Coronavirus covid-19 (sars cov-2) ovvero della scienza e delle parole
Gloria Malaspina
Queste riflessioni traggono spunto dalla situazione contingente, imprevista e drammatica.
Faccio parte di quella generazione che ha avuto la fortuna di lavorare ed entusiasmarsi per la sanità pubblica, impegnandosi per costruire la medicina del territorio e per definire i motivi imprescindibili della prevenzione in ambito sanitario e ambientale. Ha significato lavorare, studiare e interagire con le molteplici e ricche competenze di una “comunità scientifica allargata”, formata da medici, clinici e igienisti del sistema sanitario, accademici, da esperti “grezzi” dei sistemi produttivi e dei singoli cicli di produzione (operai, tecnici, impiegati).
È stata una generazione che, ancora non sufficientemente preparata per affrontare i danni ambientali di un sistema produttivo che distruggeva risorse e toglieva barriere ai rapporti tra campagna e città, tra animali e territori selvatici con campagne e allevamenti, già allora in molta parte intensivi, ha tuttavia gettato le basi per individuare e prevenire i danni alla salute di chi in quel sistema lavorava e viveva. Prevenzione, era l’obiettivo.
Abbiamo costruito insieme nuovi determinanti di opzioni e scelte organizzative e di sistema per la sanità pubblica, con la prevenzione al centro della lotta alla morbilità, all’infortunistica, alla mortalità, ridefinendo e ricostruendo i presidi per la salute della popolazione nel territorio e negli ospedali, implementando la formazione universitaria e ristrutturando forme, relazioni e linguaggio. Abbiamo sostenuto fortemente il ruolo dello Stato e delle Istituzioni come soggetti “terzi” nelle relazioni tra popolazione, imprese, lavoratori nell’ambito delle scelte e delle decisioni che di volta in volta presentassero criticità per la loro assunzione.
Vivo perciò con disappunto quel tipo di informazione che è un diluvio di notizie imprecise, che si accavallano e sono comunicate male, anche quando hanno un valore.
1. “Notizia” non è “Informazione”. L’informazione non sopporta la cacofonia delle notizie, che quasi sempre corrispondono alla ricerca di un titolo da anticipare, con un rimbalzo fra media, cittadini e rete che le amplifica e le lancia in un territorio sconosciuto: un territorio dove si utilizza la notizia a fini individuali o politici, con obiettivi di onesta divulgazione, per condizionare orientamenti, per acquisire notorietà in un ambito professionale o semplicemente per avere followers, a seconda del mezzo di comunicazione o del social media utilizzato.
Anche quando la notizia non è di per sé falsa e proviene dalla comunità scientifica – che spesso esprime incautamente ipotesi senza considerare che chi le ascolta non le assume come tali – non diventa “informazione”: nessuno scienziato riuscirà ad interloquire in tempo precisando quanto detto o quanto ascoltato. Così le notizie si accavallano anche in contraddizione, mentre la scienza ha bisogno di un tempo per la verifica e la conferma di ipotesi o affermazioni.
Si sconvolgono il senso delle competenze, le competenze e i rapporti fra le competenze: un biochimico non è un microbiologo, che non è un infettivologo, che non è un virologo, che non è un intensivista, che non è un epidemiologo, che non è un esperto dell’Oms.
Quanto ai presidenti o ai direttori di un’istituzione scientifica governativa, senza nulla togliere alla loro propria competenza, sentono la pressione del governo che devono coadiuvare e al quale devono rispondere nei tempi e nelle modalità della comunicazione istituzionale, necessariamente sensibile alle istanze della popolazione, della mediazione sociale, delle imprese.
Una pressione non necessariamente negativa, ma insensibile ai criteri della scienza, di cui abbiamo bisogno in questa temperie, che si tratti di scienza bio-clinica e bio-medica, ma anche economica e sociale: dà voce a dubbi, alla ricerca di soluzioni più “facili”, a interessi, a paure. Queste forme di pressione volgono facilmente in critica alle decisioni assunte, quando una notizia ventila reticenze, contrappone opzioni o presenta scorciatoie “risolutive” (farmaci da testare o dei tamponi a chi, come e quando farli, o delle mascherine, quali e appropriate per chi o se e come approvvigionarsene…anche l’organizzazione è una scienza…). Si genera così altra cacofonia che produce incertezze e inquietudini, quando non improvvisazioni “politiche” nel tentativo di esercitare una tenuta scientificamente accettabile delle strategie che vengono messe in campo.
