di spianarle o sbarrarle la strada»[5].

Da qui la necessità di affiancare al superamento della distinzione tra pubblico e privato un secondo aspetto essenziale; anche nelle fasi odierne: la spinta motivazionale offerta dalla comunicazione. Già nel 1932 Roosevelt dichiarava che la strategia proposta «più che una campagna politica è una chiamata alle armi, una crociata». Il New Deal come narrazione destinata a trasformarsi in epopea.

Datemi un punto d’appoggio…

Una politica partecipata che si orienta al futuro impone scelte coerenti con le vocazioni, gli accumuli storici di competenze, i saperi delle comunità che sono chiamate a metabolizzarle in progresso.

In altre parole, decisioni che privilegino settori specifici e non generici fattori da finanziare a pioggia. Anche perché, in una competizione che non si riduca all’abbattimento distruttivo del costo, ciò che fa premio è la capacità di offrire alla domanda di mercato prodotti/servizi eccellenti, al limite unici.

Valga come riprova a contrario il fallimento nel secondo dopoguerra delle politiche italiane destinate al Mezzogiorno, finalizzate a installarvi industrie di base incompatibili con il genius loci. E che produssero soltanto disastrose cattedrali nel deserto e sprechi incalcolabili di pubblico denaro.

Suoni – invece – a conferma la scelta dello Stato francese di indirizzare il proprio sistema produttivo alla specializzazioni nel settore dei trasporti pubblici. Difatti è su impulso pubblico che veniva messa a punto nel 1958 dalle industrie d’oltralpe il primo Caravelle, l’aereo a reazione a corto raggio. Battistrada dell’impegno promosso da un consorzio europeo nel 1970 per produrre a Blagnac (Tolosa) l’Airbus, velivolo destinato al mercato dei jet di linea. Oggi il governo Macron destina 15miliardi di euro a sostegno dell’aerospaziale. Ma la strategia per l’egemonia di settore non si limita all’avionica. Nel 1981 – grazie a finanziamenti governativi – iniziava a correre lungo la tratta Parigi-Lione il primo modello di TGV (Train à Gran Vitesse), e ad oggi la rete ferroviaria europea si dirama dal nodo centrale ubicato a Parigi, a riprova della conquistata egemonia continentale di settore. Non dimenticando la metropolitana automatica di Lille leader europeo, inaugurata il 25 aprile 1983 su sistemi pneumatici Val della società transalpina Matra.

Più recente, ma altrettanto significativa, la specializzazione competitiva della Finlandia nel settore della telefonia cellulare, trainata dal successo internazionale di Nokia Oyj grazie allo standard mobile GSM del 1987. Al suo apice – nel 2000 – Nokia da sola rappresentava il 4% del PIL e il 21% del totale export finlandese.

Omaggio alla Catalogna

L’obsolescenza della pianificazione tradizionale – cui aveva fatto seguito la controversa (oggi da molti giudicata “disastrosa”) fase della deregulation neoliberistica anni Ottanta e Novanta – ha contribuito all’adozione delle cosiddette “politiche volontaristiche” che valorizzano la capacità dei territori di sviluppare strategie autonome di sviluppo. Infatti, la crisi della pianificazione “totalitaria” (che sostituisce il mercato) da un lato, di quella “razionale” (costruita secondo gerarchie di obiettivi) dall’altro, ha aumentato lo spazio a disposizione di azioni strategiche da parte del governo locale. Una nuova frontiera delle politiche volontaristiche è rappresentata dalla pianificazione strategica. Nata come strumento di diagnosi e pilotaggio aziendale, oggi diventa una forma praticata da entità pubbliche, agenzie, governi locali. Che così viene definita: «la pianificazione strategica è un modo per indirizzare il cambiamento sulla base di un’analisi collettiva di una situazione e della sua possibile evoluzione, e su una strategia di investimenti in alcuni punti critici delle risorse limitatamente disponibili. La diagnosi prende in considerazione gli investimenti (globalizzazione), il territorio (nelle sue dimensioni variabili) e l’amministrazione (o il sistema di enti pubblici). Particolare considerazione è attribuita alle dinamiche e agli interventi in atto, alla domanda sociale, ai suoi punti critici, a eventuali ostacoli o colli di bottiglia, e al potenziale. La diagnosi viene utilizzata per determinare situazioni prevedibili, possibili scenari e assetto ottimale, come punto di partenza per tracciare un progetto mirato. La realizzazione include l’identificazione degli obiettivi, l’implementazione di una linea strategica e alcuni progetti specifici a breve termine (programmi economici o sociali, misure amministrative, campagne civiche, ecc.)»[6]. Attraverso tali azioni il governo locale contribuisce a costruire e orienta al futuro le mete collettive. I principali attori di mercato – imprese, associazioni, interessi – sono visti come portatori di istanze rispetto alle quali la pianificazione offre un luogo di confronto, verifica e sintesi. Ma anche una forma di comunicazione, sia all’interno sia all’esterno della città: funziona da forum degli interessi e insieme da agenzia di marketing che presenta un’immagine condivisa di collettività locale a utenti e investitori[7].

