Con il NO crollerà l’economia? NO, nessuna crisi con la moneta fiscale!
Enrico Grazzini
Sia che al referendum costituzionale vinca il NO – come è sicuramente auspicabile – sia che invece vinca il SI, l’emissione di Moneta Fiscale da parte del governo italiano costituisce lo strumento più immediato ed efficace per superare la crisi delle banche e dell’economia italiana. Tuttavia l’introduzione di una moneta complementare (non alternativa) all’euro diventerebbe ancora più urgente e indispensabile se vincesse il NO, se cioè – per motivi sostanzialmente politici – dopo la prevedibile caduta del governo Renzi, amico della grande finanza, si scatenasse la speculazione finanziaria contro l’Italia.
Se la situazione precipitasse, l’emissione di Titoli di Sconto Fiscale – ovvero di titoli garantiti dal loro valore fiscale futuro, ma immediatamente convertibili in euro e utilizzabili come moneta –, potrebbe garantire la ricapitalizzazione e la nazionalizzazione delle banche in crisi (in primis il Monte dei Paschi di Siena) mettendo in sicurezza il risparmio di milioni di italiani. Inoltre, al di fuori dell’emergenza immediata, i TSF, distribuiti alle famiglie, alle imprese e agli enti pubblici, potrebbero rilanciare i consumi e gli investimenti, e quindi allontanare lo spettro del default dello stato italiano.
Non c’è alcun dubbio che il pericolo più urgente deriva oggi dal nostro sistema bancario. La responsabilità è dei governi italiani e della Banca d’Italia, che hanno sempre sottostimato l’impatto rovinoso della crisi finanziaria globale e hanno supinamente accettato le regole suicide dell’austerità dell’eurozona e le norme assurde dell’Unione bancaria europea.
Senza un deciso intervento pubblico, sia di tipo monetario che fiscale, non si esce dalla crisi. Nelle patrie del liberismo, negli Usa e in UK, appena si è scatenata la crisi dei subprime, i governi hanno investito centinaia di miliardi di soldi pubblici per ricapitalizzare gli istituti finanziari. E hanno attuato (almeno inizialmente) grandi manovre fiscali espansive per rilanciare l’economia. In molti casi negli USA e in UK le grandi banche e le assicurazioni sono state di fatto nazionalizzate e poste, almeno temporaneamente, sotto la guida della mano pubblica.
In Germania il governo ha speso 250 miliardi di euro per mettere in sicurezza le banche nazionali. In Spagna il sistema bancario è stato salvato con 52 miliardi di soldi dell’Europa (anche l’Italia ironicamente ha speso miliardi per salvare le banche concorrenti spagnole). Ma oggi l’Unione Europea proibisce gli aiuti di stato; e da sempre impedisce con la sua politica di assurda austerità manovre fiscali espansive. Quindi la UE condanna in un solo colpo sia le banche che l’industria italiana.
La responsabilità della gravissima situazione delle banche italiane è dei governi Berlusconi, Monti, Letta, e Renzi, oltre che, ovviamente, dei dirigenti bancari corrotti che hanno messo in dissesto i loro istituti. I nostri politici si sono subordinati passivamente alle suicide regole dell’eurozona e hanno continuato, e continuano ad affermare – come fanno oggi Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan – che tutto va bene e che la situazione è sotto controllo. E continuano a immaginare soluzioni solo ed esclusivamente basate su capitali privati. Ma la teoria economica insegna che, in caso di crisi, solo lo stato e la sua banca centrale possono garantire in ultima istanza le banche commerciali e il bene pubblico del risparmio.
Lo sciocco e inefficace dogma liberista è stato messo da parte dai liberisti anglosassoni per affrontare la crisi, ma viene invece ciecamente seguito dall’Unione Europea e dai politici della provincia italiana. E quindi la crisi rischia di precipitare. Purtroppo però non c’è dubbio che sul piano politico la vittoria del NO costituirebbe un fattore di ulteriore incertezza, e che nel breve termine il successo del NO potrebbe rischiare di far precipitare la precaria situazione delle banche italiane. Da qui la necessità di avere soluzioni pronte e innovative, come la Moneta Fiscale, per rimettere subito in sesto l’economia in una situazione di possibile emergenza.
