Corpi celesti: l’altro reale del cinema italiano
Giona A. Nazzaro
Il cinema documentario nel nostro paese esiste. È vivace, interessante, curioso, capace di sperimentare formule narrative e linguaggi del tutto innovativi. Viene visto e premiato all’estero. Se ne scrive sui Cahiers du cinéma. Ma in Italia è quasi del tutto sconosciuto. Ecco una rassegna di tutto ciò che ci stiamo perdendo sotto la coltre conformista della produzione dominante.
, da MicroMega 6/2011
Parlo così, con dolore, perché non ho modo di dimostrare quanto in tutto questo credessi. Che la vita di un paese non è fattibile senza un impegno morale – oh, assai prima che politico; politico, allora, non è quasi più necessario – che tenda a mutare e innalzare anche minimamente, ma dovunque, la qualità dell’uomo 1 – Anna Maria Ortese
La questione del reale è fondativa del cinema e di quello italiano in particolare dove, a partire dall’avvento del neorealismo, si è offerta come interlocutrice per eccellenza di un progetto di rifondazione del linguaggio e della messinscena filmica. E paradossalmente è proprio in seno al neorealismo italiano che si consuma la frattura fra cinema e reale che condurrà poi all’incomprensione dell’esperienza di Roberto Rossellini successiva alla celebrata trilogia della guerra e, sotto altre latitudini invece, alla nascita della nouvelle vague che s’origina proprio a partire dalla fecondità del lavoro rosselliniano.
Nel suo saggio Film: altro reale, Edoardo Bruno, ragionando sull’incapacità del rispecchiamento, «non importa se fotografico, a cogliere l’aura indistinta, il movimento interno, la tensione a un continuo modificarsi (delle cose)», dichiara che il rispecchiamento, ossia la registrazione del reale, sia pittorico che fotografico, non rende giustizia delle complessità del processo creativo perché incapace di registrarne la complessità dell’atto creativo stesso. Poco più avanti Bruno, citando un passo di Hegel tratto da La scienza della logica – «il regno delle leggi è il quieto riflesso del mondo esistente o fenomenico» – riporta anche un’osservazione di Lenin in merito alla citazione del filosofo: «È una eccellente definizione materialistica, assai pertinente con la parola quieto. La legge coglie ciò che è quieto – e per questo la legge, ogni legge, è ristretta, incompleta, approssimativa» 2.
Questo per dire che l’impatto del reale nel cinema italiano viene sostanzialmente frainteso a causa di un, per semplificare, pregiudizio di matrice idealistica: ossia l’immagine corrisponde sempre a una realtà. André Bazin, pensatore chiave del cinema del dopoguerra, affermava che il cinema filma la verità. Ed è proprio nel cinema di Rossellini che il pensiero baziniano trova il suo interlocutore più fertile. Jean-Luc Godard, per molto tempo mossosi nel solco del pensiero baziniano e della lezione rosselliniana («lo splendore del vero», che egli ha reinventato in forme radicali e innovative dando nuova linfa a quello che Adriano Aprà ha definito «umanesimo rinascimentale»), dopo avere affermato che «la fotografia è la verità, il cinema è la verità ventiquattro volte al secondo» giunge a una conclusione opposta che distrugge un’idea consolidata della rappresentazione: «No, il cinema non è la verità, non è un’immagine giusta, è giusto un’immagine». In questo modo il cinema diventa uno strumento d’indagine, di pensiero, più che di riproduzione fotografica. Il dispositivo di riproduzione, il suo stesso funzionamento, diventa la chiave per comprendere come affrontare la questione del reale. Il cinema è un lavoro. Una banda nera separa un fotogramma dall’altro. Mettere insieme le immagini che di per sé non si muovono è il lavoro del cinema. Il cinema, dunque, è cercare delle relazioni possibili tra le cose e le immagini e «più i rapporti fra due realtà accostate saranno lontani e giusti, più l’immagine sarà forte» (ancora Godard da JLG/JLG. Autoritratto a dicembre).
Dunque è da questa immagine, non necessariamente «giusta», che bisogna (ri)partire per tentare di comprendere lo scarto esistente fra la cosa vista e il dispositivo di riproduzione che permette alla cosa stessa di essere vista.
Non a caso Luciano Barisone, direttore del Festival Visions du réel di Nyon, sostiene che esiste una profonda divisione in seno al cinema italiano: «Fino a dove», si chiede Barisone, «il nostro cinema rappresenta il paese reale all’interno dei suoi film? Se la fiction, popolare o d’autore, si concentra sull’immaginario nazionale e sull’incidenza che esso ha sul costume corrente, il documentario – sia esso quello di reportage, più vicino allo stile e alle esigenze televisive, o quello creativo del cinema del reale, più legato al concetto di messa in scena – entra maggiormente nella materia delle cose, rivelando dietro ai fatti e alle situazioni l’anima profonda dell’Italia.
