Coronavirus: metafore di guerra e confusione di concetti
Fabrizio Battistelli
*
Quando la situazione è critica e il danno è grave, la risposta sociale è quella di difendersi. In principio tutti sono d’accordo che la prima cosa da fare è essere consapevoli del possibile danno e di conseguenza efficaci nel proteggersi. Così come lo sono sulla constatazione che, per approntare mezzi adeguati, è necessario sapere e capire di quale natura è il danno che incombe.
È qui, in questa decisiva fase, che iniziano i problemi degli esseri umani, specie vivente dotata sì di razionalità ma, come notava Herbert Simon (1958), di capacità limitata a differenza degli dei dell’Olimpo. Di fronte a fenomeni che non si conoscono, o si conoscono soltanto in parte, questa razionalità limitata si sforza di colmare il divario tra ciò che si sa e ciò che si ignora attivando strumenti tecnicamente definiti “euristici”, cioè di avanscoperta. A livello di sapere quotidiano (ma talvolta anche di sapere esperto) il più comune di essi è la metafora. Se devo relazionarmi a uno sconosciuto, per capire che tipo è chiedo un parere a un amico che, a differenza di me, ne ha una qualche esperienza. La risposta dell’amico “quell’uomo è un lupo” (oppure “un agnello”, “un’aquila”, “un serpente” e via esemplificando) è un elemento di giudizio. Fornisce un’approssimazione, imperfetta ma immediatamente disponibile, circa la natura di quell’uomo che non conosco.
Qual è, nella lunga quarantena vissuta con sacrificio e preoccupazione dalla popolazione di un intero Paese (nel caso italiano 60milioni e 317mila individui) la metafora più ovvia? La metafora più utilizzata dai leader d’opinione nella politica, nell’economia e in parte anche nella scienza, è quella della guerra. Pochi altri fenomeni come la guerra, infatti, includono significati (distruzione, sofferenza, privazione e, soprattutto, minaccia all’incolumità fisica delle persone fino alla perdita della vita) evocati da un fenomeno grave come la pandemia generata dal Corona virus. Dal punto di vista sociologico la metafora bellica emergeva già in riferimento a un’emergenza sanitaria che presenta impressionanti analogie con quella attuale: l’epidemia di Sars del 2003 (Galantino 2000). Era solo questione di tempo, poi i detentori del discorso pubblico hanno riscoperto la più facile delle metafore. Ciò è puntualmente accaduto a metà del marzo 2020.
Guerre metaforiche e capitani immaginari
Oggi come diciassette anni fa, i primi e più vocali divulgatori del concetto di guerra (e termini collegati: battaglia, nemico, fronte, trincea, bollettino ecc.) sono stati i politici. In particolare quelli dell’opposizione, grazie al fatto che ovunque, sia pure in forme e gradi di intensità variabili, la loro funzione è di criticare il governo. L’obiettivo è di dimostrare che, se anche premier e ministri non hanno responsabilità dirette nella genesi del fenomeno, ne hanno sicuramente riguardo alle conseguenze negative provocate dalla loro gestione della crisi, inadeguata o addirittura controproducente. In un quadro di progressivo deterioramento della dialettica politica e delle sue manifestazioni logiche e linguistiche, la novità è che la virulenza (è il caso di dire) della polemica nell’ultimo quinquennio è aumentata esponenzialmente. Certo, nella prima fase dell’emergenza sanitaria non sono mancati appelli a smorzare i toni e a perseguire l’unità di intenti ad opera di personalità e istituzioni “al di sopra delle parti”, a cominciare dal presidente della Repubblica Mattarella. Gli stessi esponenti dell’opposizione hanno più volte dichiarato l’esigenza, in una situazione di emergenza nazionale, di contenere le polemiche. Buoni propositi, tuttavia, presto dimenticati nel fervore della contesa politica. È così che l’immagine, innegabilmente drammatizzante, della guerra si è fatta largo nell’emergenza italiana, anche in questo caso battendo sul tempo Macron, Netanyahu e molti altri politici internazionali.
