Contro i nomadi emergenza razzismo. Il dossier della rivista Jesus

MicroMega

di Annachiara Valle, da Jesus, settembre 2008

Da oltre sette secoli conviviamo con antichi popoli nomadi, che vanno sotto l’unico nome di zingari. Negli ultimi mesi il dibattito politico sulla sicurezza ha ridato fiato, nella psicologia collettiva, a vecchie paure e pesanti atteggiamenti razzisti. Ma qual è davvero la situazione nelle periferie delle grandi città? E come ha reagito la comunità ecclesiale? Viaggio in quella fetta di mondo cattolico che vive a fianco dei rom, offrendo loro solidarietà, diritti e assistenza pastorale. Perché in fondo anche i cristiani, in quanto popolo di Dio in cammino, sono spiritualmente nomadi.

Il Terzo Reich li accusò di «wandertrieb», istinto al nomadismo. Un morbo incurabile, secondo i nazisti, dal quale tutti gli zingari sarebbero stati affetti. Un pregiudizio che costò la vita ad almeno 600 mila nomadi. Nella sola Auschwitz ne furono sterminati 23 mila, senza contare le esecuzioni sommarie da parte delle SS avvenute fuori dai campi di concentramento. Furono rastrellati ovunque e internati nei lager dopo che, il 16 dicembre 1942, Himmler, comandante supremo delle SS, aveva firmato il "decreto Auschwitz" con il quale si avviava «la soluzione finale del problema zingari». Ancora oggi, però, quando si parla di Olocausto, in tanti faticano a ricordare quello sterminio. Senza contare che solo nel 1980 il governo tedesco ha riconosciuto che gli zingari, sotto il regime nazista, avevano subito «una persecuzione razziale».

«Uno dei motivi di questa scarsa memoria», precisa monsignor Agostino Marchetto, presidente del Pontificio consiglio per i migranti e gli itineranti, «è che i nomadi non hanno uno Stato alle spalle che salvaguardi la loro identità e i loro diritti. È dunque facile che siano presi di mira e discriminati, così come è facile non riuscire a tramandare la storia che si è vissuta».

C’è chi ricorda ancora, però. Da una parte e dall’altra. Per aver vissuto quei giorni, per aver visto come si possano cavalcare gli stereotipi contando sul silenzio della gente perbene se non sull’aperta complicità. «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari», scriveva Bertold Brecht, «e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non era rimasto nessuno a protestare». Una poesia, questa, che da settimane sta facendo il giro delle caselle e-mail e della carta stampata. Insieme con discussioni, dibattiti, raccolta di firme, commenti sdegnati. Perché, quando il Governo ha lanciato il suo pacchetto sicurezza, con la schedatura dei nomadi e l’idea di prendere loro le impronte digitali, quando sono state chieste leggi apposite sui nomadi che cozzano contro le normative comunitarie, a tanti è tornata la memoria. E, mentre si continua a premere sull’emergenza sicurezza, chi lavora sul campo cerca di far capire, anche se con fatica, che la vera emergenza è la tutela di queste popolazioni.

«Si avverte l’insicurezza per la propria vita, per la propria famiglia», spiega padre Agostino Rota Martir, che da anni vive nel campo nomadi di Coltano, vicino Pisa. «Il clima di questi tempi», aggiunge, «porta le famiglie rom a chiedersi cosa riserverà loro il prossimo futuro, quali saranno gli spazi ancora aperti, o appena socchiusi, che permettano di trovare una nuova autonomia, una loro "resistenza" di fronte a una società che sta diventando sempre più aggressiva nei loro confronti. I rom sono ormai abituati da tempo a questa intolleranza, ma oggi i toni sono decisamente più preoccupanti e allarmanti rispetto soltanto a qualche mese fa. La paura è anche rafforzata dal fatto di sentirsi ancora più soli, nel constatare che oggi sono ancora poche le voci che parlano veramente zingaro, e che spesso quelli che cercano di difendere i rom, usano il linguaggio e le tattiche tipiche dei "gagjo" (coloro che non sono rom o sinti). Purtroppo anche quelle realtà sensibili e attente – mi riferisco al mondo del volontariato e delle associazioni – spesso si dimostrano lontane da un atteggiamento realmente rispettoso quando avvicinano il mondo e lo spazio dei rom. Lo vedono esclusivamente come una realtà da "sanare" secondo i nostri schemi e finiscono con il sostituirsi a loro, con il decidere quale debba essere il bene per i rom e per i loro figli».