Il primo esempio di pianificazione strategica territoriale nel nostro continente è stato quello catalano (Barcellona, 1988), cui hanno fatto seguito almeno una cinquantina di Piani di grandi città europee, tra gli ultimi dei quali troviamo quello di Londra.

La totalità di tali esperienze – infatti – conferma l’importanza crescente che assume, per il governo locale, la capacità di fare sistema, coordinando al meglio una pluralità di decisori. Un’esperienza ormai codicizzata nei suoi cinque passaggi:

  1. aggregazione del consenso attraverso una discussione civica orientata,
  2. creazione di una cabina di regia composta dalle istituzioni pubbliche e private più rappresentative (nel proto-modello di Barcellona le dieci più importanti istituzioni della città: Comune, Camera di Commercio, associazioni imprenditoriali e sindacali, Consorzio industriale e Fiera, Università e Circolo di Economia),
  3. passaggio a una fase progettuale che individui le vocazioni territoriali da virare a locomotive di sviluppo,
  4. verifica delle linee strategiche emerse in un vasto forum dell’associazionismo locale come sede deputata a coltivare fiducia reciproca e cooperazione (a Barcellona era un’assemblea generale composta da 193 istituzioni economiche, sociali e culturali),
  5. varo di azioni mirate (e affiancate da un opera di costante riscaldamento dell’idea, evidenziata dal processo, di territorio come identità comune).

Un Piano Strategico Territoriale – dunque – è uno strumento profondamente innovativo rispetto alle forme pianificatorie tradizionali: non un piano normativo bensì un piano d’azione; una plausibile congettura di specializzazione territoriale come motore di sviluppo competitivo.

Quanto indicava – appunto – Barcellona, aggiornando la tradizionale vocazione d’area (essere la porta di entrata/uscita del mercato iberico) nell’idea di realizzare una città nodale che fungesse da polo commerciale dell’intero Mediterraneo attraverso una rete di alleanze tra porti spagnoli e retroterra (le piattaforme logistiche catalane sono in Castiglia: il Puerto Seco di Barajas, alle porte di Madrid); Lione, grazie alla costituzione di Tecnopoles, candidandosi ad attrarre nel Röne-Alpes l’hi-tech; Lisbona, con il piano del 1992 centrato su “sei assi di sviluppo”, proponendosi un rinnovamento/specializzazione del tessuto economico con particolare attenzione al turismo (principalmente congressuale); Stoccarda, capitale del Baden-Württemberg, puntando sul trasferimento tecnologico come sull’eccellenza scientifica e formativa assicurata da istituzioni quali la Fondazione Stembeis, con i suoi 200 poli decentrati presso i 23 istituti tecnici e politecnici del Land. Come nel Piano di Londra, approvato il 10 febbraio 2004 e guidato dalla visione «di bilanciare e integrare tre direttrici di sviluppo – sociale, ambientale ed economica – quali componenti fondamentali di una ‘città sostenibile’»[8].

Nelle varie declinazioni territoriali, il principio comune che l’uscita dalla crisi passa attraverso vaste coalizioni sociali pubbliche e private, che condividono risorse di conoscenza e operatività per progetti condivisi, sotto la regia dell’amministrazione.

Barca interruptus

Nell’Italia centralistica e consacrata al controllo sociale all’insegna del quieta non movere, l’unico tentativo in contro-tendenza che si ricordi è quello del Ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca, nel governo “tecnico” presieduto da Mario Monti (in carica dal 16 novembre 2011 al 28 aprile 2013). Ossia l’avvio di azioni coordinate per un processo di sviluppo/progresso democratico finalizzato al combinato disposto sinergico coesione/innovazione; operativo “sul campo” grazie a una task force coordinata dal public servant Giovanni Vetritto, capo della segreteria ministeriale ed esperto di politiche urbane.

A tale scopo veniva avviata un’azione esplorativa per disegnare una mappa atta a misurare tendenze, predeterminare interventi, evidenziare occasioni su scala locale. Tale azione partiva dalle regioni cosiddette “in ritardo di sviluppo” (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sicilia) e dalle “aree interne”, pari ai 3/5 del territorio nazionale, dove rilanciare crescita e lavoro attraverso l’uso di risorse attualmente male utilizzate; promuovendo la diversità culturale grazie all’apertura all’esterno. Tale ricerca, riscattando la qualità dell’azione pubblica, mirava a migliorare la produttività dei territori e a contrastare le “trappole del non-sviluppo”.

