Conti in rosso, il Vaticano vicino al crack. Intervista a Gian Luigi Nuzzi

Giacomo Russo Spena

Un libro inchiesta del giornalista svela, documenti alla mano, come il deficit strutturale del Vaticano potrebbe portare al default in cinque-sette anni: “I responsabili sono quei cardinali, in prevalenza italiana, che hanno amministrato male la curia sia con Giovanni Paolo II che con Benedetto XVI”. Ma il partito che si oppone alle riforme di Francesco per salvare la Chiesa dal fallimento è forte: “Il tempo gioca a sfavore e senza trasparenza dei fondi non si andrà da nessuna parte”.

intervista a Gianluigi Nuzzi

Il Vaticano è prossimo al crack economico. Non è una boutade, pur sembrandolo, ma la verità ben ricostruita da Gianluigi Nuzzi che, grazie al suo fiuto giornalistico, è riuscito ad accedere ad alcuni documenti interni (e riservati) che ricostruiscono la vicenda. La Santa Sede rischia il default. È tutto scritto in Giudizio Universale (Chiarelettere, 350pp), un viaggio esclusivo nelle stanze più inviolabili dei sacri palazzi. Il noto vaticanista spiega, carte alla mano, come il “deficit strutturale” del Vaticano potrebbe portare al “default in cinque-sette anni”, ovvero mancanza di soldi per la sopravvivenza delle parrocchie, per la ristrutturazione degli immobili o per il pagamento i dipendenti. Per non tralasciare il danno in termini di immagine. Dalle pagine del libro si evince come questo disastro venga prospettato a Papa Bergoglio dal coordinatore del Consiglio, il cardinale Reinhard Marx il 14 maggio 2018 in un drammatico appuntamento. La sua reazione è ben descritta da Nuzzi: “Di fronte a un’emorragia inarrestabile Francesco autorizzò la creazione di un’unità di crisi che andasse a individuare e mettere in atto quelle energiche riforme per evitare appunto il default”.

Già nel precedente lavoro (Peccato originale) denunciava le oscure operazioni finanziarie dello Ior, i conti segreti di milioni di euro e finanche il traffico internazionale di droga. Ora, con questo nuovo libro, si spinge ancora oltre: con una serie di documenti inediti – che accertano in qualche modo le sue tesi – sostiene che il Vaticano sia vicino al default economico. Come si è arrivati a creare un “buco” di bilancio di tali proporzioni?

Si è arrivati per due ordini di motivi. Il primo riguarda quelle cause che segnano la vita odierna del cattolicesimo e che già nel 2012 Benedetto XVI individuava cosi: “Siamo davanti ad una profonda crisi di fede, ad una perdita del senso religioso che costituisce la più grande sfida per la Chiesa di oggi". La crisi della fede ha determinato una riduzione delle vocazioni, uno spostamento dei fedeli che diminuiscono nei Paesi avanzati come quelli europei e Usa mentre crescono in stati dove è difficile verificare i dati del numero di cattolici (come Africa, sud America e Oriente). Ma ha soprattutto provocato una riduzione delle offerte. In parole povere, in vaticano entrano meno soldi. Il secondo ordine di motivi è la cattiva gestione curiale del denaro: in questo libro riporto spese pazze, appalti gonfiati, cattiva amministrazione che determinano un deficit quotidiano di 120mila euro. A iniziare proprio dal patrimonio immobiliare che dovrebbe dare una certa tranquillità finanziaria e che invece cagiona solo spese, visto che è mal amministrato.

Ma chi gestisce i depositi milionari intestati a cardinali defunti o anonimi faccendieri? Chi sono i responsabili – quindi, nomi – di tale disavanzo nelle casse del Vaticano? Chi c’è dietro?

I responsabili sono quei cardinali, quei monsignori, in prevalenza italiana, che hanno amministrato male la curia sia con Giovanni Paolo II, sia con Benedetto XVI. Si pensi solo ai conti correnti per milioni di euro che il cardinale Domenco Calcagno, detto “cardinale Rambo” per la sua passione per le armi da guerra – tanto da aver avuto in passato addirittura una collezione – tollerava all’Apsa, una sorta di cassa centrale, che lui presiedeva. Lo statuto dell’Apsa vietava e vieta che vi siano depositi intestati a soggetti fisici ma quando Bergoglio arrivò trovo numerosi depositi a iniziare da quelli del cardinale Lajolo che ammontavano complessivamente a diversi milioni di euro (2.6 milioni solo quello per la giacenza di titoli mobiliari).