Circa 160 mila in tutta Italia, i nomadi sono un mondo di mondi. I primi, di origine rom, arrivarono nella nostra penisola alla fine del XIV secolo, dopo la battaglia del Kosovo che segnò l’inizio della dominazione musulmana nei Balcani. Un altro gruppo, i sinti, arrivarono via terra nella seconda metà del 1400. Un terzo gruppo, quello dei rom harvati, giunse in Italia dopo le due guerre mondiali. E poi, ancora, dopo le persecuzioni di Tito e la guerra bosniaca, sono arrivati i khorakhanè, i dasikhanè, i kanjarja, i rudari, i busniarija, i mrznarija. «Adesso c’è un’ulteriore migrazione dall’Europa dell’Est», aggiunge don Federico Schiavon, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale di rom e sinti di Migrantes, «e si tende a identificare tutta la popolazione con gli ultimi arrivati. Non solo: il fatto che tra gli ultimi immigrati ci sia stato qualche episodio di delinquenza, ha ingenerato reazioni negative anche verso coloro che sono qui da tempo. Non si è fatta alcuna distinzione e si è proceduto a sgombrare i campi. Ma una delle cose più tragiche è stata che, quando hanno buttato giù i campi, hanno fatto crollare anche tanti cammini che persone, maestre, volontari, sacerdoti avevano percorso con queste persone. Sull’onda di paure create ad arte da parte di chi aveva interesse a fomentare tale situazione si sono interrotti i processi anche faticosi messi in moto da tante persone. E sono state troppo poche le voci che si sono levate a difesa della dignità di questa gente».

Nel commentare il dispiegamento, voluto dal Governo italiano, di 3 mila militari con funzioni di ordine pubblico, l’Economist di qualche settimana fa scriveva: «In mezzo al melodramma, inclusa "l’emergenza" sull’arrivo degli immigrati nei barconi dal Nord Africa e lo "sfratto" degli zingari, c’è una domanda fastidiosa: perché il governo è così duro con il crimine e indulgente con la corruzione?». Viene il dubbio, insomma, che tutto questo agitare l’opinione pubblica sia funzionale a nascondere i veri problemi del Paese. D’altra parte, contro i nomadi tutti sono pronti a puntare il dito. A invocare leggi severe. Qualcuno, anche in buona fede, insiste per avere norme «a tutela dei minori che elemosinano ai semafori». Voci che non si sono alzate, però, quando, nel settembre del 1993, Tarzan Sulic e Mira Djuric, di 11 e 13 anni, furono fermati dai carabinieri perché sospettati di un furto in un’abitazione. Tarzan lasciò la caserma dopo poche ore, ucciso da un colpo d’arma da fuoco e Mira fu ridotta in fin di vita. Non sono mai state individuate le responsabilità. Due anni più tardi, il 15 marzo del 1995, a Pisa, qualcuno depositò al semaforo un pacco dono ben confezionato. Quando Emran, tre anni, e Sengul, 13, si avvicinarono per aprirlo, l’esplosione lacerò occhi e braccia dei due bimbi.
E ancora, a Roma, a Sahira, nove anni, furono spezzati i polsi da un giustiziere sconosciuto perché sorpresa a tentare un furto su un autobus. Ogni giorno piccoli e grandi abusi, spesso non denunciati, ai danni di questo popolo e dei loro figli si consumano nel silenzio della gente che invoca per sé sicurezza e garanzie. «Troppo spesso», spiega Cristina Simonelli, docente di Patrologia nelle Facoltà teologiche di Verona e di Milano, e da tanti anni ospite di un campo alla periferia di Verona, «di fronte ai rom perdiamo la testa. Qualsiasi cosa riguardi uno o una di loro, diventa di tutti loro. Si nega la norma che afferma che la responsabilità penale è sempre individuale. Davanti a loro non funziona: la responsabilità diventa etnica, non esistono più uomini e donne, con nomi propri, ma un gruppo caricato di tutti i fantasmi negativi che abitano il nostro profondo e rendono inquieti i nostri sonni. E, a turno, condividono questo pregiudizio con altri gruppi, sempre collettivamente intesi: ora rumeni, ora albanesi, ora marocchini, ora, globalmente, clandestini. A turno, però: perché i rom fanno sempre parte del pacchetto».