Se prendiamo come esempi alcuni film documentari visti recentemente (Il castello [2011] di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, Cadenza d’inganno [2011] di Leonardo Di Costanzo, Palazzo delle aquile [2011] di Stefano Savona) e li confrontiamo con i film italiani di fiction coevi, vediamo come questi ultimi siano distaccati dalla realtà e ne parlino come dall’interno di una bolla, isolata acusticamente e visualmente dal resto del paese. Quasi fossero dei film autistici essi trasmettono inconsciamente le ossessioni dell’Italia, filtrate dalla sensibilità degli autori, piuttosto che l’Italia stessa, molto spesso confinata e muta sullo sfondo. Pensiamo invece a quanto ci comunicano i documentari sopra citati: partendo da microcosmi come l’aeroporto di Malpensa, un quartiere di Napoli o gli angusti spazi del consiglio comunale palermitano, essi rivelano i macrocosmi che li circondano, come carotaggi effettuati nella crosta della società italiana.
Ovviamente non è solo questione di soggetto scelto, ma piuttosto di come ci si pone di fronte ad esso, come si decide di rappresentarlo. Anche qui il confronto con la fiction è impietoso. Da una parte delle immagini che, partendo dalla loro stessa composizione, riflettono una natura televisiva, costituita da mezzi busti, arredamento Ikea e dialoghi sitcom; dall’altra un’economia di rappresentazione che corrisponde alla povertà del mezzo e alla voglia di raccontare al meglio. E dunque un’attenzione alla composizione dell’inquadratura, una messa in situazione con personaggi reali, una profondità di parola, che coglie il silenzio e l’esitazione dei più deboli, la logorrea e la sicurezza dei più forti. La crisi di mezzi attuale non fa che approfondire questa dicotomia e fa del cinema italiano contemporaneo un fenomeno di cui si intuiscono le potenzialità senza coglierne le reali dimensioni».
Le riflessioni di Barisone toccano un nodo cruciale del fare cinema in Italia. La tradizione industriale del nostro cinema, infatti, nonostante l’impatto del neorealismo e, soprattutto, la profonda influenza esercitata da questo sulle nouvelle vague mondiali, è ancora profondamente ancorata un cinema del racconto ben scritto, capace sì di dialogare in forme molto precise e forti con la cronaca e l’attualità, ma prop
rio per questa sua abilità anche incapace di situarsi al di fuori di determinati meccanismi linguistici e produttivi. E se «una certa idea di cinema italiano» ha avuto in Mario Monicelli e Dino Risi i suoi interpreti più originali e alti (in grado di elevarla a creazione filmica pura), è pur vero che, invece, il cinema immediatamente politico (quella produzione che in Francesco Rosi ha avuto la sua punta più luminosa ma che nutriva fortissimi sospetti nei confronti della commedia e delle aperture rosselliniane) ha dato vita a una sorta di paradittatura, imponendo di fatto precise modalità d’intervento e di lettura nei confronti del reale.
Insomma: la grande maggioranza del cinema italiano è ancora fermamente anti-rosselliniana. Ed è dunque proprio la forza immobile residuale di un modello industriale consunto, privato ormai dei suoi interpreti più noti e degli sceneggiatori più abili la causa di una stasi sostanziale del cinema italiano, che a partire dagli anni Ottanta ha dominato la produzione nostrana (sia nel campo della commedia che del cinema cosiddetto politico). Il tentativo di riagganciarsi a un modello produttivo tramontato e che periodicamente sembra risorgere grazie a fiammate isolate come Il Divo di Paolo Sorrentino e Gomorra di Matteo Garrone è soprattutto la ricerca ostinata di un’idea di cinema che, al di là dei risultati, si sogna ancora, soprattutto, anche legittimamente, come macchina industriale (se non fosse che il panorama produttivo è ormai radicalmente mutato). E che concepisce il documentario soprattutto come assenza di messinscena (il modello del servizio giornalistico di «denuncia») o piegato a un racconto comico-sarcastico (la lezione ormai usurata di Michael Moore).
Non a caso si levano con rituale puntualità si levano voci inneggianti alla rinascita del cinema italiano lodanti la sua capacità di intervenire sul e nel reale (quale? come?), estendendo in questo modo un pregiudizio, duro a morire, che una certa idea di «reale» coincida necessariamente con l’urgenza delle problematiche politiche del giorno. Eppure un altro cinema italiano è possibile. E si tratta di un cinema che opera ormai da molti anni in apnea rispetto alle coordinate di navigazione dei dibattiti culturali che occupano la maggior parte dell’attenzione degli addetti ai lavori. Non un cinema «migliore», più «giusto» (non è questione di giudizi di valore). Ma un cinema diverso, questo sì. Altro. Un cinema che nel corso degli anni si è fatto carico da solo, in condizioni di clandestinità quasi assoluta, di raccontare un altro paese, un altro territorio, un’altra lingua.