Esistono pochi dubbi che se vincesse il NO la speculazione internazionale – e i recenti articoli del Financial Times sulla crisi delle banche italiane lo dimostrano – spingerebbe verso l’alto lo spread, ovvero il differenziale del tasso di interesse tra i titoli di stato, tra i Bund tedeschi e i BTP italiani. Un attacco speculativo sulle banche potrebbe rendere insostenibile anche l’enorme debito pubblico italiano. In uno scenario estremo, ma certamente possibile, l’Italia potrebbe uscire dall’euro e, se questo avvenisse, l’euro salterebbe automaticamente.
Dal momento che la moneta unica europea è la seconda valuta di riserva nel mondo dopo il dollaro, si scatenerebbe il caos globale. Una sorta di Armageddon, come vuole appunto la teoria del caos, secondo la quale il battito delle ali di una farfalla in Giappone può provocare un uragano in Europa. Un evento minore di carattere locale, come il referendum italiano, può quindi scatenare catastrofi globali. Il guaio è che è dimostrato che la teoria del caos è vera.
I sostenitori del governo Renzi e del SI al referendum agitano proprio questo pericolo incombente: “Elettori” dicono “se non approvate la nuova Costituzione che il premier ha scritto d’accordo con Berlusconi e Verdini, ci sarà il finimondo e voi starete peggio. Votate sì perché altrimenti il governo cadrà e si scatenerà una nuova grande crisi finanziaria”.
La verità è, al contrario, che il governo Renzi, insistendo a tutti i costi per cambiare la Costituzione a suo vantaggio e dividendo il Paese, ha messo irresponsabilmente in pericolo la stabilità dell’economia e della politica italiana lasciando campo libero alla speculazione. Il ricatto del governo è da respingere: un nuovo sistema costituzionale, il pilastro della nostra convivenza civile, non può essere votato solo perché banche come JP Morgan, Deutsche Bank, o Goldman Sachs vorrebbero un governo e un sistema di governo favorevole ai loro interessi.
Non si può approvare la Legge Fondamentale della comunità nazionale subendo la minaccia delle grandi banche d’affari internazionali! Non si può rinunciare alla Costituzione nata dalla Resistenza solo perché altrimenti cadrebbe un governo, quello di Renzi, e si aprirebbe un vuoto politico! La Costituzione è molto più importante del governo in carica! Occorre quindi dire NO al ricatto.
Tuttavia bisogna anche essere pronti ad affrontare il pericolo: è chiaro infatti che se vincesse il NO, le istituzioni finanziarie internazionali metterebbero nel loro mirino il nostro Paese. L’Italia costituisce l’anello debole dell’eurozona a causa delle sue banche sommerse dai debiti. Se fallisse la ricapitalizzazione di MPS, la terza banca italiana che ha ben 27 miliardi di prestiti in sofferenza, probabilmente si aprirebbe una voragine.
Il rischio concreto è che il sistema bancario nazionale crolli come un castello di carta, considerando i gravi problemi di altre banche italiane come Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Carige, Banca Etruria, CariChieti, Banca delle Marche, CariFerrara; e considerando anche che Unicredit deve raccogliere sul mercato per ricapitalizzarsi qualcosa come 10-13 miliardi di euro. E’ attualmente già molto complesso trovare i capitali privati per ricapitalizzare MPS: indubbiamente diventerà molto più difficile salvare la banca in una situazione di incertezza politica post-referendaria. La crisi del sistema bancario potrebbe trascinare immediatamente con sé il crollo dell’economia
reale.
Recentemente Beppe Grillo e altri rappresentanti dei 5 Stelle (come Luigi Di Maio e Carla Ruocco) hanno rassicurato affermando che se vincerà il NO non cadrà la borsa, non cadrà l’Italia, e che la finanza apprezza chi “a priori non è nemico di nessuno e ha le idee chiare”, come appunto il Movimento 5 Stelle. Ma questo può rivelarsi un’illusione: infatti la finanza premia solo chi appartiene al suo mondo e a chi fa i suoi interessi. La finanza agisce in base a criteri politici.