È con questo pregiudizio che spesso ci si avvicina a loro. I nomadi sono quelli che «rubano i bambini», anche se una ricerca commissionata da Migrantes e in corso di pubblicazione ha assodato che negli ultimi 20 anni in soli due casi si è accertato un «presunto tentativo di rapimento»; sono quelli che «rubano per strada e nelle case», anche se un’altra inchiesta ha messo in luce che la percentuale di delinquenza non è superiore a quella di altre etnie e degli stessi italiani; sono quelli che «non vogliono vivere nelle case e nella decenza», ma poi quando costruiscono delle abitazioni "vere", come è avvenuto alla periferia di Milano, si invoca l’abbattimento e non il condono; sono quelli che «sfruttano i figli per l’accattonaggio», mentre è vero esattamente il contrario e cioè che i bimbi sono considerati dei piccoli principi ai quali spetta il posto privilegiato, che è quello accanto alla madre.

«Il punto vero», insiste don Schiavon, che vive da tempo in un campo vicino Udine, «è che non si riesce a guardare il mondo dalla loro parte, a capire il loro punto di vista. Quando ci mettiamo in relazione con i nomadi, proponiamo delle cose che sono buone per noi. È un popolo che ha sempre vissuto nella libertà degli spazi, senza voler disturbare gli altri. C’è anche chi, nel corso della vita, ha preferito abitare in una casa, ma è una loro scelta. Di solito, invece, noi entriamo in relazione con loro a partire dalle nostre idee e imponiamo il nostro stile di vita senza vedere le cose belle che ci sono nel loro modo di vivere. Io paragono la vita nei campi rom, con queste belle famiglie allargate, a quella che era una volta la vita delle nostre famiglie patriarcali dove c’erano dei valori, delle cose interessanti che noi un po’ alla volta stiamo perdendo».

La Chiesa è coinvolta in prima persona, «anche perché», ricorda Cristina Simonelli, «i nomadi non sono destinatari delle nostre azioni, ma sono un pezzo di Chiesa. La maggior parte di loro sono cattolici e se la Chiesa se ne disinteressasse, abbandonerebbe una parte del popolo di Dio. Una parte che ci insegna a capovolgere la storia e a guardarla con altri occhi».

D’altra parte, aggiunge Giovanni Franco Valenti, per anni direttore dell’Ufficio stranieri del Comune di Brescia, «la maggioranza di queste persone è italiana. Non si tratta di ladri e delinquenti, ma di cittadini. Senza contare che, se esiste una fetta di devianza, questa la si può arginare dando dignità al popolo, non togliendola».