Il 20 marzo 2013 il ministro Barca presentava un documento riassuntivo del lavoro svolto (“Metodi e Contenuti sulle Priorità in tema di Agenda Unica”) che, partendo dall’analisi dei diversi contesti urbani, proseguiva con la proposta di una possibile Agenda Urbana al fine di superare le criticità e definire soluzioni da presentare al tavolo comunitario per l’uso dei fondi 2014-2020.

Il mese successivo (28 aprile) cadeva il governo Monti e – con esso – si interrompevano le azioni promosse dal Ministero della Coesione territoriale.

Dichiara uno dei protagonisti di quella breve stagione: «un sostanziale tradimento. Sulle città non si è mossa foglia, sulle aree interne tutto si è ridotto a riciclare vecchi strumenti come i patti territoriali. Sul rilancio rivolto ai luoghi niente di niente».

Le regole che emergono dall’excursus: un pro-memoria per il governo

Dunque, un’esperienza consolidata da quasi un secolo, quella delle politiche newdealistiche; eppure sistematicamente ignorata dalla nostra cultura politica.

Da cui trarre utili insegnamenti riflettendo sulle seguenti indicazioni di massima:

  • Le politiche roosveltiane dimostrano già dagli anni Trenta quale possa essere il ruolo attivo svolto dal capitale pubblico, grazie alla natura “paziente” dei suoi investimenti. Dunque, l’orientamento di lungo periodo come finestra temporale essenziale per il successo del progetto. A fronte di un capitale privato geneticamente “impaziente”; dunque portato a privilegiare la speculazione a breve. Un ripensamento nella divisione del lavoro per l’azione socio-economica teorizzato da Keynes nel suo La fine del Laissez-faire del 1926: «i più importanti Agenda dello Stato riguardano non quelle attività che i privati sanno già adempiere, ma quelle decisioni che non sono prese da nessuno se non è lo Stato a prenderle»[9];
  • Ancora: la vicenda del New Deal evidenzia la funzione primaria della leadership nella costruzione di cornici di senso mobilitanti, attraverso la narrazione dell’impresa collettiva che si va a intraprendere: l’epopea della sfida da cui si uscirà vittoriosi grazie al ritrovato spirito di coesione;
  • I successi nazionali del secondo dopoguerra nel riposizionamento competitivo derivano dalla concentrazione delle risorse individuando settori specifici su cui puntare. Secondo Mariana Mazzucato «la storia del progresso tecnico ci insegna che è assolutamente cruciale scegliere un settore piuttosto che un altro. Internet non sarebbe mai nato se la Darpa [Defence Avanced Research Projects Agency] non l’avesse scelta, e lo stesso vale per le nanotecnologie»[10];
  • Le esperienze di programmazione strategica territoriale dimostrano come le innovazioni in materia di specializzazione territoriale abbisognino di alleanze nel sociale realizzate sotto la regia del soggetto pubblico. In particolare di luoghi attrezzati (milieux) in cui in cui le comunità del sapere e quelle d’impresa possano incontrarsi per la fertilizzazione reciproca[11].

Infine, alla luce della sconfortante esperienza legata all’esperienza ministeriale di Fabrizio Barca, arriva a puntino il suggerimento di un grande sociologo dello sviluppo, Albert Hirschman: «il cambiamento può avvenire soltanto per sorpresa. Altrimenti verrebbe schiacciato dalle forze favorevoli allo status quo»[12].

NOTE
[1] M. Mazzucato, Lo Stato innovatore, Laterza, Bari 2014 pag. 270
[2] J. M. Keynes, Esortazioni e profezie, il Saggiatore, Milano pag. 272
[3] E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995 pag. 118
[4] M. L. Salvadori, L’Europa degli americani, Laterza Roma/Bari 2005 pag. 544
[5] P. Selznick, La leadership nelle organizzazione, Angeli, Milano 1976 pag. 106
[6] J. Borja e M. Castells, La città globale, De Agostini, Novara 2002 pag. 142
[7] P. Perulli, La città delle reti, Bollati e Boringhieri Torino 2000, pag. 96
[8] P. Pellizzetti e G. Vetritto, Italia disorganizzata, Dedalo, Bari 2006 pag. 121
[9][9] J. M. Keynes, Sono un liberale?, Adelphi, Milano 2010 pag. 222
[10] M. Nazzucato, Lo Stato innovatore, cit. pag. 44
[11] M. Castells, La nascita della società in rete, Università Bocconi Rditore, Milano 2002 pag. 448
[12] A. O. Hirschman, Autosovversione, il Mulino, Bologna 1997 pag. 172
(7 ottobre 2020)




MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.