Pubblichiamo un testo che ancora solo pochi anni fa sarebbe sicuramente stato pubblicato come editoriale di prima pagina da qualche grande quotidiano italiano o sarebbe stato al centro dei principali talk show. Quantum mutatus ab illo! Ormai il conformismo culturale e politico ha talmente saturato la vita del paese, che un articolo esemplare nella valutazione di meriti e mediocrità culturali e nella semplicità di adesione ai valori della nostra Costituzione, trova spazio solo in testate minoritarie di resistenza eretica democratica. (pfd’a)
Vorrei provare a tracciare un provvisorio bilancio della vicenda (sgradevole, ma in fondo assai istruttiva) provocata dal cortocircuito tra una mia frase iconoclasta contro il defunto Zeffirelli e l’uscita di un mio testo tra le tracce della maturità. Una vicenda sfociata nel dubbio privilegio di un attacco personale contro di me da parte del ministro Salvini, e dunque nell’immancabile pestaggio mediatico da parte dell’ormai larghissima corte di boia, capre e ballerine che circonda (più o meno consapevolmente) il Ministro della Paura.
Il fulcro su cui ruota tutta questa vicenda ha un nome: dissenso. L’orizzonte che essa dischiude è, invece, quello del conflitto.
1. Necessità del dissenso
Come ho spiegato altrove tutto parte da un mio tweet.
Si può avere naturalmente un’opinione assai critica verso l’uso dei social media. Io stesso mi sono chiesto se sia giusto usare un mezzo che per sua natura impedisce riflessioni articolate, e produce una buona dose di fraintendimenti ed equivoci. Ma alla fine penso che sì, che sia giusto starci. Da papa Francesco a Salvini, è anche lì che si combatte una battaglia di opinione e di pensiero.
Ed è del resto la dinamica stessa di questa vicenda a dimostrare che anche un tweet può essere uno strumento utile, se il fine è la ricostruzione di un qualche pensiero critico diffuso.
L’aspetto più clamoroso della vicenda è proprio l’esiguità di quelle due mie righe di fronte alle centinaia di pagine e di spazio mediatico dedicati all’esaltazione di Franco Zeffirelli.
La morale è che il sistema non è disposto a tollerare nemmeno quelle due righe: nemmeno un atomo di dissenso. Il senso comune su cui poggia il consenso al potere è così fragile, sul piano razionale e argomentativo, che non si può permettere che qualcuno dica che il re è nudo.
Il dissenso è dunque pericoloso: e diventa pericolosissimo quando chi lo esprime rischia di acquistare autorevolezza mediatica, per esempio attraverso la sua inclusione nel ‘canone’ della maturità (tanto più insopportabile perché fatta da ‘burocrati’ ministeriali di un ministero controllato dalla Lega!). Ed è proprio allora che scatta il pestaggio.
Ma la necessità di praticare il dissenso, vorrei dire la necessità di praticarlo con pervicacia e continuamente, «in tempo opportuno e in tempo non opportuno», appare evidente non se si analizzano le ovvie reazioni del potere, ma quando si osservino quelle degli spettatori terzi.
Accanto a un fiume di solidarietà privata e pubblica (di cui sono profondamente grato) – che ha coinvolto però assai poco gli intellettuali e per niente l’università, sempre chiusa nel suo opportunistico autismo – ci sono stati moltissimi messaggi che mi hanno indotto a riflettere su quanto profondamente la dimensione del conflitto sia stata sradicata dall’immaginario collettivo.
Cittadini comuni – anche impegnati, anche profondamente avversi a Salvini e magari fino ad ora disposti a concedermi stima e fiducia – hanno voluto manifestarmi la loro disapprovazione per il mio tono, e hanno condizionato a questa esplicita presa di distanze la loro solidarietà con me. Poco importava che contemporaneamente io venissi coperto da una smodata quantità di veri e propri insulti di ogni sorta. Rimaneva il fatto che avevo parlato male di un morto: ero stato inopportuno. «Non c’era bisogno di farlo», «non dovevi farlo ora», «non dovevi essere irridente».
Ebbene, credo invece che ci fosse bisogno di farlo, di farlo in quel momento, di farlo usando lo strumento della corrosione e del sarcasmo.