Prima città italiana a sperimentare politiche inclusive, Brescia ha cercato di salvaguardare la cultura dei suoi cittadini rom e sinti e poi anche dei nuovi arrivati dall’Europa dell’Est. «L’amministrazione», spiega Valenti, «ha costruito delle strutture che potessero rendere attuabile lo stile di vita tradizionale dei diversi popoli. Così abbiamo ristrutturato tutti i campi nomadi storici, creando spazi comuni per giocare, e fornendo gli attacchi di luce, gas e acqua in sicurezza. Abbiamo rifatto le tettoie, abbiamo creato aule e luoghi di ritrovo. Nel 1997 e nel 1998, con i fondi regionali siamo riusciti a costruire un campo sinti con aiuole attrezzate, l’attacco delle lavatrici, le docce, un’area verde attrezzata per il parcheggio delle roulotte. Per i rom bresciani abbiamo messo a punto un villaggio con casette di legno pesante. I rom khorakhanè abitano in 29 casette prefabbricate costruite su 3 lotti, con luce, acqua e gas. E poi molti hanno invece chiesto di abitare in case popolari. Abbiamo cercato di creare strutture che rispettassero la loro modalità di vivere e i loro desideri. Un lavoro pensato insieme con loro e contro il quale si è sempre fortemente scagliata la Lega. Eppure, proprio in virtù di questo lavoro inclusivo, il rapporto tra i nomadi e gli altri cittadini non ha mai creato problemi. Non ci sono baraccopoli, i ragazzini sono perfettamente inseriti a scuola, la delinquenza è scarsa. Brescia è stata finora l’unica città che ha voluto superare i campi nomadi con un impegno da parte dell’amministrazione e un coinvolgimento delle popolazioni. Le strutture sono dotate di tutti i servizi, compreso il bus per portare i bambini a scuola, ma l’investimento dell’amministrazione è stato sostenuto e incrementato da una responsabilizzazione dei nomadi, che pagano affitti e bollette». Un po’ quello che vorrebbe fare il sindaco di Venezia Massimo Cacciari, se l’opposizione leghista non premesse per uno sgombero forzato di tutti i "diversi".

Sgombero o integrazione? Don Schiavon, come gran parte di chi opera con i nomadi, alla parola integrazione ha un sussulto: «Io credo che, più che di integrazione, bisognerebbe parlare di "innesto", nel senso che noi normalmente crediamo che loro debbano integrarsi nel nostro modo di vivere, mentre invece ci sono aspetti della loro cultura che sono interessanti per noi e per la nostra vita. Integrandoli faremmo uno sbaglio. Il termine "innesto", invece, ha un significato più ricco: dall’unione di io più lui nasce qualcosa di nuovo. Noi che viviamo qui nei campi scopriamo dei valori che servono anche per la nostra cultura».

Di "innesto" parla anche padre Rota Martir: «Sì, meglio questa parola piuttosto che "integrazione". L’innesto, infatti, avviene tra realtà diverse, dove i soggetti interagiscono insieme equilibrandosi, armonizzandosi, crescendo insieme e scambiandosi le proprie linfe vitali. Il risultato finale è difficilmente programmabile, è come uno spazio aperto che darà i suoi frutti imprevedibili e sempre nuovi, forse anche diversi da quelli che avremmo desiderato e sperato».

La cosa più triste, aggiunge la professoressa Simonelli, «è l’atteggiamento dei credenti. Otto anni fa Giovanni Paolo II pronunciò questa preghiera: "Preghiamo perché nella contemplazione di Gesù, nostro Signore e nostra Pace, i cristiani sappiano pentirsi delle parole e dei comportamenti che a volte sono stati loro suggeriti dall’orgoglio, dall’odio, dall’inimicizia verso gli aderenti ad altre religioni e verso gruppi sociali più deboli, come quelli degli immigrati e degli zingari". Una tale richiesta di perdono non l’abbiamo sentita in questi giorni, così come in tanti stentano a ricordarsi le parole del Vang
elo "ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato…". Dovremmo interrogarci sul perché delle nostre paure e sul come lasciamo che gli altri si avvicinino a noi».

Vivere insieme, come la Chiesa fa con le cosiddette "comunità-ponte", è uno dei modi per conoscersi e camminare insieme. Per "contaminarsi", come fra l’altro suggerisce la loro splendida musica: i violini zigani, le danze struggenti, la melodia che passa dal riso al pianto, dal dramma alla festa. È un popolo carico di storia, di nostalgia e dolore, ma anche di capacità di fare spettacolo e divertire. È il popolo del circo e delle feste, delle danze attorno al fuoco. Ancora oggi, se siete zingari, entrate gratis agli spettacoli circensi. Un posto c’è anche per gli amici. «Essere amico di uno zingaro è un lasciapassare», racconta la professoressa Simonelli, «e c’è chi dice che spera che sia così anche in Paradiso: ci faranno passare se saremo stati loro amici».

(16 settembre 2008)



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