Considerazioni inattuali sul sistema politico in Italia e in Germania

Fausto Pellecchia

In Italia non passa giorno che il Pd di Matteo Renzi, evocando la sonora sconfitta del 4 dicembre al referendum costituzionale, non si rammarichi per il fatto che, la sera stessa delle elezioni, il nostro sistema elettorale non riuscirà a determinare la composizione del nuovo governo.

Ma se volgiamo lo sguardo ai Paesi d’oltralpe ci accorgeremmo che, in Germania, cioè nel Paese leader della Ue, le procedure politiche sono ispirate a ben altra – teutonica e inflessibile- perseveranza. Da quasi due mesi, infatti, i partiti che, in base alle elezioni di settembre, stanno tentando la formazione del nuovo governo, discutono alacremente sugli accordi preliminari che dovrebbero condurre al “contratto di coalizione” nel Bundestag. La procedura prevede, infatti, che sulla base dei programmi elettorali dei singoli partiti, si delineino le possibili coalizioni di governo, sotto la presidenza provvisoria del capolista di partito che ha ottenuto la maggiore percentuale di suffragi nel secondo voto alle liste bloccate nei vari Ländern (Il primo voto- che può essere anche disgiunto dal secondo- riguarda, com’è noto, i collegi uninominali con sistema maggioritario). Dopo l’esito elettorale del 24 settembre, si sta verificando l’ipotesi della cosiddetta “coalizione Giamaica” (dai colori nero-giallo-verde dei partiti e della bandiera del Paese caraibico), che riunisce 4 partiti Cdu di Angela Merkel e la Csu bavarese, i liberali della Fdp e i Verdi. Da oltre 56 giorni, le delegazioni dei partiti, sotto la presidenza provvisoria di Angela Merkel, stanno discutendo animatamente su una bozza di accordo di 61 pagine nella quale sono contenuti i nodi principali per pervenire alla stesura del contratto di coalizione vero e proprio. Un dibattito difficile, che si protrae per molte settimane, senza che nessuno gridi allo scandalo per i tempi e i modi impiegati per la costruzione dell’intesa di governo.

Ma c’è di più. Una volta risolti i punti salienti del programma attraverso i negoziati preliminari, si passerà alla stesura vera e propria del “contratto di coalizione”, che deve essere sottoscritto dalle delegazioni impegnate nella trattativa: un testo complesso e molto particolareggiato delle iniziative legislative da assumere nel successivo quadriennio, nel quale si precisano le cifre, i tempi e i modi che il nuovo Governo si impegna a realizzare. Se per es. si parla di scuola e di nuovi concorsi per docenti, vanno predeterminate le percentuali del bilancio da impegnare, il numero esatto dei nuovi docenti e i tipi di scuola in cui saranno impiegati, le modalità della loro entrata in ruolo, ecc.; altrettanto dicasi per le cifre da impegnare per la ricerca e per l’Università. Uno dei punti problematici degli accordi preliminari in corso è costituito dal numero di profughi da accogliere (dal 2015 ad oggi la repubblica federale ne ha accolti circa 2.000.000) e la cifra tendenziale è di ulteriori 200.000 unità.

Non è finita qui. Una volta sottoscritto, il “contratto di coalizione” va successivamente sottoposto all’esame degli iscritti dei singoli partiti che, con appositi congressi, verificheranno il gradimento della loro base elettorale sui contenuti del contratto. Solo dopo averne ricevuto l’assenso, si potrà infine procedere alla formazione del nuovo Governo e al voto di fiducia del Bundestag (che resta vincolato alla cosiddetta “sfiducia costruttiva”, cioè alla presentazione di una eventuale alternativa di governo con la nomina di un nuovo Cancelliere, in caso di voto sfavorevole dell’assemblea parlamentare).