Non sorprendentemente il ruolo di apripista è stato giocato da Matteo Salvini. Gli sviluppi degli ultimi tempi, a partire dalla caduta del primo governo Conte da lui provocata nell’agosto 2019 hanno indotto il leader della Lega a ritoccare i toni esagitati della lunga campagna elettorale, protrattasi dalle elezioni politiche del 2018 a quelle europee dell’anno seguente e oltre. Il rimanente lo ha fatto il contesto, che ha suggerito al segretario della Lega di abbandonare il sempre meno attraente tema dell’immigrazione a favore dell’emergenza virus. Commentando i decessi verificatisi in Lombardia, Salvini li definisce “non un bollettino di pace ma un bollettino di guerra. E in guerra si adottano le misure di guerra” (www.corriere.it 12.03.2020). La stessa metafora viene ripresa da presidenti e assessori delle regioni settentrionali. Annunciando la sospensione negli ospedali di tutti gli interventi non urgenti, il governatore del Veneto Zaia conferma: “Siamo in guerra” (ilfattoquotidiano.it 13.03.2020); il presidente della Liguria Toti precisa: “Siamo un paese in guerra contro il virus” (www.ivg.it 12.03.2020); l’assessore al welfare della Lombardia Gallera spiega: “La Lombardia sta resistendo con i denti, anche oggi la battaglia l’abbiamo vinta” (www.ilgiorno 13.03.2020). La guerra compare anche nei discorsi degli imprenditori. Innanzitutto di quelli che sono in prima linea come Giuseppe Preziosa, presidente della Siare, l’azienda nel Bolognese che sta producendo macchine respiratorie e ventilatori polmonari in quantità e con ritmi descritti da “assetto di guerra” (www.ansa.it 12.03.2020). Dal canto suo il presidente della Confindustria bresciana, Giuseppe Pasini, afferma: “È la Terza guerra mondiale” e invoca “un piano Marshall europeo” (www.ilgiornale.it 13.03.2020).
La guerra infine costituisce un traslato utilizzato dagli stessi esperti. Tra gli altri il prof. Walter Ricciardi, consulente del ministero della Salute e membro dell’Organizzazione mondiale della sanità, il quale avvisa che “Il Corona virus è una guerra che durerà ancora diversi mesi” (www.ilgiornale.it 13.03.2020). Né tutti gli interventi sono ponderati come questo, in particolare in occasione dei talk show, arene dove prendono corpo i paragoni storici più azzardati. Ospite di Formigli a Piazza Pulita, il coordinatore delle terapie intensive lombarde prof. Antonio Pesenti dichiara che l’attuale epidemia “assomiglia alla Spagnola alla fine della Prima guerra mondiale” e passa alla dimostrazione: “supponiamo che 1/3 degli italiani venga contagiato dal Corona […] se il 3% di venti milioni muore significa 600mila morti, sono i morti della Prima guerra mondiale” (www.liberoquotidiano.it 12.03.2020).
Le incongruenze del ragionamento appena citato sono evidenti. A partire dall’ipotesi iniziale (sperabilmente esagerata e comunque indimostrata) di 20 milioni di contagiati nel nostro paese, per finire con i 600mila morti che nel 1915-18
furono provocati non dall’epidemia ma dalle operazioni militari (in senso stretto, ahimè, non metaforico). Ce n’è di che riflettere sull’importanza della precisione nel ragionare e nell’esprimere pubblicamente il proprio pensiero. Questa dote può e deve essere ricercata anche in un ambito come quello delle metafore, solo apparentemente laterale ed esposto, secondo Alvesson (1997), a quattro possibili equivoci: l’incongruenza, la seduttività, la proliferazione, il riduzionismo. La cautela, poi, dovrebbe essere maggiore quando la pietra di paragone è particolarmente coinvolgente come è il caso della guerra. E infine dovrebbe essere massima quando la parola si inserisce in un contesto che non è la conversazione “laica” (che può anche indulgere all’emotività) bensì è la dichiarazione “esperta” (che aspira a fondarsi sulla competenza). Quando mettono in relazione le epidemie con la guerra, sarebbe bene che gli studiosi praticassero un’’accezione letterale del discorso. Questo è ciò che una storiografia seria ha fatto ogni volta che ha ricostruito eventi bellici per i quali il nesso tra epidemia e conflitto è stato effettivamente verificato, dalla peste provocata dalla guerra dei Trent’anni all’ecatombe della Spagnola favorita dalla smobilitazione dei soldati della Prima guerra mondiale. Non stiamo dicendo che, visti gli effetti letali dell’una e dell’altra è sbagliato paragonare il contrasto dell’epidemia a una guerra. Stiamo dicendo che è sbagliato mettere sullo stesso piano due fenomeni – l’epidemia e la guerra – la cui essenza è diversa. Ciò emerge nelle due distinte azioni del contrasto e della prevenzione. Mentre nel contrasto epidemia e guerra hanno vari punti di contatto (giustamente l’ideatore del ventilatore multiplo ha parlato di “medicina di guerra”) l’azione di prevenzione è diversa e per molti versi opposta, come vedremo.
