Consiglio Ue, se potessi mangiare un’idea

Carlo Clericetti

 

Accolto l’accordo dell’Eurogruppo, pessimo per l’Italia, è passata la proposta di vari paesi (noi, la Francia, la Spagna) di costituire un nuovo fondo per gli aiuti e il rilancio dell’economia, ma su quante risorse debba avere e su come debba distribuirle (prestiti o aiuti?) non c’è nessun consenso. E comunque sarà legato al bilancio pluriennale europeo, quindi, posto che si riesca a farlo, se ne parla almeno l’anno prossimo. Un paio di idee per “fare da soli”.


I risultati del Consiglio europeo, massimo organo decisionale dell’Unione, fanno venire in mente la strofa di una nota canzone di Giorgio Gaber:

“Un’idea, un concetto, un’idea finché resta un’idea è soltanto un’astrazione Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione”

Già, perché quella che è stata presentata come la decisione più rivoluzionaria, ossia il varo del Recovery fund, al momento è solo un’idea – per giunta controversa perché su aspetti fondamentali non c’è accordo – e lo rimarrà per chissà quanto tempo, sempre che venga realizzata. Perché per farlo bisognerà prima approvare il bilancio pluriennale europeo, quello su cui si è litigato fino a febbraio senza trovare un accordo per un suo aumento dello 0,2% del Pil, aumentandolo invece dello 0,8% circa. Per due o tre anni, si è detto, non per sempre, tanto per precisare che è solo per l’emergenza e non per avviarsi sulla strada di costituire un bilancio federale, con buona pace dei fautori del “più Europa”.

Ricordato di sfuggita che l’Italia è contributore netto, cioè mette nel bilancio più soldi di quelli che riceve indietro, posto che quella linea passi sarà stato superato solo il primo dei punti di dissenso. Quell’aumento dovrebbe servire per permettere alla Commissione di emettere i “recovery bond”, cioè di raccogliere risorse sul mercato. Queste risorse dovrebbero poi essere distribuite ai paesi più in difficoltà, ma come trasferimento (cioè una donazione) o come prestito? Facile indovinare quali siano le tesi opposte su questo punto, e sostenute da chi. Ovviamente, se fosse un prestito, risparmieremmo qualcosa sulla spesa per interessi, ma si aggiungerebbe al resto del nostro debito e non sarebbe di nessuna utilità per contenere il rapporto con il Pil. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha parlato di fare un po’ e un po’ (parte trasferimento e parte prestito) e di una soluzione-ponte per ovviare ai tempi lunghi di attuazione, ma, appunto, finora sono solo parole.

Se dunque sul Recovery il Consiglio ha approvato soltanto una vaga idea, ha invece dato il via libera al “pacchetto” Mes (il cosiddetto salva Stati), Sure (il fondo contro la disoccupazione) e Bei (aiuti alle piccole e medie imprese). A leggere i titoli possono sembrare cose serie, ma abbiamo già visto che si tratta di strumenti del tutto inadeguati. Per giunta sui punti critici da chiarire e formalizzare, soprattutto per quel che riguarda il Mes, per non trovarci poi la Troika in casa, non risulta che si sia detto nulla, e anche su questo la trattativa tecnica – quella che conta – è ancora tutta da fare.

Ci troviamo nella condizione di chi deve ipotecare la casa per far fronte a spese inevitabili e chiede aiuto a un amico per evitarlo, ma quello gli propone di pensar lui al canile in giardino. A questo punto quella frase pronunciata da Conte, “Altrimenti faremo da soli”, non è più tanto un avvertimento o una sfida, ma semplicemente una necessità. C’è chi l’ha interpretata come una velata minaccia di Italexit, e forse il presidente del Consiglio è stato volutamente ambiguo. Me se mai ci dovessimo decidere a questo passo – o fossimo costretti a farlo – questo è senz’altro il momento meno opportuno. I tassi sul nostro debito sono ancora sopportabili solo grazie all’ombrello della Bce, l’unica istituzione europea che stia facendo qualcosa di concreto per tamponare gli effetti della crisi. E lo sta facendo perché appena ha fatto dubitare del suo impegno, con l’infelice frase della sua presidente Christine Lagarde sugli spread, la reazione dei mercati è stata così violenta da far capire chiaramente che la rottura dell’euro era a un passo.

Ma l’ombrello Bce non resterà aperto per sempre. Si potrebbe chiudere addirittura il 5 maggio, praticamente domani, quando la Corte costituzionale tedesca si pronuncerà sul quantitative easing, con inevitabili conseguenze sul programma anti-pandemia di acquisti di titoli (Pepp) lanciato proprio per rimediare alle conseguenze di quell’errore. E’ improbabile che questo accada e la Corte potrebbe per esempio decidere un rinvio della sentenza. Ma anche in caso di pronuncia favorevole, resta la spada di Damocle del fatto che prima o poi quel programma, digerito a fatica dai paesi del nord, possa essere interrotto.

