Coronavirus: il limbo dei malati di cancro

Alessandra Capone

Alessandra Capone ci racconta cosa significa lottare contro il cancro ai tempi del coronavirus: “Difficoltà di spostamento, visite ed esami di controllo rimandati… Il cancro però non aspetta. E per noi malati oncologici, che già viviamo una situazione di incertezza e di paura, si tratta dell’ennesima sfida da affrontare”.
Mi chiamo Alessandra, ho 48 anni e da dieci lotto contro il cancro.
Nel 2010 i medici mi hanno diagnosticato un cancro al seno a cui sono seguite la mastectomia e le cure da protocollo (radio intraoperatoria, chemioterapia, ormonoterapia e via dicendo). Per cinque anni la malattia non si è riaffacciata, ma proprio quando stavo per tirare un sospiro di sollievo, nel 2015, ecco la scoperta di diverse metastasi a fegato e linfonodi. Intraprendo quindi altri cicli di chemioterapia, ma contemporaneamente inizio a modificare il mio approccio alla malattia: anche grazie all’incontro con un medico speciale e una nutrizionista intraprendo un percorso di terapie integrate in abbinamento alle terapie tradizionali. Nel 2016 faccio la prima termoablazione al fegato, che poi ripeterò nel 2017. A gennaio del 2018 a un controllo compare, inaspettata, una lesione all’osso del cranio, che riesco a neutralizzare in pochi mesi con una radioterapia stereotassica.
Tutto finito dunque?
Sarebbe bello. Ma non è così. L’anno scorso scopro che le metastasi al fegato sono aumentate moltissimo e alcune si trovano in posizioni davvero critiche, per cui sono da trattarsi il prima possibile per evitare che, una volta entrate nelle vie biliari, rendano molto difficile la mia sopravvivenza.
Inizio quindi un trattamento di chemioperfusione e chemioembolizzazione al fegato per cancro al seno metastatico, presso la Klinikum der Johann Wolfgang Goethe-Universität di Francoforte.
Ho scelto Francoforte perché qui trattano casi difficili avanzati e rischiosi come il mio, in Italia no: dall’aprile del 2019, quando ho iniziato, sono passata dall’avere il 5 per cento di fegato sano al 50 per cento. Purtroppo ogni trattamento costa 3.900 euro (a cui sono da aggiungere le spese di viaggio e alloggio per me e un accompagnatore): per questo motivo, per poter sostenere la spesa ho lanciato una campagna di raccolta fondi, che in quest’anno mi ha visto andare in giro per Roma, dove vivo, a condividere la mia storia e il mio percorso. Perché io prima di tutto, prima di essere una paziente oncologica, sono sempre stata una militante e credo fortemente che il personale è politico e quindi la mia storia è, sì, mia ma riguarda tutti: tanti altri pazienti oncologici, ma soprattutto la società nel suo complesso.
A fine febbraio, mentre il mondo cominciava a fare i conti con il coronavirus, ho scoperto di avere delle lesioni cerebrali plurime, oltre 20. Un intervento chirurgico non è possibile e nemmeno una radioterapia stereotassica essendo le lesioni sparse su tutta la testa. Mi è stata proposta una Whole Brain Radiotherapy (radioterapia panencefalica) allo scopo di ridurre le dimensioni delle metastasi e tentare di evitare effetti collaterali particolarmente gravosi per la qualità della vita (trattandosi dell’encefalo, oltre al rischio per la mia vita, c’è il rischio di danni motori, di difficoltà di linguaggio… per non parlare dei dolori inimmaginabili ai quali potrei andare incontro, visto che le lesioni hanno colpito anche le meningi).