Metafore e concetti significano qualcosa, non sprechiamoli
Oltre alla cautela relativa all’uso dei termini metaforici (che evocano immagini), una cautela almeno pari andrebbe adottata nell’uso dei termini definitori (che evocano concetti). Il colossale stress (biologico, psicologico, sociale, economico e altro ancora) che un’epidemia della portata di quella attuale sta comportando per l’umanità merita un chiarimento concettuale. Non per un astratto “spirito di geometria”, bensì per le conseguenze pratiche che implica inquadrare il fenomeno in questa o quell’altra definizione, è utile superare la confusione che cancella le differenze tra eventi apportatori (anche) di danni, quali sono i “pericoli”, i “rischi”, le “minacce”.
Nella reazione di sgomento e mobilitazione che l’incombere di un (gravissimo) danno induce nel soggetto individuale e collettivo, è decisivo stabilire la natura del fenomeno in oggetto, allo scopo di determinare quanto esso sia dannoso e perché. La risposta a queste due domande va cercata nell’analisi delle variabili che lo connotano. Nella natura e nella società un fenomeno apportatore di danno si caratterizza per due variabili: 1) l’agente che lo causa, 2) l’intenzione (qualora presente), positiva o negativa che lo ispira. Dall’analisi delle due variabili scaturisce l’intrinseca diversità di tre categorie di fenomeni: a) i pericoli, calamità che hanno per agente la natura e dunque sono privi di intenzionalità (per esempio un terremoto o l’eruzione di un vulcano); b) i rischi, eventi o processi il cui agente è umano e in cui l’intenzionalità è presente e di segno positivo; è da sottolineare che l’esito di essi può essere sia positivo, sia negativo (per esempio l’avaria di una centrale nucleare); 3) le minacce, il cui agente è umano e la cui intenzionalità è negativa, così come sono negativi, se non adeguatamente prevenuti, i suoi esiti (per esempio un attacco terroristico o un bombardamento).
Alla luce di tale tripartizione un evento come un’epidemia è dannoso (come ovvio) ma, avendo come agente la natura, è inintenzionale; esso configura appunto un pericolo. Altresì dannoso è un evento come la guerra; differentemente dal caso precedente, tuttavia, ha come agente l’uomo e dunque è intenzionale; esso configura una minaccia. Mentre nel caso della minaccia-guerra la causa del danno provocato è indiscutibilmente umana (astraendo da quale degli attori in gioco ne porti la responsabilità maggiore), nel caso del pericolo-epidemia la causa prima appartiene alla (peraltro inconsapevole) natura. Che il ruolo di quest’ultima nello sprigionamento del Corona virus sia primario, a sua volta non significa che in esso non abbia alcun ruolo il genere umano, tutt’altro. In ogni variante del fenomeno naturale classificato come pericolo vi è una corresponsabilità umana, sia ex ante in riferimento alla sua più o meno attuabile prevenzione, sia ex post nella gestione del soccorso, della limitazione dei danni, del ripristino dello statu quo (ricostruzione). Ciò è vero non unicamente per eventi il cui accadimento è oggi prevedibile con una soddisfacente approssimazione, quali ad esempio gli uragani, ma perfino nel caso degli eventi naturali più estremi e repentini quali sono, allo stato delle attuali conoscenze scientifiche, i terremoti (la maggiore prevenzione dei quali è l’edilizia anti-sismica).
L’interrogativo a questo punto è perché mai, in una fase storica nella quale la sicurezza (e l’ombra che non abbandona mai, l’insicurezza) è onnipresente nei discorsi dei decisori, la più fitta cortina fumogena ristagna sulla distinzione tra i fenomeni che sono in grado di inficiare la prima e, simmetricamente, di fomentare la seconda. E perché nulla è stato fatto per prevenire un evento tragicamente dannoso ma non imprevedibile come il ritorno del Corona virus. Pochi infatti si soffermano sul dato che il Corona virus (Covid-2) di oggi è sostanzialmente lo stesso virus della Sars (Covid-1), né alcuno commenta il fatto che esso, originato nella stessa regione geografica e con tutta probabilità per i medesimi motivi, contagiò diciassette paesi del mondo e fece poco meno di ottocento vittime (tra cui il medico italiano Carlo Urbani che coraggiosamente lo descrisse per primo pagando con la vita). Tutto questo non in epoche remote e incerte, ma tra il novembre del 2002 e il luglio 2003, cioè diciassette anni fa.