Dovrebbero essere coinvolte ed ascoltate le autorità scientifiche indipendenti.
Coinvolgimento. Nessun governo al mondo ha mai organizzato, a favore del proprio operare, un gruppo di riferimento permanente composto dalle diverse competenze, dai responsabili delle proprie istituzioni scientifiche, dai dirigenti responsabili degli istituti ospedalieri più importanti e di cura specialistica, dalla rappresentanza di chi si occupa della medicina sul territorio come i medici di medicina generale, da statistici che rendano “leggibili” le conoscenze acquisite e da autorità scientifiche indipendenti: un gruppo permanente che discutesse, valutasse e validasse nel tempo le acquisizioni scientifiche e cliniche che si presentano continuamente nel Mondo…occorrerebbe una seria considerazione della ricerca e una lungimirante consapevolezza di che cosa significa e può significare in futuro il mondo globalizzato e stravolto dalle scelte economiche e produttive.
Invece, prevale la tendenza ad usare la scienza come un bancomat.
2. Gli scienziati non sono un bancomat e ben altro è la cultura scientifica, la cui comprensione è fondata sulla consapevolezza che la scienza non dà mai numeri precisi su eventi, tanto meno se epidemici, a meno che non si tratti di ricerche retrospettive ben sostanziate da dati e corrette nel loro disegno. Non ci si rende conto (senza cultura scientifica sufficientemente diffusa) che la scienza si basa sulle evidenze, perché è conoscenza, e che quindi l’importanza della scienza e di quello che può determinare nelle strategie per affrontare un problema, piccolo e circoscritto regionalmente o nazionalmente, o enorme come una pandemia, sta proprio nella stima dell’incertezza, da cui trarre affinamento di strumenti conoscitivi e possibilità di avanzare ipotesi, e non nell’estrema precisione “a domanda”. Ancora una volta, è la sintesi tra tesi e antitesi – che non significa “mediazione” tra interessi o tra tesi differenti, ma risposte a fronte di controdeduzioni formulate per mettere alla prova la correttezza di ipotesi espresse – che può generare e proporre i percorsi e la programmazione, necessari ad affrontare i problemi evenienti.
3. Spesso la notizia/informazione viene risolta nei numeri. A che cosa servono, nell’analisi dell’evoluzione di questa pandemia, i numeri di quello che è stato definito “bollettino di guerra”, con un’imprecisa e fuorviante similitudine?
A informare. Come? Su che cosa? Sulla morbilità e la mortalità?
Le persone vogliono sapere quale sia l’andamento dell’epidemia, vogliono “trasparenza”, soprattutto quando le notizie che si succedono fanno pensare a qualche “non detto”, all’esclusione di soluzioni semplici e alla portata per problemi difficili…ma, in realtà, vogliono sapere quando finirà lo stato di allarme, quand
o potranno uscire, quando potranno tornare a lavorare o a studiare. Per come vengono dati, i numeri servono a dare delle risposte?
I numeri hanno una specie di potere taumaturgico: tendono a dimostrare la presenza di un controllo della situazione, da parte di chi li da, e vengono assunti come una speranza, da parte di chi li ascolta, che spesso, però, non sa bene come interpretarli e li vive come un’altalena tra conforto e frustrazione.