Ce n’è abbastanza per valutare le profonde differenze di impianto con il sistema italiano. Certamente, i sistemi e le procedure istituzionali non costituiscono né l’unica né la principale soluzione delle vertenze politiche, che restano comunque delibate in funzione delle variabili socio-economiche e dei mobili assetti dell’egemonia culturale nell’opinione pubblica. Ma le regole procedurali rappresentano comunque un indice importante nelle differenze di cultura politica che informa la vita delle istituzioni nei diversi Paesi.   

In questo senso, il principale spartiacque tra la Repubblica italiana e la Repubblica federale tedesca salta immediatamente agli occhi: mentre qui da noi le coalizioni di governo si decidono con metodo puramente ‘spartitorio’, attraverso il numero delle deleghe (dicasteri, ministri e/o sottosegretari) da distribuire tra i diversi partiti politici e le loro correnti interne, in Germania le discriminanti risiedono quasi interamente nell’articolazione del programma. Com’è noto, in Italia i contenuti programmatici restano avvolti nella nebbia delle generiche intenzioni o nelle logiche di schieramento – nelle quali il richiamo retorico ai “valori” e agli “ideali” ha la funzione prevalente di dissimulare la concreta direzione della futura azione di governo. Quest’ultima, perciò, è in gran parte affidata alle congiunture e alle emergenze che, di volta in volta, sull’onda di fatti di cronaca, denunciano il bisogno di un’urgente regolamentazione, attraverso il consueto ricorso allo “stato di eccezione” dei decreti-legge e al voto di fiducia anche su questioni strutturali della partecipazione democratica. Esemplare, in proposito, è il caso della legge elettorale, modificata ad libitum nel corso di ogni legislatura in nome e per conto delle maggioranze parlamentari esistenti o probabili.

Il pervicace disimpegno dai contenuti programmatici contribuisce, pertanto, alla vertiginosa crisi del nostro sistema democratico che sembra aver reso definitivamente obsoleta la tradizionale bussola destra/sinistra degli schieramenti parlamentari, sostituita dall’estensione ubiquitaria della ragione populista e leaderistica delle formazioni politiche. Il sacrificio della rappresentanza (e della rappresentatività) delle istanze sociali sull’altare della “governabilità” -sul quale una casta sacerdotale inamovibile celebra i misteri poco gaudiosi della ‘stabilità’ degli accordi di potere- provoca l’aumento irrefrenabile dell’astensione nelle masse popolari che, ormai in maggioranza, disertano il cerimoniale elettorale, per rifugiarsi in un silente ed indignato rifiuto di partecipazione politica alla vita delle istituzioni. 

In realtà, si tratta di sacrifici per una ‘stabilità’ presunta che concerne essenzialmente la composizione del ceto politico, la cui abnorme longevità si alimenta precisamente della ‘smemoratezza’ dell’opinione pubblica massmediatica e delle più sofisticate pratiche di trasformismo. L’abilità di un leader consiste ormai innanzitutto nell’adattarsi all’opinione prevalente, attraverso lo spregiudicato paradigma della “sondocrazia” che calibra le proposte sulle effimere risultanze dei sondaggi, ed è dunque sempre pronta a riciclarsi utilizzando gli algoritmi previsionali del marketing elettorale. Di qui, la strutturale miopia dei nostri leader politici, incapaci di sguardo lungo sull’evoluzione delle dinamiche sociali e degli assetti internazionali, e sensibili unicamente agli umori contingenti della moltitudine, opportunamente spettacolarizzati dai mass-media.

La scomparsa della “sinistra” e il suo fantasmatico tentativo di rinascita attraverso le stesse figure che ne patrocinarono la sepoltura, così come la resurrezione annunciata del pregiudicato Berlusconi e della sua vecchia corte dei miracoli, o l’apertura dei grandi magazzini del prêt-à-porter a 5 stelle, son
o tutti, nella loro fragile inconsistenza, il sintomo permanente del male esiziale della politica italiana, piuttosto che un suo possibile farmaco. Perciò, l’analisi e la risposta politica alla muta domanda di svolta radicale che proviene dalla diserzione delle urne della metà del corpo elettorale sembra ancora destinata a restare a lungo “lettera morta”.    

(20 novembre 2017)  



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