Contro De Magistris accuse false e pretestuose
di Felice Lima, da MicroMega 3/2008
Tutta la vicenda De Magistris fa nascere inquietanti sospetti sulla credibilità e l’autonomia dell’autogoverno della magistratura, sia sotto il profilo istituzionale (Csm) che associativo (Anm). Accuse false, inconsistenti o pretestuose nei confronti di un giudice onesto in una terra in cui – stando alle statistiche – la corruzione non c’è. O la magistratura non vuole vederla.
L’antefatto
Il cosiddetto «caso De Magistris», tradendo le aspettative di chi pensava che, come accaduto altre volte, si sarebbe potuta «liquidare la pratica» nella disattenzione generale, con un ingiusto marchio di infamia sul collega, è destinato a «lasciare il segno» dentro la magistratura e fuori, perché ha fatto emergere in maniera clamorosa alcune inaccettabili contraddizioni che minano, ormai sembra irreversibilmente, la credibilità dell’autogoverno della magistratura, sia sotto il profilo istituzionale (Consiglio superiore della magistratura) che sotto quello associativo (Associazione nazionale magistrati).
Per comprendere cosa è accaduto, occorre partire dalla situazione della Calabria, meravigliosa regione del Meridione afflitta da un grave ritardo di sviluppo, da una gravissima crisi di legalità e (in rapporto di effetto e causa) da una giustizia decisamente – e purtroppo volutamente – inefficiente, nonostante l’impegno di tanti magistrati che si spendono con coraggio e senza risparmio.
La misura del problema è data dal dato statistico che emerge dall’ultimo libro di Piercamillo Davigo (La corruzione in Italia, percezione sociale e controllo penale), secondo il quale le condanne definitive per concussione intervenute nel distretto della Corte di Appello di Reggio Calabria tra il 1983 e il 2002 (ben 19 anni!!) sono una e quelle per corruzione sono due!
In pratica, o a Reggio Calabria non c’è la corruzione (!?) o la magistratura non la vede.
In questo contesto è arrivato un onesto magistrato napoletano (Luigi De Magistris, appunto), che si è messo a lavorare e ha avviato diverse inchieste per fatti molto gravi che coinvolgono magistrati, politici e imprenditori.
Come ho già detto, questo magistrato non è certamente l’unico che si è impegnato con coraggio e generosità in Calabria, sicché la sua storia non deve essere utilizzata per delegittimare indiscriminatamente tutti i magistrati calabresi. Ma resta una storia emblematica, sicché neppure i magistrati calabresi per bene devono negare (come alcuni hanno fatto) l’evidenza dei fatti che da essa emergono.
All’avvio delle indagini di De Magistris, immediatamente un gruppo eterogeneo ma molto coeso di persone «controinteressate» alle stesse (magistrati, politici, imprenditori) si è adoperato in ogni modo per fermare il collega e alcuni hanno chiesto a gran voce pubblicamente alla procura generale della Cassazione e al Csm di fermare il magistrato, punirlo e cacciarlo.
E la cosa è già in sé molto preoccupante, perché sviluppa ulteriormente la prassi eversiva dell’ordine democratico per la quale nel nostro paese le persone a vario titolo «potenti» non si difendono «nel» processo, ma «dal» processo.
Ordinariamente, le inchieste finiscono o con una archiviazione o con un rinvio a giudizio (e in questo secondo caso i rinviati a giudizio hanno modo di difendersi nel processo). Le inchieste di De Magistris hanno avuto un terzo tipo di esito: sono state fermate o «dirottate».
E in questo senso è andata – nei fatti e indipendentemente dalle intenzioni che li muovevano – l’attività di tanti, che, ciascuno per quanto di competenza, hanno concretamente ostacolato le indagini. E, altra cosa di notevole rilievo, molti di costoro sono magistrati!
Ci sono state così (fra l’altro e non solo):
1) fughe di notizie;
2) campagne di stampa denigratorie e diffamatorie contro il magistrato inquirente;
3) interpellanze parlamentari a decine;
4) ispezioni ministeriali numerose e pluriennali;
5) una revoca di assegnazione da parte del procuratore capo;
6) una avocazione definita pubblicamente da un autorevole collega «impensabile», priva di fondamento giuridico e attuata con modalità che preoccupano non poco.
Le ispezioni ‘atipiche’
Delle ispezioni ministeriali va detto che esse sono state numerose e reiterate, sono durate tre anni, sono cominciate nel gennaio del 2005 su impulso del ministro Castelli e sono proseguite, in perfetto stile, come va di moda dire, bipartisan, con il ministro Mastella, finito, poi, anch’egli fra gli indagati e, dunque, «controinteressato» alle indagini.