Il disavanzo vede tante responsabilità, indicate certo in Giudizio Universale: da chi ha gestito il tesoro immobiliare dando le case a canone zero ad amici e amici degli amici, determinando il profondo rosso dei ministeri, a chi non necessariamente ha rubato ma ha mantenuto una classe dirigente sprovvista degli strumenti e dei necessari aggiornamenti professionali, ridotta a copiare ancora i numeri a mano, nell’era del computer,

Qual è, secondo lei, l’utilizzo di queste contabilità misteriose? Come vengono “investite” tali cifre economiche dai vari mercanti del Tempio?

In Vaticano non c’è un’unica banca, lo Ior, come i più ritengono ma ce ne sono addirittura tre. Oltre alla banca che un tempo fu di Marcinkus, troviamo infatti, come accennato prima, l’Apsa, che amministra beni e asset per due miliardi e 600 milioni, e una terza “banca”, costituita dalla sezione amministrativa della segreteria di Stato. In queste tre banche la trasparenza è una terra promessa che si conquista a fatica. Gli uomini di Bergoglio quando vogliono approfondire i dossier sospetti che trovano, spesso si scontrano con omertà, sabotaggi di chi vuole mantenere i privilegi e i segreti. Emblematica è la storia dell’inquietante conto F.D. che svelo nel mio saggio. Quando gli ispettori di Francesco chiedono di chi sia si trovano di fronte il sigillo del “segreto di Stato”.

Non esiste nemmeno una trasparenza sui movimenti bancari dello obolo di san Pietro: sul sito del Vaticano non c’è traccia di come vengono impiegate le ingenti somme ricavate in beneficenza o donazioni, l’unico numero indicato è quello dell’iban per eseguire i bonifici. Malgrado i tentativi riformatori di Bergoglio – per ultima la nomina di Guerrero Alves al posto del cardinale Pell, travolto dagli scandali sulla pedofilia – e le tante denunce emerse in questi anni, il Vaticano rimane il tempio delle finanze maledette?

Finché la trasparenza non dominerà la gestione delle offerte dei fedeli questo è inevitabile. Purtroppo ancora oggi, sebbene dei passi avanti siano stati fatti, domina ancora quella mentalità autoreferenziale che fa fatica a considerare lo Ior e le altre strutture al pari di quelle di altri paesi. E anche quando vengono approvate le leggi non basta. È il caso ad esempio della legge antiriciclaggio che una volta approvata provoco il consenso unanime di opinionisti e dei media. Peccato che mesi e mesi dopo la legge pur in vigore mai era stata applicata con i dipendenti che se ne lamentavano perché non erano state disposte le norme attuative per renderla operativa.

Lei, anche in questo libro, insiste sullo scontro in atto tra “il partito di Bergoglio” e chi ostacola le riforme. In qualche modo, quindi, difende Papa Francesco perché all’oscuro di tutto apprezzando i suoi tentativi di cambiare lo status quo. Allora perché – come lei denuncia con vigore in Giudizio Universale – il Pontefice ha una
sua banca con movimenti alquanto oscuri? Cosa ha da nascondere? Non siamo di fronte a un caso in cui si predica bene e si razzola male?

Il Papa non ha una sua banca ma esistono fondi riservati a lui intestati, presso la segreteria di Stato, dei quali si sa poco o nulla e anche qui coperti dal massimo della segretezza. Dubito persino che sia il Papa in persona a gestirli, esponendolo così a un possibile danno reputazionale se chi li gestisce compie qualche leggerezza.

Quale riforma deve avvenire, in concreto e di realizzabile a stretto giro, per evitare il default annunciato?

La strada maestra sarebbe quella della trasparenza, rendendo moderna la macchina dello Stato vaticano, con la tracciabilità delle offerte, come per i pacchi postali, in modo da permettere a chiunque di sapere esattamente a cosa è servita il denaro dato. Purtroppo il tempo gioca a sfavore ma senza trasparenza non si andrà da nessuna parte.
@giakrussospena
(25 novembre 2019)





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