Dall’irrazionale prevenzione delle minacce alla razionale prevenzione dei pericoli
La risposta che possono offrire le scienze sociali è la più lontana immaginabile dalle teorie del complotto, regolarmente frutto di semplificazioni disinformate e visioni manichee, quando non (esse sì) di deliberate provocazioni. Le nostre ipotesi, invece, comportano verifiche ottenute analizzando le tendenze della struttura sociale, economica e culturale del mondo contemporaneo, così come della logica organizzativa che ispira le scelte dei decisori politici. In cambio di benefici di cui fruiscono in misura più o meno ampia gli stessi cittadini, il mercato da un lato e le leadership di governo dall’altro perseguono strategie di massimizzazione del profitto e del potere, finalizzate al conseguimento di vantaggi particolaristici ed esclusivi. In questo quadro il destinatario delle politiche pubbliche è, nel più virtuoso dei casi, il cons
umatore/elettore del proprio paese e, subordinatamente, di paesi alleati (per quanto possa significare oggi questo termine).
In tale contesto, le politiche che vengono privilegiate sono le politiche esclusive, quelle cioè che – come nell’emblematico caso della sicurezza strategico-militare – avvantaggiano il governo del paese-guida e quelli dei paesi che agiscono come suoi alleati. Escludendo i neutrali e tenendo a bada i nemici, le politiche strategico-militari concretizzano la dicotomia amico/nemico, teorizzata dal pensiero conservatore ma di fatto condivisa da tutti, come la quintessenza del “politico” (Schmitt 1972). Questo spiega il primato delle risorse politiche, scientifico-tecnologiche e finanziare allocate per prevenire e contrastare gli eventuali danni provenienti dalle minacce (o da quelle che vengono presentate come tali) sulla scena internazionale (1.822 miliardi di dollari assorbiti dalla spesa militare nel 2018) (Sipri 2019).
Completamente diverso il caso delle politiche destinate alla gestione delle altre due possibili fonti di danni, cioè i rischi e i pericoli. A fronte al “falò delle risorse” dedicate alla spesa, alla ricerca e alla produzione bellica, rimane poco per la prevenzione nei confronti degli aspetti disfunzionali dei fenomeni rischiosi e ancora meno per la valorizzazione e messa in sicurezza degli aspetti funzionali (che pure coesistono nei rischi). Altrettanto sacrificate sono le politiche destinate alla prevenzione del pericolo, come mostra l’irresponsabilità dei governi nella mancata predisposizione di sistemi di early warning che in occasione dello tsunami del 2004 nell’Oceano Indiano avrebbero potuto risparmiare la vita di oltre 220mila persone, oppure nel dissesto del delta del Mississippi che contribuì ad aggravare i danni (più di 1800 morti e 108 miliardi di dollari) inflitti alla Louisiana dall’uragano Katrina nel 2005.
Tutelando beni comuni indivisibili e inescludibili – fisici come la terra, l’acqua, l’aria, e sociali quali la salute – i finanziamenti destinati a prevenire i pericoli “naturali” presuppongono una prospettiva universalistica che mal si presta all’uso politico preferito dai decisori delle policies statali. Nel caso delle epidemie, di cui il Corona virus non è che l’ultimo esempio, ci si trova di fronte a un pericolo, cioè alla prospettazione di un danno di proporzioni mondiali con remota origine naturale e prossime concause umane. La sua prevenzione non può più essere particolare in un mondo dove la globalizzazione determina un corto circuito in cui lo spazio si accorcia, le frontiere vacillano, gli esseri umani circolano senza sosta, i contatti si moltiplicano esponenzialmente. Nel frattempo da una biosfera sotto assedio ci giungono appelli che hanno il suono dell’ultimatum. I governi, soprattutto quelli delle grandi potenze, sono al bivio. Persistere nella paranoica preparazione al “caso peggiore” strategico-militare come appare agli occhi dell’uno o dell’altro, oppure dirottare attenzione politica e risorse economiche verso la prevenzione del worst case dei pericoli e dei rischi nella natura e nella società. Con il risultato sgradito forse ad alcuni ma non alla maggioranza degli esseri umani, i quali tutti beneficierebbero della prevenzione dei pericoli “naturali”.
[*] Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche dell’Università di Roma la Sapienza.
BIBLIOGRAFIA
Alvesson, M. (1997), “Culture come metafore e metafore come culture” in Id., Prospettive culturali per l’organizzazione, tr. it. Guerini, Milano.
Galantino, M.G. (2010), “Salute, rischio e comunicazione: il caso della polmonite atipica (Sars)”, in La società della sicurezza, Angeli, Milano, pp. 81-126.
Schmitt, C. (1972), “Il concetto di ‘politico’“ in Id., La categorie del ‘politico?, a cura di G. Miglio e P. Schera, il Mulino, Bologna (ed. or. 1927).
Simon, H. (1958), Il comportamento amministrativo, tr. it. il Mulino, Bologna.
MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.