E tutto ciò qualifica palesemente come molto discutibili quelle «ispezioni».
Le ispezioni ministeriali, infatti, dovrebbero servire a verificare la sussistenza o meno di irregolarità specifiche in ipotesi commesse dal magistrato «ispezionato». Ma è di tutta evidenza che, se hai un fatto specifico da accertare, vai, lo accerti e torni a Roma.
Ispettori che stanno tre anni a «ispezionare» un ufficio di procura non sono andati lì a verificare un’ipotesi specifica, ma a cercare esplorativamente «qualcosa» o meglio «qualsiasi cosa».
Ispezioni che durano tre anni sono palesemente finalizzate ad altro rispetto a ciò a cui dovrebbero servire per legge e, in ogni caso, foss’anche eventualmente al di là delle intenzioni, finiscono con il costituire una pesante interferenza nell’attività di indagine, della quale, per di più, finiscono con il violare la segretezza, cosa tanto più grave se si considera che da ultimo, il titolare del potere ispettivo era anche uno degli indagati dal magistrato ispezionato.
Non poco disagio, peraltro, ha creato il fatto che ispezioni tanto peculiari siano state difese – nel corso della trasmissione Annozero del 4 ottobre 2007 – proprio da un magistrato, allora sottosegretario e oggi ministro della Giustizia, con argomenti davvero imbarazzati e imbarazzanti, arrivando a evocare male (citando fatti non veri), contro De Magistris, la memoria di Paolo Borsellino (dei preoccupanti rapporti fra magistratura e politica dirò ancora più avanti).
Alla fine di tutto questo, la procura generale della Cassazione e il Consiglio superiore della magistratura hanno fatto, nella sostanza, ciò che veniva loro chiesto dai «controinteressati alle indagini».
La procura generale ha formulato contro Luigi De Magistris moltissime incolpazioni disciplinari e il Csm lo ha condannato e trasferito all’esito di un processo lampo durato un mese (iniziato con la notifica dell’incolpazione a metà dicembre del 2007 e finito con la pronuncia della sentenza il 18 gennaio 2008).
Va aggiunto anche che la procura generale ha formulato a carico di De Magistris molte incolpazioni dichiarate infondate dallo stesso Csm e qualcuna addirittura nulla, per la palese indeterminatezza degli addebiti (penso a quelle contraddistinte nella sentenza con le lettere «I» ed «M»), con un accanimento che sarebbe stato giudicato certamente in maniera molto negativa se posto in essere da un altro pubblico ministero nei confronti di un qualunque indagato.
Così stando le cose, la sentenza della sezione disciplinare è l’elemento di discrimine di tutta la storia.
Perché se quella sentenza fosse, non dico condivisibile, ma almeno difendibile, allora si potrebbe ipotizzare che la coincidenza fra desideri dei «contro
interessati alle indagini» e azione della procura generale e del Csm sia stata puramente casuale.
Ma se la sentenza fosse tecnicamente non difendibile, allora le conclusioni da trarre sarebbero altre e molto gravi.
Perché bisognerebbe prendere atto che la procura generale e il Csm, anziché difendere l’indipendenza dei magistrati e l’imparzialità della giurisdizione, avrebbero finito nei fatti per danneggiarle gravemente.
Il numero e la complessità dei capi di incolpazione ne impedisce un’analisi completa e approfondita in questa sede.
Ne proporrò, quindi, una sintetica e limitata ai capi più significativi, rinviando per ulteriori approfondimenti (perché le ragioni tecniche di critica della sentenza sono davvero molte di più di quelle che in sintesi esporrò qui) al blog «Uguale per Tutti» (www.toghe.blogspot.com), che curo con alcuni colleghi, dove abbiamo pubblicato l’intera motivazione della sentenza, l’atto di incolpazione, la memoria difensiva di Luigi De Magistris e diverse analisi tecniche approfondite dei singoli capi della sentenza (segnalo, fra gli altri, per pregio tecnico e profondità di analisi, gli scritti del collega Nicola Saracino).
Da quegli scritti emerge non solo che la sentenza è tecnicamente ben poco convincente, ma che molti passaggi della motivazione (penso, fra gli altri, a quelli relativi al capo «E» di incolpazione, che mi accingo ad analizzare) appaiono pretestuosi e tali da provocare la sensazione che il giudice, più che chiedersi «se» condannare o no De Magistris, possa essersi impegnato a cercare solo «come» condannarlo.
