“Confessione” o “direzione spirituale?”

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di don Raffaele Garofalo

Con una lettera indirizzata ai preti di tutto il mondo Benedetto ha richiamato l’attenzione sul sacramento della Penitenza e raccomandato ai religiosi che “non devono rassegnarsi a vedere deserti i loro confessionali”. Il problema esiste quando il deserto intercorre tra il prete e la gente perché manca la disponibilità al dialogo. Da anni è in atto un progressivo allontanamento dalla fede e il sacramento della Riconcliazione è trascurato dagli stessi praticanti. Dopo il Concilio la morale ha assunto una dimensione più positiva, col maggior peso dato alla scelta fondamentale (opzione) della fede cristiana da parte del singolo, ridimensionando l’aspetto di un controllo severo della coscienza regolato dalla casistica minuziosa dei peccati.

Confessori di lunga esperienza ammettono che la fuga dai confessionali è dovuta per lo più ad una morale sessuale rigida che fa sentire in colpa anche le coppie più devote. Senza dire che spesso l’assoluzione viene negata perché, per amore della sincerità, il penitente non se la sente di promettere di “non farlo più”, consapevole di dire una bugia. Confessori maggiormente attenti seguono il consiglio del moralista Alfonso De’ Liguori che raccomandava di non fare domande scabrose in confessionale. I più severi si attengono invece alle prescrizioni della “Casti connubii” (1930) e ai pronunciamenti del Magistero che impongono una investigazione piuttosto rigorosa. Mentre per Agostino ogni atto sessuale era rigorosamente finalizzato alla procreazione, Alfonso De’ Liguori rimette la decisione alle coscienze dei coniugi. Se il contesto sociale dei tempi del vescovo di Ippona richiedeva un certo numero di nascite per garantire la sopravvivenza, oggi è vero il contrario. Il teologo Bernhard Haering afferma che la teologia e l’antropologia odierne hanno dimostrato false le affermazioni agostiniane. Ogni atto coniugale deve essere sempre gesto d’amore ma solamente alcuni tra essi potranno e dovranno giungere al concepimento.

La prassi tridentina conferiva al sacramento della penitenza la forma di un “processo” (ad modum judicii). Per essere sicuri del perdono bisognava confessare tutti i peccati gravi secondo il loro numero e la loro specie, con tutte le circostanze. Le casistiche giuridiche imprigionavano il rito oscurando “la misericordia di Dio” da Cristo sempre dimostrata nei suoi incontri coi peccatori. La “confessione” diventava il simbolo eloquente di una Chiesa giudicante e controllante che trascurava la prospettiva di vedere tutto alla luce del comandamento dell’amore. I penitenti inclini all’ansietà che si imbattevano in un confessore scrupoloso e inesperto si ritrovavano a volte a dover passare dalla cura dell’anima a quella della psiche.

Il sacramento è fatto per liberare l’uomo dal peso della colpa non per creare pericolose dipendenze. Cristo confessava per le strade della Palestina, in riva al mare; raccolse la confessione di Zaccheo appollaiato su un sicomoro, perdonò l’adultera accerchiata dai carnefici già con le pietre in mano, la Maddalena durante una cena, il ladrone moribondo sulla croce. Non inquisì alcuno di costoro prima di concedere il suo perdono. Il sacramento dovrebbe essere un momento di incoraggiamento dei penitenti, la crisi è nella sua forma indagatoria e di alienante ripetitività. Tante “confessioni” danno il senso del lavaggio automatico, come i trecento confessionali che al mattino attendevano i papa boys, di wojtyliana memoria, dopo una notte di peccato messa nel conto.

Benedetto chiama in causa il curato d’Ars che rimaneva fino a 16 ore in confessionale. Questo avveniva nella Francia Lionese della prima metà dell’Ottocento in cui la vita si svolgeva tra la casa, il campo e la chiesa. Ciò che è imitabile nel curato d’Ars, perché valido in ogni epoca, è la sua capacità di ascolto. Si firmava: “Vianney, povero prete infelice”, una “confessione” destinata inevitabilmente a provocarne altre: era un aprire il cuore alla gente, un linguaggio solitamente sconosciuto nei confessionali.

Nella società di oggi questo è possibile se i preti scendono dal piedistallo del “tribunale” e comunicano a gomito con la gente nei luoghi del vissuto, ove più facile è “incoraggiare” ad una vita cristiana. Ovunque è la vita si può ridare serenità ad una coscienza tormentata o turbarne un’altra indebitamente tranquilla. In una sua ultima conversazione il card. Martini sembra prospettare l’idea di una revisione della forma sacramentale penitenziaria orientandosi verso “un percorso di pentimento, un programma di vita, un confronto costante col confessore, la direzione spirituale”. Una celebrazione comunitaria contiene già una riconciliazione partecipata tra coloro che condividono la salvezza e anche la condizione di peccatori. Essere disponibili ad un ascolto più efficace non è trascurare il sacramento, richiede tempo, energie e impegno maggiori. È Dio che in definitiva concede il perdono. Anche ai preti che non “confessano” tra quattro tavole.

(23 giugno 2009)



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