Per esempio: sembrava che la borsa dovesse precipitare con l’elezione di Donald Trump alla presidenza americana. Invece dopo le elezioni la borsa di Wall Street è salita: con sicuro istinto di classe la finanza ha premiato Trump, uno spregiudicato speculatore immobiliare del tutto contiguo alla speculazione finanziaria. Non illudiamoci: la borsa in Italia invece non brinderà se vincerà il NO! La grande finanza teme il Movimento 5 Stelle e non crede (giustamente) che la speculazione potrà avere mano libera se i 5 Stelle si avvicinassero al governo.
Esistono purtroppo pochi dubbi che se il NO vincesse l’economia italiana verrebbe presa di mira dai mercati internazionali.Non è certo che si scatenerebbe subito l’inferno, forse l’Italia non cadrebbe immediatamente nel precipizio, ma la crisi, a partire dalle banche, si aggraverebbe notevolmente. E, al di là delle evidenti e interessate esagerazioni da parte dei sostenitori del SI, il pericolo che l’Italia precipiti è reale.
Gli scenari economici e finanziari del post-referendum
Il problema, come noto, è che le banche italiane sono gravate da 360 miliardi lordi di prestiti dubbi, difficilmente recuperabili. Di questi 360 miliardi circa 200 miliardi sono praticamente persi. Il 18% circa dei prestiti erogati complessivamente non vengono restituiti. La crisi economica europea – dovuta all’architettura soffocante dell’euro, alla politica restrittiva e neocolonialista da parte del capitalismo tedesco (l’unico che guadagna dalla crisi) e alla stupida proibizione da parte delle istituzioni UE di effettuare manovre espansive per sollevare l’economia – ha provocato il fallimento di decine di migliaia di piccole e medie imprese e l’impossibilità da parte di molte famiglie di restituire i mutui contratti per acquistare l’abitazione.
L’austerità provoca le crisi dell’economia reale e quindi la crisi dei prestiti bancari. Ma la causa della crisi è anche l’Unione bancaria europea, le cui norme impongono anche ai piccoli risparmiatori di pagare per i dissesti bancari di cui non hanno alcuna colpa e responsabilità. L’Unione bancaria pretende che lo stato possa intervenire in caso di crisi di una banca solo dopo che sono stati penalizzati anche i privati. Se quindi lo stato si muove per salvare una banca provoca subito danni anche a risparmiatori innocenti. Da qui – oltre che per i problemi interni su cui sta indagando la magistratura – la crisi del sistema bancario nazionale.
Ma il peggio è che la crisi delle banche italiane è aggravata dal problema storico del debito pubblico. Le banche internazionali, che controllano circa un terzo, cioè circa 700 miliardi, del nostro enorme debito pubblico, pari a oltre 2300 miliardi, potrebbero vendere i loro titoli e fuggire per timore che i nuovi governi post referendum non riescano più a garantire la restituzione del debito. In una fase di grande incertezza politica, lo stato italiano avrà molta più difficoltà a finanziarsi sul mercato.
E’ chiaro che se vincesse il NO si aprirebbero scenari politici meno rassicuranti per i grandi operatori finanziari rispetto alla permanenza del governo di Matteo Renzi. Probabilmente si terranno nuove elezioni e ci saranno nuovi governi. A quel punto – in una situazione di incertezza politica in Italia, e di crescente difficoltà sul futuro della Europa dopo l’elezione di Donald Trump negli USA – Bruxelles e Berlino si irrigidirebbero ulteriormente e reclamerebbero il pieno rispetto da parte dell’Italia della politica suicida dettata dalla UE. E’ realistico prevedere che la UE e il governo tedesco pretenderebbero ancora più sacrifici dall’Italia.