Il gip che non convalida i fermi
Venendo all’esame della sentenza, la parte di essa che desta più grande stupore è proprio quella relativa al capo «E» di incolpazione.
Il fatto si può riassumere dicendo che circa un anno prima Luigi De Magistris aveva inviato al gip di Catanzaro una corposa richiesta di misure cautelari nei confronti di numerosi presunti criminali per reati di estrema gravità.
Il gip, pur dopo molti mesi, non aveva ancora neppure esaminato la richiesta.
A seguito di segnalazioni delle autorità di polizia che riferivano delle gravi conseguenze della mancata adozione delle misure cautelari vanamente richieste al gip, Luigi De Magistris ha adottato un provvedimento di fermo di alcune decine di indagati e, nelle 48 ore previste dalla legge, ha chiesto la convalida dei fermi ai gip di diverse città (competenti alla convalida dei fermi sono, infatti, i gip dei luoghi nei quali i fermi vengono eseguiti).
Tutti i gip destinatari della richiesta l’hanno accolta, convalidando i fermi e adottando le misure cautelari, tranne il gip di Catanzaro, che, invece, ha sostenuto che la mancanza nella richiesta delle parole testuali «chiedo la convalida dei fermi» dovesse intendersi nel senso che quella richiesta non c’era e non ha convalidato i fermi, nonostante Luigi De Magistris gli avesse pure inviato immediatamente una lettera per rendere esplicito (benché non ve ne fosse necessità) che scopo del suo atto era proprio anche la richiesta di convalida dei fermi.
Benché si stenti a crederlo, Luigi De Magistris è stato condannato perché nella sua richiesta di convalida e misure cautelari mancava la frase testuale «chiedo la convalida dei fermi». E certo fa pensare che dopo tre anni di ispezioni in una regione dove l’illegalità è massicciamente presente, l’attenzione dei magistrati ispettori sia stata attirata proprio da una cosa del genere. Quando si dice «non sapere a cos’altro aggrapparsi».
La procura generale fonda il capo d’accusa sull’art. 2 lett. g) del decreto legislativo n. 109 del 2006. Ma secondo quella norma costituisce illecito disciplinare solo la «violazione di legge» che sia «grave» e «determinata da negligenza inescusabile».
Nel caso di specie, mancano sia la «violazione di legge» che la «gravità» di essa che la «negligenza inescusabile».
Non c’è la «violazione di legge» per due motivi.
Il primo è che è principio di diritto pacifico quello per il quale «nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda il giudice di merito [in questo caso il gip], da un lato, non è condizionato dalle espressioni adoperate dalla parte, dall’altro, ha il potere-dovere di accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa, quale desumibile non solo dal tenore letterale degli atti, ma anche dalla natura delle vicende rappresentate dalla parte e dalle precisazioni dalla medesima fornite nel corso del giudizio, nonché dal provvedimento concreto dalla stessa richiesto, con i soli limiti della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e di non sostituire d’ufficio un’azione diversa da quella esercitata» (Cass. Sez. III Civ., 28 luglio 2005, n. 15802, e moltissime altre tutte conformi).
Dunque, il solo fatto che, nella richiesta di Luigi De Magistris non ci fossero le parole testuali «chiedo la convalida dei fermi» non era decisivo, essendo del tutto ovvio che egli intendeva ottenere anche quella (oltre alle misure cautelari). Dunque, sotto il profilo tecnico, secondo la mia modesta opinione, se «errore» c’è stato, l’ha commesso il gip e non il pm.
Ma per di più, non ci sarebbe stata violazione di legge neppure se De Magistris non avesse chiesto la convalida, essendo pacifico che egli poteva legittimamente non chiederla.
Ciò lo riconosce lo stesso Csm, che, per giustificare il gip che incomprensibilmente si è fermato alla ricerca delle parole testuali e «scaricare» su De Magistris la responsabilità della mancata convalida, scrive nella sentenza che «il deposito del provvedimento del fermo non comportava necessariamente la richiesta della sua convalida potendo il pm anche disporre l’immediata liberazione del fermato ed omettere la richiesta di convalida» (i corsivi sono sempre miei).