“Fare da soli” implica che debbano essere prese in considerazione misure che – per una ragione o per l’altra – sono sempre state escluse. D’altronde anche istituzioni che sono tradizionalmente il fulcro del conservatorismo economico come le banche centrali, di fronte alla grande crisi del 2008 ed ora a questa hanno preso decisioni impensabili fino a quel momento, tanto da chiamarle “misure non convenzionali”. Bene, dovremmo farlo anche noi. Quali? Le soluzioni tecniche possono essere infinite, e a seconda di come sono strutturate possono assumere aspetti assai diversi. Una di queste, per esempio, potrebbe essere la “moneta fiscale”, nella forma di certificati che potranno essere usati per pagare tasse e imposte dopo un certo periodo, per esempio tre anni. Una cosa del genere è stata più volte proposta in passato, e mai accolta per tre motivi. 1) era dubbio che le regole dell’Unione lo consentissero; 2) potrebbe essere interpretata come l’introduzione di una moneta parallela per prepararsi a un futuro exit; 3) costituiva una rischiosa scommessa, quella che l’iniezione di liquidità avrebbe dato uno stimolo alla crescita sufficiente a far aumentare il gettito fiscale tanto da (almeno) ripagare il mancato gettito di quando i certificati sarebbero stati usati per pagare le tasse. In caso contrario si sarebbe creato un ulteriore buco in bilancio.

La terza obiezione a questo punto cade. Il buco in bilancio lo stiamo facendo comunque, e non se ne può fare a meno se si vuole salvare la nostra economia, oltre alla necessità di evitare un disastro sociale. La prima e la seconda potrebbero essere superate se si riuscisse a contrattare questa misura con l’Unione, ossia, vista l’eccezionalità della situazione, ad ottenere un benestare ufficiale dagli altri membri. Ridurrebbe l’impatto della spesa sul deficit e rinvierebbe quello sul debito, sarebbe a costo zero quanto a interessi, ridurrebbe le necessità di raccolta sul mercato, non metterebbe nulla a carico di altri paesi. Potremmo ottenerlo, e usare questo sistema per coprire le spese di sostegno al reddito e altri trasferimenti.


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Un’altra misura che dovrebbe essere presa in considerazione è una qualche forma di imposta patrimoniale o prestito forzoso. Un’ipotesi che si può declinare in moltissimi modi, a partire dal valore sopra il quale farla scattare. Ma potrebbe essere proporzionale (con una percentuale molto ridotta) o progressiva, solo sulla ricchezza finanziaria o su tutto il patrimonio, a titolo definitivo o con un rimborso previsto nel tempo, e via enumerando le tante possibili variazioni. Non solo sarebbe giustificata dalla situazione, ma potrebbe essere usata nella trattativa con gli altri paesi. Da tempo vari economisti e istituti di ricerca tedeschi hanno sottolineato che la ricchezza pro-capite degli italiani è molto alta nel confronto internazionale, e ci hanno spesso invitato a usarla per ridurre il debito pubblico. Potremmo dire che accogliamo il loro invito, ma in cambio devono consentirci l’altra misura. Ci possono essere altre idee, e chi ne ha le tiri fuori. Ma queste non dovrebbero essere scartate a priori.

Ma anche nelle trattative europee, che comunque proseguiranno, dovremmo portare altre proposte. La Polonia, la Danimarca e la Francia hanno fatto sapere che non daranno aiuti ad imprese che abbiano sede in paradisi fiscali. È solo un primo timidissimo passo, perché si fa riferimento alla black list della Ue, che ovviamente non comprende i paesi membri che applicano legislazioni che a quelle dei paradisi sono molto simili, come Olanda, Lussemburgo, Irlanda, Malta, Cipro. Ma questo sarebbe un tasto da battere, riproponendo per esempio la proposta sulla tassazione delle multinazionali bloccata in passato – guarda un po’ – da Olanda e Irlanda. E poi pensare anche al prossimo futuro, quando la sospensione delle regole del Patto di stabilità e (de)crescita verrà revocata. C’è in ballo la revisione del sistema di controllo dei conti pubblici basato sull’output gap, che noi da anni contestiamo. E le condizioni per il completamento dell’unione bancaria, prefigurate in modo per noi inaccettabile. Tutti problemi che, quando sarà dichiarata superata l’emergenza, si presenteranno per noi in forma aggravata. Pensiamoci per tempo, facciamo in modo di ottenere qualcosa di più del quasi niente avuto finora.
(24 aprile 2020)



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