Sul piano delle politiche economiche, in Italia le alternative potrebbero essere:
a) una politica ancora più dura di lacrime e sangue, un governo simil-Monti al quadrato, con aumento delle tasse e dell’austerità, ma il popolo italiano si ribellerebbe e ci sarebbero forse barricate sulle strade;
b) la crisi delle banche e del debito pubblico e il conseguente commissariamento dell’economia italiana. Accadrebbe in Italia qualcosa di analogo a quanto avvenuto in Grecia: l’intervento della Troika (Banca Centrale Europea, UE e FMI). In Germania molti politici ed economisti auspicano che la spendacciona Italia venga punita per i suoi debiti;
c) l’uscita (improbabile, almeno nel breve periodo) dell’Italia dall’euro, condotta magari da un governo guidato dall’attuale opposizione, un governo dei 5 Stelle o, con minori possibilità, dal centro-destra di Salvini-Berlusconi. L’uscita dall’euro sarebbe comunque molto dolorosa e spaccherebbe il popolo italiano;
d) c’è una quarta possibilità, ed è senz’altro la migliore e la più auspicabile: un governo coraggioso potrebbe emettere una moneta complementare all’euro (ripetiamolo: non alternativa all’euro, ma complementare) per rilanciare l’economia e salvare le banche italiane, MPS in testa.
I 5 Stelle di Beppe Grillo propongono molto giustamente – primo firmatario del progetto di legge il deputato Alessio Villarosa – di istituire una banca pubblica per finanziare le piccole e medie aziende. Ma questo richiede tempo. L’unica arma concreta, immediata ed efficace che un nuovo governo potrebbe utilizzare per evitare la crisi è l’emissione di Moneta Fiscale.
La moneta fiscale – ovvero l’emissione di un Titolo di Sconto Fiscale differito da parte del governo, convertibile in euro e distribuito gratuitamente alle famiglie, alle imprese e agli enti pubblici – rappresenterebbe l’ancora di salvezza, il contributo decisivo e indispensabile per evitare la possibile catastrofe.
Non a caso la Moneta Fiscale è stata promossa tra gli altri dal compianto (ma inascoltato) Luciano Gallino, il grande sociologo che è stato certamente la testa più lucida della sinistra italiana anche nel campo dell’analisi economica del finanzcapitalismo. Gallino auspicava che lo stato recuperasse almeno parte della sovranità monetaria monopolizzata dal sistema bancario (oggi in grave difficoltà) e dalla Banca Centrale Europea[1].
La Moneta Fiscale per rilanciare l’economia reale e i redditi delle famiglie
Il problema è: se vince il NO con quali soldi lo stato italiano può intervenire immediatamente per ricapitalizzare le banche in crisi ed evitare il possibile dissesto finanziario? Se gli investitori esteri fuggono, dove trovare la moneta per difendere la sofferente economia italiana e salvare il sistema bancario? L’Italia non ha più una sua moneta perché ha ceduto la sovranità monetaria alla Banca Centrale Europea. Lo stato non può più aumentare le tasse (ci sarebbe una rivolta popolare) e non può più neppure indebitarsi: ha già un debito troppo elevato, pari al 133% del PIL.
In caso di crisi grave, la Banca Centrale Europea di Mario Draghi che in teoria dovrebbe prestare o stampare moneta per contrastare la speculazione, non ci potrà soccorrere. Caso unico al mondo, la BCE è una banca centrale che non può intervenire per salvare gli stati per i quali emette moneta dagli attacchi spe
culativi e da crisi di liquidità. Il suo statuto (deciso a Maastricht, insieme alla moneta unica) gli impedisce formalmente di monetizzare i debiti di stato. Tuttavia la BCE ha finora indirettamente coperto gli stati europei (tra i quali l’Italia) grazie al Quantitative Easing, il programma di espansione monetaria con il quale finanzia le banche europee che a loro volta acquistano i titoli di debito pubblico. Grazie al QE le banche italiane e il debito pubblico italiano sono quindi in parte protetti. Ma il QE scadrà a marzo e, anche se verrà prevedibilmente prolungato, non durerà in eterno. Prima o poi il supporto della BCE finirà, e allora i titoli italiani si troveranno completamente in balia del mercato internazionale.