Ma nel caso di specie una volontà del pm di liberare i fermati era da escludere categoricamente, chiedendo egli, proprio al contrario, la custodia cautelare per loro (e, dunque, l’alibi offerto dal Csm al gip non regge) e, comunque, per di più, il Csm sbaglia in diritto quando limita l’ipotesi della mancata richiesta di convalida al solo caso della liberazione dei fermati, perché il pm può decidere del tutto legittimamente di non chiedere la convalida dei fermi anche nel caso in cui non intenda liberare i fermati, ma chiedere per loro – come avvenuto – misure di custodia (ciò il pm fa quando per qualche ragione ritenga il fermo non convalidabile, impregiudicate le conseguenze in altra sede di un fermo eventualmente illegittimo).
In ogni caso, resta pacifica e riconosciuta dallo stesso Csm la legittimità della non richiesta di convalida da parte del pm, sicché resta oscuro come questo possa essere stato ritenuto a carico di De Magistris «violazione di legge» disciplinarmente rilevante.
Per di più, l’omessa richiesta di convalida – ove pure si fosse potuta (e non si sa proprio come) ritenere illegittima – non poteva essere ritenuta né «grave» né conseguente a «negligenza inescusabile», come, invece, indispensabile per una condanna.
La mancata richiesta di convalida dei fermi, infatti, non solo non ebbe, di per sé sola, alcuna conseguenza pratica nel caso concreto, ma non ne avrebbe potuta avere neppure in teoria in nessun caso simile.
Infatti, una volta richieste al gip (come ha fatto De Ma
gistris) le misure cautelari, due soli esiti erano possibili:
– che il gip accogliesse la richiesta di misure cautelari;
– che il gip la rigettasse.
Se l’avesse accolta, i fermati sarebbero rimasti in carcere anche se il fermo non fosse stato convalidato.
Se l’avesse rigettata, i fermati sarebbero stati scarcerati anche se il fermo fosse stato convalidato.
Ma vi è ancora dell’altro.
Per tentare di dare una qualche motivazione all’elemento della «gravità» della colpa (palesemente insussistente), i consiglieri del Csm ricorrono a quello che appare con evidenza un inaccettabile paralogismo, scrivendo a pagina 27 della sentenza che «la qualificazione “grave” va posta in relazione sia all’importanza della norma violata sia al carattere evidente, indiscutibile, dell’errore, come tale necessariamente conseguenza di una “negligenza inescusabile”».
In sostanza, secondo il Csm qualunque errore «evidente, indiscutibile» sarebbe per ciò solo «grave» e conseguenza di «negligenza inescusabile».
Se così fosse, se io, intestando una mia sentenza, anziché scrivere «il giudice Felice Lima» scrivessi per un lapsus calami «il giudice Francesco Lima», essendo l’errore «evidente e indiscutibile» esso sarebbe «necessariamente conseguenza di una negligenza inescusabile» e per ciò stesso «grave»!?
Il tutto contro ogni evidenza, sia di diritto sia ancor prima di lessico: «evidente» significa una cosa, «grave» tutt’altra.
Dunque, bisogna prendere atto che è il Csm (e non De Magistris) ad avere commesso una «violazione di legge», che è anche «evidente», attuata con una circonlocuzione paralogica che, per poter condannare De Magistris, ha fatto diventare punibili non solo gli errori «gravi» , ma anche quelli del tutto irrilevanti, ma «evidenti»!
Ed è inutile sottolineare quanti «errori» banali come quello qui in discussione, quante parole saltate in provvedimenti di decine di pagine ci siano in migliaia di provvedimenti giudiziari, senza che questo provochi conseguenze disciplinari per nessuno.
Infine, nella sentenza, per cercare di dare una qualche consistenza a una motivazione che, sul punto, non solo non ne ha, ma tradisce anche l’uso di argomenti pretestuosi, si invoca contro De Magistris l’autorevolezza del procuratore Lombardi e si assume che egli sarebbe «credibile, in quanto anch’egli firmatario dei provvedimenti di fermo e di richiesta custodiale» (pag. 27).
Ma così allora ci si deve chiedere: se Lombardi è «anch’egli firmatario dei provvedimenti di fermo e di richiesta custodiale», allora è – indiscutibilmente – anch’egli responsabile, al pari di De Magistris, della forma e del contenuto di quegli atti.
Ma, allora, perché la procura generale ha mosso l’addebito a De Magistris e non anche a Lombardi?
Così come ci si deve chiedere perché nulla risulti a carico del gip che omette per mesi di adottare un qualunque provvedimento su una richiesta urgente e grave di misure cautelari e adotta poi, sulla richiesta di convalida dei fermi, un provvedimento in parte almeno discutibile e in parte smentito subito dopo dal Tribunale del riesame.
Misteri del rigore «senza se e senza ma»!