Per come vengono dati – elenchi definiti per classi di contagiati nuovi e contagiati totali, di guariti, di presenti in terapia intensiva, di morti nuovi e morti totali, complessivi Italia e disaggregati per Regioni – pur con timide e giustamente prudenti osservazioni sull’andamento delle curve, cioè se tendono o non tendono all’appiattimento, indicando un avvicinamento o meno al famoso picco, non servono a molto. I numeri scontano una difformità regionale di variabili risultanti dalle strategie assunte localmente nel quadro delle indicazioni nazionali: sull’utilizzo e come e perché dei tamponi o delle analisi sieriche per determinare la presenza di anticorpi; sul grado di ospedalizzazione oppure di confinamento presso il domicilio o presso hospice (laddove si sia scelto di isolare i positivi dai propri conviventi); sul tasso di persone che non dichiarano sintomi lievi pur di non rischiare l’ospedalizzazione; sulla possibilità concreta dei medici di medicina generale di esercitare la funzione di referenti di prima istanza e di seguire pazienti a domicilio con dotazioni tecnologiche utili; sugli invisibili – immigrati e non immigrati – che non possono rispettare le regole e sono per di più non controllati perché non hanno residenza né referenti se non, quando ce l’hanno, le organizzazioni di volontariato, sia laico che cattolico; sulla reale dimensione della mortalità…chi muore a casa, chi in ospedale, chi nelle Rsa, con una diagnosi sintomatica senza tampone o con tampone… Insomma, i contagiati, i positivi sintomatici lievi, gli asintomatici non individuati, non entrano tutti nel conteggio dei positivi, ad esempio. Lo stesso vale per i deceduti, in difetto o in eccesso nazionalmente e regionalmente. Per non parlare della irrisolta questione apparentemente semantica, mentre bisogna dare il tempo alla scienza clinica di dire la sua, dei deceduti “per” o “con” il virus. Il tutto, si traduce in differenziali sostanziali nella stima del tasso di mortalità (che per essere calcolato ha bisogno di sapere quanti sono i contagiati reali e i deceduti reali), del numero dei positivi totali e dei guariti…l’unico dato certo, ad oggi, sono i ricoverati in ospedale e i seguiti a domicilio e – di questi insieme – quanti ne sono deceduti. Neanche le Rsa rientrano ancora pienamente nel computo.
Più che dare i numeri, che offrono un’idea di controllo della situazione, ma che non rispondono alla realtà, sarebbe forse meglio offrire dei ragionamenti sul perché di quei numeri, fare conferenze-report più brevi e non quotidiane, non insistere su domande sempre uguali ogni giorno agli esperti (che, essendo esperti, sanno dei tempi necessari a dare risposte), aiutare le persone a capire il senso e le caratteristiche degli approcci ai “numeri”.
Perché le persone vorrebbero sentire buone notizie, ma sono capaci di comprendere perché non c’è il D-day….
Bisogna evitare che l’attesa di un annuncio che non può ancora arrivare si trasformi in irrequietezza, insofferenza, sfiducia, o altro, nei numeri e in chi li dà.
4. Il linguaggio e la comunicazione? Funzionano? A parte la comunicazione dei numeri.
Il lockdown (blocco) e il plateau (appiattimento della curva epidemica (…e non epidemiologica!) sono espressioni tecniche sintetiche utili a chi le maneggia, superflue per il governo e chi ha il compito di informare, che creano soggezione rispetto a un mondo già troppo separato fra addetti ai lavori e uditorio. Sono fastidiosi e ridondanti i linguaggi da legge di bilancio, con i rinvii ad articoli, commi, numeri di leggi e di decreti di riferimento, che moltiplicano i moduli di autorizzazione ad uscire di casa come pure le lungaggini redazionali per decreti volti a sostenere le economie domestiche; che servono solo a non incappare in qualche impugnazione legale, ma che le persone non possono oggettivamente memorizzare. Risultato: irritazione e sfiducia…e ironia.
Il picco. Affermazioni senza riflettere su chi le ascolta e su come vengono percepite dai più. Per settimane abbiamo sentito dire che prima di prendere iniziative bisogna “arrivare al picco”, a una curva che scende rapidamente. Quando si afferma che il picco è in vista e che siamo nella fase, precedente, dell’appiattimento della curva, l’interpretazione è che siamo praticamente in uscita. Pessimo modo di comunicare un dato tecnico-scientifico a prescindere dalla percezione possibile. Così, la “fase 2” viene interpretata come quella liberatoria, e cominciano in contemporanea le raccomandazioni a non considerarla tale.
Depotenziare l’attenzione alle regole fondamentali contro il contagio, riaffermandole contestualmente al “moderato ottimismo”, significa allentare il rigore per alcuni e rendere ancora più pesante il vincolo dello “stare a casa” per i più.
Le parole hanno sempre un senso percepito, che non bada alle intenzioni, una volta pronunciate.
5. A proposito di “tempi”, si parla da due settimane della necessità di preparare una strategia per il rientro “graduale” alla normalità, si lanciano ipotesi cui vengono opposte altre ipotesi, che hanno per oggetto filiere produttive; classi di età; donne – che sembrano essere meno sensibili al virus – piuttosto che uomini; positivi guariti forse immunizzati; priorità nel rientro in campo per governare il processo di normalizzazione; l’economia reale e quello che resterà delle filiere globalizzate; …Molti “titoli”, ma i consessi per ragionare ed esprimere ipotesi in tal senso non sono coordinati e si moltiplicano: Governo, Regioni. Non si tratta di preordinare scenari unidirezionali, né di zittire il dibattito nel merito, ma di tenere conto della percezione media della nostra gente in base a quello che conosce e pensa di sapere.