L’unica soluzione per trovare le risorse necessarie a risolvere i problemi dell’economia e della finanza italiana è allora la moneta fiscale. La Moneta Fiscale tuttavia non è una vera e propria moneta, ma un titolo di natura fiscale che può funzionare anche come strumento monetario. E’ un Titolo di Sconto Fiscale (TSF) denominato in euro, utilizzabile per pagare le tasse dopo due anni dall’emissione e negoziabile (come qualsiasi altro titolo) e quindi immediatamente convertibile in euro, proprio come i Bot e i Btp. Il TSF si può quindi subito trasformare subito i capacità di spesa, in consumi e in investimenti pubblici e privati, anche se matura dopo due anni dall’emissione. La moneta complementare restituirebbe immediatamente ossigeno al sistema economico italiano intrappolato in una tremenda crisi di liquidità. E fornirebbe nuova capacità di spesa allo stato anche per difendere il sistema bancario.
L’emissione di TSF dovrebbe essere pari al 2-3% del PIL (circa 30-40 miliardi) e provocare un salutare shock monetario per rilanciare rapidamente la domanda e riavviare l’economia. Mediobanca Securities in un report ha affermato che con i TSF il Pil crescerebbe del doppio senza squilibrare il bilancio pubblico e la bilancia commerciale[2]. Il PIL potrebbe crescere del 3% già nel primo anno di introduzione.
I TSF verrebbero distribuiti gratuitamente alle famiglie in proporzione inversa al reddito in modo da incrementare i consumi e sostenere i redditi delle famiglie meno privilegiate; e verrebbero assegnati gratuitamente alle aziende, in proporzione al numero dei dipendenti, in modo da ridurre in maniera significativa il costo del lavoro e il cuneo fiscale (come è possibile in base alle regole europee), e dare nuova competitività alle imprese soprattutto di fronte ai concorrenti esteri. Così si manterrebbe l’equilibrio della bilancia commerciale.
I TSF sono del tutto compatibili con i trattati e le norme europee perché in campo fiscale lo stato italiano è sovrano e perché l’emissione di questi titoli non crea nessun debito. Infatti, i TSF, essendo sconti fiscali non rimborsabili in euro da parte dello stato, secondo i criteri Eurostat sul piano contabile non costituiscono posta di debito. Al momento dell’emissione i TSF non sono quindi conteggiati come debito pubblico, a differenza degli altri titoli di stato come i Bot e i BTP.
Ma quello che è più importante è che sul piano fattuale, dopo due anni dall’emissione la moneta fiscale si autofinanzia grazie alla forte crescita del PIL. Infatti il moltiplicatore keynesiano garantisce la compensazione del potenziale deficit che deriverebbe dagli sconti fiscali utilizzati alla scadenza dei TSF. La legge del moltiplicatore indica che, in situazioni di sottoconsumo, se si introduce nuova domanda per 1 euro, si ottiene una crescita del PIL superiore a 1. E la storia dimostra che il moltiplicatore è particolarmente elevato in una situazione, come quella attuale, di forte sottoutilizzazione delle risorse produttive, di fabbriche ferme, di elevata disoccupazione e di tasso di interesse tendente allo zero.
Il governo italiano potrebbe legittimamente emettere i TSF in piena autonomia sfuggendo alla morsa di Bruxelles e Berlino. Infatti il Parlamento e il governo potrebbero emettere i TSF senza chiedere ex ante il permesso alle istituzioni UE, proprio perché sono strumenti fiscali che non aumentano il debito. L’economia riprenderebbe a crescere in un contesto di grande consenso sociale.
L’emissione di questo titolo/moneta metterebbe in sicurezza il bilancio pubblico e quindi allontanerebbe lo spettro del default di fronte agli investitori esteri. Si abbasserebbe immediatamente il rapporto debito/PIL, e questo non potrebbe che essere apprezzato positivamente dai mercati. La moneta complementare potrebbe poi essere adottata con successo dagli altri paesi europei, senza bisogno di mettere in discussione l’appartenenza all’eurozona.
Nazionalizzare MPS
La moneta fiscale dovrebbe essere utilizzata anche per nazionalizzare MPS e per ricapitalizzare le banche in sofferenza, cambiando completamente i vertici degli istituti bancari che hanno fatto speculazioni folli e i manager che si sono dimostrati inefficienti e corrotti. E salvando i piccoli risparmiatori che hanno messo ingenuamente i soldi nelle banche in crisi magari perché mal consigliati dai funzionari allo sportello bancario.