L’iscrizione segretata
Altro capo della sentenza sorprendente è quello relativo alla incolpazione contraddistinta dalla lettera «G».
La vicenda si può riassumere dicendo che, nel corso delle indagini, sono emersi indizi di responsabilità a carico del senatore avvocato Giancarlo Pittelli e del generale Walter Cretella Lombardo. Ciò imponeva l’iscrizione dei loro nomi nel registro degli indagati. Adempimento necessario per far decorrere il termine di durata massima delle indagini preliminari.
Va detto che accade molto frequentemente, per le più diverse ragioni, che questo tipo di iscrizione venga fatta con ritardo dai magistrati del pubblico ministero, non foss’altro perché, in procedimenti complessi, il momento in cui il magistrato si rende conto – analizzando in maniera approfondita tutte le emergenze processuali – della sussistenza di indizi a carico di questo o di quello varia moltissimo.
La giustizia disciplinare non sanziona questi ritardi, in molti casi fisiologici.
Il dottor De Magistris, dunque, avrebbe potuto ritardare senza alcuna conseguenza per sé l’iscrizione di quei nomi nel registro degli indagati, ma ha deciso di provvedervi, invece, con assoluta tempestività e diligenza.
Ha ritenuto, però, che, se avesse provveduto a quella iscrizione nei modi consueti, essa sarebbe venuta a conoscenza del procuratore capo e ha temuto che questi – come a suo dire era già avvenuto in passato, sulla base di elementi di giudizio che lo hanno portato a denunciarlo alla competente procura di Salerno – ne avrebbe informato gli indagati, essendo legato da vincoli di particolare amicizia con il Pittelli, difensore del Cretella Lombardo.
Dunque, ha redatto tempestivamente l’atto di iscrizione, ma lo ha custodito riservatamente in una cassaforte, riservandosi di annotarlo negli appositi registri non appena ciò non avesse potuto più essere causa di danno per le indagini.
Anche in questo caso non si può dire che la scelta di De Magistris abbia avuto conseguenze sotto alcun profilo «gravi», perché, proprio al contrario, è rimasta priva di qualsiasi conseguenza concreta, dato che la durata delle indagini, a presidio della quale sta l’iscrizione nel registro degli indagati, non ha poi concretamente superato i termini imposti dalla legge.
E anche in questo caso gli argomenti dell’accusa prima e della condanna poi danno una sgradevole impressione di pretestuosità.
Basti dire che la procura generale contesta l’addebito di cui alla lett. «a» dell’art. 2 del decreto legislativo 109/2006, che punisce solo «i comportamenti che, violando i doveri di cui all’articolo 1, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti», e, per cercare a tutti i costi un «danno» ipotizzabile, scrive nell’incolpazione che con questo comportamento «il dott. De Magistris impediva al procuratore dott. Lombardi di astenersi in relazione ad un procedimento del quale era coassegnatario, e che vedeva quale indagata persona con cui, come riferito dallo stesso Lombardi, aveva un ventennale rapporto di amicizia e frequentazione»!
Ma davvero non è possibile comprendere che tipo di «danno» potrebbe mai ipotizzarsi a carico del procuratore Lombardi per… non essersi potuto astenere!
Mentre, anche in questo caso, stupisce non poco che la procura generale non abbia dato (che si sappia) alcun seguito alla circostanza che il procuratore Lombardi successivamente si è effettivamente astenuto, ma non prima – come, invece, avrebbe dovuto – di revocare l’assegnazione del fascicolo a De Magistris.
Lombardi, in sostanza, per un verso ha riconosciuto di non potere trattare quel procedimento, ma ha adottato ugualmente un provvedimento incompatibile con la sua astensione: la revoca dell’assegnazione (alla quale conseguono i fatti oggetto del capo «A» di incolpazione), che ha tolto al pm che la conduceva l’indagine che coinvolgeva il suo intimo amico.
La procura generale ha contestato in questo capo di incolpazione anche l’ipotesi di cui alla lett. «g» dell’art. 2 citato, che punisce, però, solo «la grave violazione di leg
ge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile», mentre è evidente che in questo caso De Magistris non ha agito né con ignoranza, né con negligenza, ma intenzionalmente, per difendere la segretezza dell’indagine.
E ancora l’ipotesi di cui alla lettera «m» dell’art. 2, che punisce, però, solo «l’adozione di provvedimenti adottati nei casi non consentiti dalla legge, per negligenza grave e inescusabile, che abbiano leso diritti personali o, in modo rilevante, diritti patrimoniali», mentre è sicuro che qui non sono stati lesi diritti patrimoniali, e, in concreto, neppure diritti personali.