Andava fatto allora: mentre la bara veniva innalzata sugli scudi. L’amministrazione della mia città (guidata dal post-renziano Nardella, appena trionfalmente rieletto) aveva deciso la santificazione civica e religiosa di Zeffirelli. I due spazi pubblici più simbolici, quello civico e quello religioso, stavano diventando la scenografia per una sorta di santificazione, e non si levava nemmeno una voce di dissenso. Nemmeno una: non nella politica, non nella Chiesa, non sui giornali, non nell’università, non nelle scuole! Una cosa impensabile solo venti anni fa. E, per ragioni su cui tornerò più oltre, era necessario che almeno una voce si alzasse.
Norberto Bobbio ha scritto che la funzione degli intellettuali è quella di non lasciare a chi ha il monopolio della forza (cioè il governo) anche il monopolio della verità. Il dissenso come abito mentale. Come condizione per la democrazia. Come spazio politico ineludibile perché si possa parlare di democrazia.
Detto fuori dai denti, anche a me non sarebbe dispiaciuto trovar scritto da qualcuno più coraggioso e pronto di me le cose che andavo pensando.
Ma così non è stato: e come ha scritto offrendomi la sua solidarietà (su Twitter…) il mio collega e amico israeliano Sefy Hendler, citando la Mishna, «dove non vi sono uomini, procura tu di essere uomo».
Il risultato raggiunto (seppur a qualche prezzo) è stata la costruzione di un embrionale dissenso.
Un dissenso privato: testimoniato dalle decine di messaggi che mi sono arrivati. Persone che pensavano più o meno quello che ho detto, ma che non trovavano nemmeno una voce pubblica che desse a quella ‘parola contro’ un diritto di cittadinanza nel discorso pubblico.
E poi un dissenso pubblico: la rivista ‘il Ponte’, fondata da Piero Calamandrei, ha ripreso il mio articolo e l’ha messo in apertura del suo sito. E ha deciso di dedicare un suo numero cartaceo all’analisi critica della produzione e del pensiero di Zeffirelli e dalla Fallaci.
E in consiglio comunale, all’atto dell’insediamento della nuova giunta, i due soli consiglieri di sinistra hanno fatto propria la mia posizione, mettendo agli atti del discorso politico ufficiale della città la loro estraneità a quel deteriore simbolo che si era voluto creare.
Risultato: non si può oggi più dire che ‘tutta Firenze’ si riconosca in Zeffirelli. Esiste ora un dissenso leggibile: che senza quel piccolo tweet non sarebbe mai nato.
2. Necessità del conflitto
Ma perché prendersela con un novantaseienne appena spirato?
Togliamo innanzitutto dal tavolo l’intollerabile ipocrisia del “de mortuis nihil nisi bonum”. Un motto codino, e legato profondamente all’etica borghese (fino all’Otticento, al contrario, la morte era il momento del giudizio: mentre il virgiliano ‘parce sepulto’ vale per lo sconfitto, non certo per l’idolo trionfante), che copre il vituperio privato sotto la coltre della pubblica venerazione. Ricordo le polemiche sulle sacrosante critiche innalzatesi contro Sergio Marchionne all’indomani della morte.
Come non vedere che il giudizio sui personaggi pubblici è sempre lecito: e anzi doveroso, perché è su quel giudizio che si costruisce una coscienza civile e politica condivisa? O un domani (che mi auguro sinceramente lontanissimo per tutti i citati: perché altra, intollerabile, cosa è augurare la morte a chicchessia) saremo costretti a tacere il giudizio su Berlusconi o Salvini, Trump o Putin?
Ma perché Zeffirelli?
Perché la glorificazione di Zeffirelli da parte di una giunta comunale che si dice alternativa alla destra di Salvini è un atto culturalmente gravissimo. Che segue la dedica (avvenuta nel 2016, sempre per mano di Nardella) di un piazzale a Oriana Fallaci: un atto inaccettabile quanto lo è la dedica di una via a Giorgio Almirante, per esempio.
La Fallaci ha espresso le idee che oggi costituiscono l’ossatura ideologica dell’internazionale nera: da Salvini a Bannon a Putin. La teoria della sostituzione del popolo cristiano con quello musulmano che ha armato la mano di Brenton Tarrant in Nuova Zelanda e di Luca Traini in Italia. La Fallaci – che ha scritto di musulmani che «orinano sui Battisteri» e che «cagheranno nella Cappella Sistina» – subì un processo in Francia per istigazione all’odio razziale (infine annullato per vizi di procedura) e una richiesta di arresto per le stesse ragioni da parte di un tribunale svizzero.