Il governo Renzi si sforza di trovare nuovi azionisti per MPS. Ma non è già facile trovare nuovi soci privati che sborsino 5 miliardi per ricapitalizzare l’istituto senese che in borsa vale ormai solo circa 600 milioni di euro e che ha 27 miliardi di prestiti in sofferenza. Marco Morelli, il nuovo amministratore delegato di MPS voluto dal governo (e da JP Morgan), bussa alla porta di Generali, degli emiri del Qatar, dei finanzieri George Soros e John Paulson, degli hedge fund speculativi. Ma chi accetterà di correre il rischio MPS vorrà una forte ricompensa, e soprattutto garanzie e agevolazioni (dirette o indirette) da parte dello stato per l’assorbimento dei 27 miliardi di sofferenze. Lo stato sarà il vero garante della ricapitalizzazione. I privati – se mai metteranno i loro soldi – entreranno nel capitale di MPS solo se guadagneranno con la garanzia dello stato.
La soluzione migliore è allora la nazionalizzazione di MPS. Lo stato ha già una quota del 4% di MPS e potrebbe ricapitalizzare la banca attraverso l’emissione diretta di moneta fiscale o attraverso la Cassa Depositi e Prestiti, rimborsando per le eventuali perdite i risparmiatori-obbligazionisti minori. Il governo dovrebbe anche conseguentemente denunciare l’Unione bancaria europea: questa Unione infatti, in mancanza di un fondo comune di garanzia dei depositi – che il governo tedesco assolutamente non vuole – , costituisce un grave pericolo per i risparmiatori e il principale fattore di rovina del nostro sistema bancario.
L’intervento della CDP con le obbligazioni a valenza fiscale
La soluzione per risolvere la crisi bancaria può consistere anche nell’intervento della Cassa Depositi e Prestiti, che potrebbe emettere una sua moneta fiscale coperta dallo stato. Cdp infatti si potrebbe accordare con l’amministrazione statale in modo da emettere obbligazioni con scadenza nel lungo termine (per esempio, dieci-venti anni) con l’opzione che in precise finestre temporali possano essere convertite in sconti fiscali, ovvero siano accettate dallo stato per il pagamento delle tasse al loro valore nominale.
Le obbligazioni con valore fiscale hanno numerosi vantaggi: innanzitutto non peserebbero sul bilancio pubblico perché Cdp – in quanto società controllata dal Tesoro, ma formalmente privata – è fuori dal perimetro del bilancio statale. I possessori delle obbligazioni Cdp sarebbero pienamente garantiti dal valore fiscale del titolo. La Cassa raccoglierebbe sul mercato nuove importanti risorse a basso costo, mentre lo stato otterrebbe per parte su
a un credito verso Cdp per i titoli effettivamente convertiti in sconto fiscale, e quindi non aumenterebbe il deficit pubblico. Lo stato, anzi, guadagnerebbe con gli interessi dall’operazione.
Attraverso le obbligazioni con valore fiscale, Cdp potrebbe raccogliere nuove risorse a basso prezzo utilizzandole per attuare politiche industriali di grande valenza strategica (vedi per esempio i casi di Telecom/Metroweb e Ilva) e per garantire lo sviluppo del sistema bancario nazionale.
Con le sue nuove capacità finanziarie, Cdp potrebbe per esempio: a) fornire più capitale al fondo Atlante; b) offrire adeguate garanzie sui crediti in sofferenza; c) entrare direttamente nel capitale delle banche. Potrebbe nazionalizzare MPS e facilitare processi di aggregazione bancaria.
La moneta fiscale si rivela indispensabile per uscire dalla crisi: qualsiasi sarà il governo del post referendum dovrà prenderla in seria e attenta considerazione.
Enrico Grazzini
[1] Vedi la prefazione di Luciano Gallino all’eBook edito da MicroMega: “Per una moneta fiscale gratuita. Come uscire dall’austerità senza spaccare l’euro” a cura di Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Enrico Grazzini e Stefano Sylos Labini. [2] http://monetafiscale.it/report-mediobanca-del-17-novembre-2015/
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