“Fase due” e libertà di culto: irricevibili le richieste della CEI

Alessandro Esposito

(pastore valdese)

Con un tono tra il piccato e il risentito, la Conferenza Episcopale Italiana (CEI) ha reso nota la sua ferma contrarietà al decreto relativo all’avvio della cosiddetta “fase due” per ciò che in esso si determina in ordine alle messe, le quali, con sommo disappunto episcopale, non potranno ancora essere celebrate.

Ora, va da sé che un dissenso può sempre essere espresso: ma ciò che lo rende plausibile sono le motivazioni con cui lo si suffraga; e, in tutta onestà, quelle addotte dalla CEI mi paiono del tutto irricevibili. Anzitutto, i vescovi fanno cenno al fatto che “la Chiesa ha accettato, con sofferenza e senso di responsabilità, le limitazioni governative assunte per far fronte all’emergenza sanitaria”: dal tono, pare che si debba esser grati di cotanta, generosa accondiscendenza. Vorrei ricordare ai vescovi che tali limitazioni le abbiamo accolte tutti, come cittadini, comprendendone le fondate e responsabili motivazioni, volte alla tutela della salute pubblica: quella della chiesa cattolica, pertanto, non è stata una gentile concessione, ma un dovuto rispetto della legge, a cui anch’essa, in uno Stato laico, è tenuta, benché, in maniera del tutto evidente, sembri accettarla obtorto collo.

La nota della CEI prosegue asserendo che “nel momento in cui vengano ridotte le limitazioni per far fronte alla pandemia, la chiesa esige (sic!) di poter riprendere la sua azione pastorale”. Se pure si volesse soprassedere, una volta ancora, sul tono prepotente e inadeguato attraverso cui si intima al governo di accogliere una richiesta, resta irrisolto il nodo fondamentale: per poter riprendere qualsivoglia attività pubblica, il parere di cui tener conto è quello del comitato tecnico-scientifico, al quale va accordata piena fiducia e a cui, se si intende interloquire, vanno sottoposti pareri scientifici e non rivolte tracotanti ingiunzioni. So che Oltretevere non è prassi discutere, men che meno in presenza di argomentazioni plausibili: ma così funziona in democrazia, dove, peraltro, vige il rispetto delle istanze civili, che in alcun modo possono accettare ingerenze, prevaricazioni o pressioni indebite da parte di un’istituzione religiosa.


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Ecco perché reputo del tutto fuori luogo il distinguo operato tra la responsabilità congiunta della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Comitato tecnico-scientifico di “dare indicazioni precise di carattere sanitario” e quella della chiesa, “chiamata a organizzare la vita della comunità cristiana”: quest’ultima, difatti, è parte integrante di una comunità più estesa, quella civile, di fonte alla quale ogni soggetto istituzionale, ivi inclusa la chiesa cattolica, è responsabile. E a tale responsabilità non è possibile derogare in nome di qualsivoglia autonomia o garantismo.

Ecco perché non trovo affatto che il nuovo decreto sia, come afferma in conclusione la nota della CEI, lesivo della libertà di culto, per il semplice fatto che esso si limita a prolungare la sospensione di momenti di aggregazione per un tempo stimato congruo alla luce di valutazioni scientifico-sanitarie, circa le quali, torno a dire, le chiese tutte non dispongono di competenze adeguate per istruire un dibattito che, peraltro, ha già avuto luogo nelle sedi deputate e ha determinato l’orientamento legislativo assunto.

Infine, la nota della CEI contiene un ultimo e del tutto inopportuno riferimento teologico, quando accenna a “una fede che deve nutrirsi alle sue sorgenti, in particolare quella sacramentale”: argomento di cui è possibile accennare in un sinodo, forse, ma non certo nel dibattito pubblico e, men che meno, nell’interlocuzione con le istituzioni di uno Stato laico. Spiacente, pertanto, e la CEI non me ne voglia: ma argomentazioni come quelle testé vagliate appaiono, come detto, del tutto irricevibili.

(27 aprile 2020)




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