Franco Zeffirelli, che considerava la Fallaci «la donna più importante che Firenze ha avuto nel secolo scorso», ha espresso in moltissime occasioni idee razziste; un consenso entusiastico alla pena di morte (da infliggere anche alle donne che hanno abortito); l’idea che esistesse «una parte buona» del fascismo; un ostentato disprezzo verso il movimento gay (e nulla cambia il suo essere omosessuale); una totale identificazione con Berlusconi.
Ora, è legittimo lottare perché la propria città non trasformi due simili personaggi in eroi esemplari? È necessario, io credo.
Ed è necessario oggi in modo tutto particolare. L’egemonia culturale della destra estrema – razzista e fascista – di Salvini si è imposta in un deserto ideale. A quella distopia nera non si oppone – a sinistra – nessuna utopia luminosa: ma solo la difesa dello stato delle cose. La difesa di questo mondo ingiusto e guasto: e felice di continuare ad essere ingiusto e guasto.
A Firenze questo è particolarmente evidente: il governo Pd ha fatto una politica di destra (no alla moschea; zone rosse contro i poveri; sgomberi di case occupate; case popolari prima agli italiani…) e la città è ora trasformata in un luna park del Rinascimento per ricchi (la traduzione in città dell’estetica del lusso che domina il pessimo cinema di Zeffirelli). Nel 1937 Simone Weil scriveva: «Le bellezze di Firenze sono tali che D’Annunzio non sarebbe capace di celebrarle. Lo dico a lode di Firenze … perché questo modo di concepire l’arte e la vita mi fa orrore, e sono convinta che quest’uomo sarà presto profondamente e giustamente dimenticato». La Weil aveva compreso fino a in fondo la misura aspra e civile della bellezza di Firenze: ma il destino della città era sprofondare fino in fondo nella retorica, nell’estetica e anche nell’orrore della visione della vita dannunziana che si condensa in patinatissima cartolina nel cinema di Zeffirelli: che «sarà presto profondamente e giustamente dimenticato».
L’unica religione è quella del brand della città: il culto del successo copre ogni conflitto. Ed è questo terribile tarlo del nostro tempo (il culto dei famosi in quanto famosi) che spiega perché Nardella e i suoi siano – anche su Zeffirelli – in perfetto accordo con Salvini e i suoi. I primi lo fanno per amore del brand e del successo della città: senza pensare a quali valori stiano esaltando. I secondi lo fanno perché Zeffirelli e la Fallaci sono le meno impresentabili figure del loro nerissimo pantheon.
Ma di questo a Firenze nessuno pare accorgersi. L’assessore alla cultura appena nominato non è intervenuto alla presentazione di un libro a cui partecipavo anche io perché – ha detto privatamente – l’opinione che avevo espresso su Zeffirelli era «inaccettabile». E l’attacco di Salvini a chi scrive è stato invocato e preparato da un deputato fiorentino già di Forza Italia e poi passato al Pd di Renzi, che mi ha accusato di aver insultato tutta la città avendo aggredito due «grandi fiorentini».
Il nemico è ora il conflitto in sé: è inconcepibile l’idea che esista una Firenze di destra e una di sinistra. Una che si riconosce in Zeffirelli e nella Fallaci, e una che li aborre. Una che vive della rendita del brand, e una che ne muore. Una che è felicissima dello stato delle cose e di questa dolciastra patina di finzione e di lusso, un’altra che vorrebbe rovesciare il tavolo.
E invece no, non si possono tenere insieme Don Milani e Zeffirelli: o di qua, o di là.
C’è un enorme problema di pedagogia civile e di ricostruzione di un senso comune che riconosca la necessità del conflitto. E in questo lungo lavoro è non solo utile, ma necessario, tornare a dire a gran voce e in pubblico perfino l’ovvio: e cioè che l’estetica e l’etica del mediocre Zeffirelli o dell’orrenda Fallaci rappresentano tutto ciò che non siamo, tutto ciò che non vogliamo.
(26 giugno 2019)
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