Questo tam-tam sulla necessità di cominciare a programmare arriva a tutti, da interviste ad economisti, soggetti della politica, accademici, dalle dichiarazioni sindacali delle imprese e dei lavoratori, e fa presa nei ragionamenti delle persone. E quando ogni economista, politico, accademico, rappresentante delle imprese, come è accaduto, lancia la sua ipotesi, le ipotesi arrivano come proposte all’attenzione di chi ascolta e – a seconda della propria situazione – ognuno le recepisce, le difende o le critica… e cominciano a sembrare meno utili le competenze scientifiche.
Si genera così una nuova cacofonia, senza che ci si preoccupi nel frattempo di costruire quadri di riferimento, non tanto rispondenti ad opzioni politiche di segno diverso per essere pluralisti, quanto per dare contorni alla dimensione nazionale e almeno europea. Vanno utilizzate – avendole verificate – le variabili nuove determinate dall’era del covid-19: quali strategie per presidiare eventi gravi, di qualsiasi natura, nazionali, europei, globali; quale analisi del tessuto produttivo e delle sue filiere (lunghe, corte,…); quali riconversioni sono utili e persino necessarie; quali forme del lavoro organizzato resteranno e prenderanno corpo; quali investimenti pubblici sono imprescindibili; quali insegnamenti trarre
dall’evento catastrofico che si è generato in merito al rispetto dei viventi e del territorio; quali considerazioni sono da fare intorno ai consumi rispetto ai bisogni reali e non indotti e all’intensità economica di interi comparti che su quei bisogni hanno costruito sistemi finanziari; quali valutazioni strategiche mettere in campo a fronte del portato disinquinante e molto meno energivoro di alcune settimane di “anormalità”. Che cosa ridefinire come davvero “strategico” nella produzione materiale e immateriale. Tutte variabili che devono essere preordinate per dare avvio ad una ripresa non casuale, a prescindere dalle attuali necessarie provvidenze di sostegno a persone e ad attività, per evitare di investire su un sistema che non potrà più essere come prima.
Che cosa si sarà rivelato strategico? Bisogna rispondere a una domanda con molti ambiti di risposta su che cosa significa, oggi, prevenzione nel presente e nel futuro: – per la salute e la sanità pubbliche; – a fronte dello shock economico; – in base alle esperienze produttive e finanziarie della globalizzazione; – per il lavoro; – per la riconsiderazione e il riassorbimento dello spaventoso conglomerato di lavoro precario, nero, mal pagato e cassintegrato; – per gli invisibili e gli ultimi, immigrati e non; – per la formazione e l’istruzione da troppo tempo depauperate degli obiettivi di coscienza critica e di consapevolezza del ruolo dei principi della scienza, della conoscenza; – per il valore della ricerca e dei ricercatori; – per la frammentazione e le difficoltà della politica quando si deve confrontare con decisioni complesse.
Quali spunti di riflessione trarre da quanto sta accadendo, a noi e a tutto il mondo?
✔ Le notizie e le informazioni seguono logiche e modalità diverse per le une e per le altre.
✔ La contraddittorietà di alcune notizie che sembrano informazioni producono disinformazione reale e danni, individuali e collettivi (come nel caso dell’Inps e il conseguente crash del suo sistema informatico).
✔ Le affermazioni che si avvalgono di una base di dati non strutturati correttamente impediscono previsioni operative corrette, rallentano analisi epidemiologiche utili alla programmazione di successivi interventi e complicano le analisi statistiche, utili anch’esse in termini previsionali.
✔ La coesione scarsa, perché non ricercata come presupposto alle decisioni rispetto alle fonti di consulenza esperta, insieme alla frammentazione dei soggetti istituzionali che hanno voce in capitolo, crea disorientamento e falsa la percezione degli interventi che si mettono in campo.
✔ La mancanza dei principi della cultura scientifica, intesa come approccio e uso della conoscenza, che in primis significa operare in base ad una sicurezza ragionevole, rende inefficiente e spesso anche poco efficace un sistema. Soprattutto, lo disarma di fronte a decisioni emergenti e determinanti.
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