Insomma, numerose contestazioni palesemente non pertinenti con i fatti, che sembrano costruite per risolvere il problema creato dal fatto che la condotta di De Magistris non rientrava in alcuna specifica ipotesi tipica di responsabilità disciplinare.
Per altro verso, poi, va detto che, anche ad ammettere che la scelta di segretare l’iscrizione compiuta da De Magistris fosse discutibile, andrebbe comunque riconosciuto che egli si trovò dinanzi all’alternativa ineludibile fra la tutela di due beni che, risultavano, nel caso concreto, alternativi: rispettare le procedure formali di registrazione della iscrizione dei nomi, esponendo l’inchiesta al concreto pericolo di un favoreggiamento, oppure difendere la segretezza e l’efficacia delle indagini, segretando l’iscrizione. I due beni non si potevano tutelare insieme e, a mio parere, chiunque – a anche la procura generale e il Csm – dovrebbero riconoscere che, in un tale frangente, non può essere ritenuta colpa e per giunta grave l’avere rispettato la legge che vieta il favoreggiamento, non violando, ma applicando in maniera adeguata al caso quella che regola l’iscrizione degli indagati nell’apposito registro.
Così come la procura generale e il Csm avrebbero dovuto riconoscere che l’alternativa dinanzi alla quale si trovò De Magistris era dovuta al fatto certamente diciamo così inconsueto di un sostituto procuratore che abbia ragionevoli motivi di temere che il suo capo favorisca gli indagati.
Ovviamente non è possibile dire qui se i timori di De Magistris nei confronti del suo procuratore fossero o no fondati.
Si può dire, però, che egli certamente li riteneva tali, emergendo ciò con evidenza dal fatto che, come risulta anche dalla stessa sentenza del Csm, egli ha denunciato il procuratore e l’aggiunto alla competente procura di Salerno, dove, stando alle notizie di stampa (le uniche delle quali dispongo: vedi fra gli altri, Il Giornale del 13-1-2008), il procuratore Lombardi e l’aggiunto Murone risultano indagati, fra l’altro, per corruzione in atti giudiziari.
E qui emerge un altro aspetto sorprendente di questa vicenda.
Sembra evidente, infatti, che l’esito delle indagini di Salerno avrebbe potuto essere molto rilevante per la vicenda disciplinare qui in discussione, perché, se nel poco tempo che resta per concludere quelle indagini, risultassero fondate le ipotesi di reato a carico dei vertici della procura di Catanzaro, risulterebbe ancora più clamoroso che la procura generale della Cassazione e il Csm abbiano perseguito con tale tempestività e durezza De Magistris e solo lui invece che altri o almeno anche altri.
Dunque, il difensore del collega De Magistris ha chiesto formalmente al Csm di attendere l’esito delle indagini di Salerno prima di concludere il processo disciplinare (certamente non urgente, come si afferma nella stessa sentenza, con ciò rigettandosi la richiesta cautelare avanzata dal ministro Mastella). Ma questa istanza è stata rigettata.
L’accusa di ‘gettare discredito’
Altra incolpazione sorprendente è quella contraddistinta dalla lettera «F», con la quale si addebita a De Magistris di avere «generato, nei confronti dei superiori e di altri magistrati, sospetti non suffragati da elementi probanti, con conseguente oggettivo discredito per l’istituzione giudiziaria».
Da questo addebito Luigi De Magistris è stato assolto, avendo il Csm rilevato che ciò che la procura generale considerava «sospetti fonti di discredito» era stato oggetto di specifiche denunce alle competenti autorità da parte dello stesso De Magistris. Ma resta davvero significativo che la procura generale, dinanzi a una denuncia a carico di magistrati per fatti costituenti gravi reati, invece di preoccuparsi di verificare se i reati sono stati commessi o no, processi il denunciante accusandolo di gettare «oggettivo discredito sull’istituzione giudiziaria»!
Questo certo non incoraggerà altri magistrati che si imbattano in reati commessi da colleghi a denunciarli!
Il decreto di perquisizione motivato ‘troppo’
Una menzione merita, infine, anche il capo di incolpazione indicato con la lettera «B».
Il Csm ha condannato De Magistris perché nella motivazione di un decreto di perquisizione ha riportato integralmente – come indizi a carico dell’indagato, che era il procuratore generale di Potenza Vincenzo Tufano – le dichiarazioni di un altro magistrato, che riferiva, fra l’altro, della mancata vigilanza da parte del procuratore su un caso di incompatibilità fra un giudice e un pubblico ministero, originato da una relazione sentimentale asseritamente esistente fra i due.