Ovviamente in questa situazione non so quando potrò proseguire le cure a Francoforte. Il trattamento era fissato per il 1° aprile, ma tra la pandemia e la radioterapia che nel frattempo ho dovuto iniziare non sono potuta partire. E non ho alcuna certezza rispetto a quando potrò farlo. Ho provato a contattare il ministero degli Esteri per avere delucidazioni, ma senza esito. Ho quindi contattato il Consolato italiano a Francoforte che mi ha spiegato di cosa ho bisogno e a cosa vado incontro. Mi occorrono prima di tutto un documento dello specialista che attesti la necessità che io mi sottoponga a questo trattamento e un documento dell’ospedale alla fine del trattamento da presentare alla compagnia aerea. Al ritorno poi dovrò stare in quarantena per due o tre settimane e per effettuare le visite mediche di cui avrò bisogno (dovrò sicuramente fare le analisi del sangue e una risonanza cerebrale di controllo) avrò bisogno di un permesso da parte dell’Asl per interrompere la quarantena.
Ma le difficoltà sono anche di natura logistica. Innanzitutto non è facile trovare un volo, perché le compagnie aeree stanno adottando misure molto restrittive e su ciascun volo, per garantire il distanziamento tra i passeggeri, ci sono pochi posti. In secondo luogo in questo momento a Francoforte non è neanche semplice trovare un alloggio, perché gli alberghi sono restii ad accettare persone che vengono dall’Italia: io però ho necessità assoluta di riposare dopo il trattamento, specialmente in questo momento in cui sto facendo anche la radioterapia.
A tutto ciò bisogna aggiungere la preoccupazione non peregrina che viaggiare aumenta la possibilità che io possa essere contagiata dal coronavirus: una eventualità pericolosissima per me che sono immunodepressa.
In questo momento sconto insomma la combinazione di due fattori: l’aggravamento della mia situazione (con le lesioni all’encefalo) e la pandemia che, oltre a complicare i miei spostamenti verso Francoforte, ha aggiunto uno stato di ansia a una situazione già complicata di incertezza, paura e stress psicologico.
Perché il cancro non aspetta. E ciononostante in questo periodo ci sono pazienti che si vedono rimandate visite, cui sono stati cancellati esami di controllo, terapie, interventi. Per non parlare di tutti coloro che scontano il cosiddetto «regionalismo sanitario», vale a dire il fatto che, sì, i protocolli sanitari sono uguali, ma le strutture nel paese non sono uguali. E ci sono tanti pazienti oncologici che dal sud si vanno a curare al nord, a Torino a Milano… E che in questo momento non possono viaggiare, perché gli aerei sono pochi (e costituiscono un rischio) e viaggiare in macchina per tutti quei chilometri è davvero faticoso.
Da quando sulla mia pagina Facebook e sulla pagina Facebook della mia campagna ho lanciato un appello affinché i mezzi di informazione parlino di questa realtà ho ricevuto tante lettere di malati oncologici che vivono questa situazione. E che in più sono terrorizzati dalla paura di essere contagiati. Una donna mi ha raccontato di aver deciso di sospendere le terapie in queste settimane per il timore di recarsi in ospedale. Ma io mi domando: perché non si è pensato a sottoporre a tampone il personale medico sanitario che lavora con persone immunodepresse come i pazienti oncologici? Sarebbe stato un gesto di rispetto e sensibilità oltre che un atto dovuto.
Quelle che mi sono giunte sono storie drammatiche, fatte di carne e sangue. E sono solo la punta di un iceberg. Perché ci sono migliaia di pazienti oncologici che non hanno neanche accesso a questi strumenti e la cui voce rimane completamente inascoltata.
Dal mio punto di osservazione posso solo augurarmi che la situazione di emergenza che viviamo (frutto di un depauperamento, di una cattiva gestione delle risorse sanitarie nonché della loro privatizzazione) ci faccia svegliare e pretendere diritti sacrosanti. Come il diritto alla cura. Perché qui parliamo di cancro. La patologia che, prima dell’arrivo del coronavirus, più terrorizzava le persone.
(testimonianza raccolta da Ingrid Colanicchia)
(14 aprile 2020)


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