La condanna lascia tecnicamente molto perplessi, per una serie di ragioni, che si possono sintetizzare dicendo che:
– la procura generale, nell’incolpazione compie un inammissibile (come tale non condiviso dallo stesso Csm nella sentenza qui in discussione) sindacato di merito sulla pertinenza o no dei riferimenti contenuti nella motivazione del provvedimento di perquisizione;
– il Csm riconosce che è legittimo inserire in atti giudiziari riferimenti a terze persone di contenuto tale da lederne anche l’onore, se conosciuti all’esterno, (cosa, peraltro, che succede abitualmente in mille provvedimenti relativi a persone «non potenti», senza che ciò stupisca nessuno), ma sostiene che ciò avrebbe dovuto essere fatto nel caso di specie verificando previamente la fondatezza o meno dei riferimenti. Per comprendere la paradossalità di questa tesi del Csm basti considerare che, per accertare il fatto incidentale, il pm avrebbe dovuto svolgere indagini che avrebbero potuto comportare una discovery anticipata e dannosa dell’indagine. L’indagine, peraltro, è un insieme di accertamenti e, per necessità logica e cronologica, alcuni vengono svolti prima di altri e, frattanto, tutti si intrecciano fra loro. È dunque logicamente impossibile che tutti siano verificati «previamente»;
– il Csm parla di diffusione del contenuto del decreto di perquisizione e di danno all’onore dell’indagato, ma il decreto di perquisizione è atto destinato a restare riservato, sicché, nel redigerlo, il pm non deve porsi il problema di una sua eventuale pubblicità. Diversamente, non si potrebbe scrivere nulla a carico di alcun indagato neppure negli atti interni a una indagine;
– la procura generale, nel capo di incolpazione, accredita le sue tesi riferendo che il decreto di perquisizione è stato annullato dal Tribunale del riesame, ma tace che ciò è avvenuto solo con riferimento alla posizione di altro indagato, mentre il procuratore generale Tufano non ha neppure impugnato l’atto, al quale, dunque, ha prestato sostanzialmente acquiescenza.
Il Csm, l’Anm e la politica
Tutto ciò posto, prima di concludere occorre ancora dare conto di altri due aspetti molto rilevan
ti di questa vicenda.
Il primo relativo al fatto che i vertici del Csm hanno assunto in essa condotte davvero gravi e sorprendenti.
In particolare, Letizia Vacca, componente cosiddetto laico del Csm, indicata dal Partito dei comunisti italiani, vicepresidente della Prima Commissione, ha ritenuto di dichiarare pubblicamente, in presenza di numerosi giornalisti che vi hanno dato ampio risalto, parlando al plurale, a nome di tutta la commissione, che Luigi De Magistris è «un cattivo magistrato» e che «deve essere colpito» perché ciò resti chiaro.
E appare di tutta evidenza quale grave violazione dei suoi doveri e quale irreparabile vulnus alla credibilità dell’istituzione che rappresenta sia venuto da queste dichiarazioni della professoressa Vacca, che denunciano una palese e dichiarata prevenzione di giudizio dell’istituzione che dovrebbe mantenere serenità, riserbo e, soprattutto, imparzialità nel giudicare i magistrati, la cui indipendenza è affidata alla sua tutela. E altrettanto evidente è quanto sia grave che la professoressa Vacca, non solo abbia formulato quegli inaccettabili giudizi, ma ci abbia tenuto a renderli pubblici con il massimo clamore e a nome dei suoi colleghi. Come a voler «mandare un messaggio» a non si sa chi sul contenuto e la fermezza delle intenzioni del Csm.
In queste condizioni, la sentenza che ho appena commentato, oltre a destare le perplessità tecniche che ho evidenziato, è giunta come una condanna ampiamente annunciata e indebitamente anticipata.
Altra sorprendente condotta ha posto in essere il vicepresidente del Csm Nicola Mancino, che presiedeva il collegio giudicante che ha emesso la sentenza De Magistris. Egli, violando suoi specifici doveri di riserbo (forse «difesi» anche dai precetti di cui all’art. 326 del codice penale, a seconda che si ritenga o no coperta da dovere di segreto d’ufficio la camera di consiglio della sezione disciplinare del Csm), non appena pronunciata da lui stesso la sentenza in questione, ci ha tenuto a dire ai giornalisti che essa è stata adottata all’unanimità.
Nessuna di queste condotte è stata oggetto di biasimo specifico (almeno noto all’esterno) da parte di tutti gli altri componenti del Csm, né alcuno dei consiglieri a nome dei quali Vacca e Mancino hanno «esternato» ha ritenuto di smentirli o di esigere da loro chiarimenti e scuse.
L’altro aspetto della vicenda da considerare è l’atteggiamento mantenuto dall’Associazione nazionale magistrati e di tutte le sue correnti, consistito nel:
1) rifiutarsi ostinatamente, a livello centrale, di prendere una qualunque posizione sulla vicenda;
2) emettere, a livello locale, un paio di comunicati palesemente ostili a Luigi De Magistris, isolandolo pubblicamente;
3) quando la procura generale e il Csm hanno avviato le loro pratiche, dire che bisognava tacere e attendere la sentenza;
4) quando è stata pronunciata la sentenza, dire che bisognava tacere e attendere la motivazione;
5) quando è arrivata la motivazione, tacere e basta, imboscandosi in un silenzio irreale.
Tutto ciò che scrivo qui e molto altro l’ho già scritto più volte a tutte le mailing list di tutte le correnti dell’Anm, pregando tutti i colleghi di avere il coraggio e la dignità di prendere una qualsiasi posizione di merito sulla vicenda e sulla sentenza e, per quanto possa sembrare assurdo, nessuno mi ha risposto né ha speso alcuna parola sul «caso De Magistris» (mistificazione politica creata per nascondere il «caso Calabria»), che, nella magistratura associata, è diventato, dunque, un assurdo tabù.
Evidente mi appare, nella sua tragicità, il significato della impossibilità dei vertici dell’Anm e di tutte le correnti di prendere una qualunque posizione su una vicenda tanto cruciale così come evidente risulta, conseguentemente, la definitiva perdita di ogni credibilità da parte di chi, rassegnandosi alle ovvie conseguenze «politiche» di questo silenzio, ne confessa implicitamente la natura necessitata.
Quest’ultimo aspetto della vicenda è di particolare rilievo, perché denuncia clamorosamente che la magistratura nel suo insieme ha sacrificato l’indipendenza dei singoli magistrati a logiche politiche molto preoccupanti.
Sul punto, con riferimento ai rapporti fra le correnti dell’Anm e la politica, preoccupa peraltro:
– che il ministro Mastella, l’indomani del suo insediamento, abbia incontrato tutte le correnti e il giorno dopo abbia nominato i vertici di numerosi uffici del suo ministero scegliendo cencellianamente proprio importanti esponenti delle correnti medesime;
– che anche autorevoli colleghi delle correnti un tempo «di opposizione» (per esempio Magistratura democratica) abbiano accettato quegli incarichi e ancor più che li abbiano mantenuti quando il ministro Mastella andava con evidenza in una direzione che avrebbe dovuto ricevere dai magistrati più critiche che consensi (questa situazione è stata ricostruita sui media come la cosiddetta «pax Mastelliana», si può immaginare con quale danno per la credibilità della magistratura associata);
– che una delle correnti cosiddette «progressiste» dell’Anm (il Movimento per la giustizia) abbia ritenuto opportuno candidare e fare eleggere al comitato direttivo centrale dell’Associazione un collega che è stato per dieci anni consecutivi (fino al 2005: dunque, in epoca recentissima) presidente di una regione (le Marche);
– che proprio questo stesso collega (Vito D’Ambrosio) sia stato designato (certamente in maniera del tutto legittima: non è questo che è qui in discussione) per sostenere l’accusa nel procedimento disciplinare a carico di De Magistris, chiedendo per lui addirittura una pena superiore a quella pur già gravissima poi inflittagli.
Appare evidente, infine, che ove una qualche attenzione ancora vi sia nella magistratura al concetto di «indipendenza», essa è riferita solo alla magistratura nel suo insieme e non anche ai singoli magistrati (ciò che è accaduto con i colleghi De Magistris e Forleo dà prova evidente di quanto gravemente vulnerata sia l’indipendenza cosiddetta «interna» dei magistrati).
Mentre è evidente che ciò che serve al paese è l’indipendenza «dei magistrati» (di ogni singolo magistrato), che è cosa del tutto diversa dall’indipendenza «della magistratura».
L’indipendenza della magistratura senza l’indipendenza dei magistrati si trasforma, infatti, soltanto in un privilegio corporativo e nello strumento di un potere che non serve il paese – dal quale, infatti, è sempre più lontano e meno apprezzato – ma se stesso.
(25 luglio 2008)
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