Un cinema che solo in alcuni rarissimi casi ha goduto della possibilità di essere visto anche in sala grazie all’intervento di associazioni e gestori attenti ma che, purtroppo, non riescono certo a scalfire la patina d’indifferenza che circonda (rischiando di soffocarlo) il cinema documentario italiano. Infatti a fronte degli echi ancora non del tutto spenti suscitati dalla delusione degli addetti ai lavori italiani per il mancato riconoscimento cannense per This Must Be The Place (2011) di Paolo Sorrentino e per il Nanni Moretti di Habemus papam (2011), sorprende il silenzio quasi totale con il quale è stata accolta dalla stampa la vittoria di Stefano Savona e del suo eccellente Palazzo delle aquile all’ultima edizione del Cinema du réel di Parigi (dove era in concorso anche l’ottimo Scuolamedia, 2010, di Marco Santarelli, nome tra i più interessanti degli ultimi anni) e di Il castello di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi a HotDocs di Toronto.
Insomma il cinema italiano documentario italiano esiste. Viene visto all’estero, premiato, se ne scrive sui Cahiers du Cinéma (a firma di Emiliano Morreale), ma l’attenzione che riceve in Italia, purtroppo, è ancora del tutto insufficiente nonostante lavori come La bocca del lupo di Pietro Marcello e Le quattro volte di Michelangelo Frammartino riescano a conquistarsi notevoli spazi di visibilità. Eppure Marcello e Frammartino non sono che le proverbiali punte di un iceberg di una produzione che altrove è già stata salutata come una vera e propria nouvelle vague italiana. Un altro cinema che racconta un’altra Italia. Un cinema intimamente politico che si colloca di nuovo ai margini del nostro paese in una posizione di ascolto interagendo con la lingua e il territorio in un tentativo di fare anche del nuovo cinema (come si diceva una volta…).
Ora, il cinema industriale ha respinto le esperienze e le sperimentazioni di qualsiasi tipo 3 – Roberto Rossellini
Ci sembra quindi che il cinema italiano soffra di una crisi dello sguardo e dell’ascolto. In questo senso è esemplare l’approccio di Giovanni Cioni non solo al processo di realizzazione del film ma al reale stesso. «Tutto può essere ripreso e diffuso in tempo reale nel mondo intero, e condiviso, aggirando le censure», afferma il regista toscano. «E questo è una conquista. Ho seguito i primi flashmob in Tunisia messi su Facebook, le immagini girate col cellulare in Siria, a Teheran, il blog da Bengazi… Il paradosso di uno che fa cinema “del reale” è il sentimento che questo reale, col quale stai lavorando, non esista. O che te lo stai inventando. Parlo per me, per l’esperienza di due dei miei film. Mi sono inventato una Napoli composta di sogni, di premonizioni, di racconti di morti, con un dio regista, con personaggi veri (ma veri come in un film) che sembrano in attesa di sapere se sono esistiti… I miei film sono molto reali, con personaggi veri, luoghi vissuti, interni, strade di Bruxelles, di Napoli. Reali, appunto, ma come se fosse un reale invisibile, anacronistico, non riconoscibile, e dunque clandestino. Quando spiegavo il progetto del mio film Nous/autres (2003), alcuni commissioning editor [i responsabili di produzione delle film commission] non riconoscevano le figure di due profughi nelle persone “qualunque” che erano. Non avevano niente di esemplare. Non capivano che era questo reale che mi interessava; la distanza tra il proprio vissuto e il quotidiano, tra la memoria e quello che siamo. Nelle riprese di In purgatorio (2010) mi è capitato di imbattermi in troupe che facevano servizi per i tg sulla “guerra del rione Sanità”. Avevo l’impressione di essere sotto assedio. Di fronte al coro dell’urgenza emotiva di quest’attualità, che senso aveva la mia erranza cinematografica solitaria? Invece è proprio da qui che bisogna partire, penso. Dal fatto che siamo immersi in un universo mediatico che sembra imporre cosa sia il reale e l’attuale».
Nel corso degli anni si è andato quindi affermando un cinema italiano diverso, sintonizzato e a tratti anticipando addirittura tendenze in atto altrove che sarebbe probabilmente più corretto definire «post-fiction» (nel senso che da per superate le distinzioni fra documentario e fiction). Un cinema completamente al di fuori dalle dinamiche sovente autorefenziali della produzione dominante. Non a caso Giovanni Maderna, autore di Cielo senza terra (2010), rivendica con grande fermezza la necessità di pensare e lavorare in maniera completamente diversa. «Non è la stessa cosa», afferma, «gestire le riprese con una troupe organizzata e strutturata secondo gerarchie quasi militari, oppure in compagnia di poche persone con le quali si condivide lo stesso approccio, l’attenzione e il rispetto per la real
tà che ci propone delle forme espressive diverse magari da quelle da noi immaginate. In quest’ultimo caso, che è poi quello tipico del “docu-film”, rispetto al cinema classico si ribalta l’intero sistema di valori. Non si può più avere a che fare con professionisti pagati a ore o a giornata, non esistono orari preordinati, può darsi che non si faccia nulla per tutta una mattina ma poi, proprio al momento della pausa prevista, ecco che si presenta il momento imperdibile che vale la giornata. È una tensione creativa condivisa. Sono accettati collettivamente i sacrifici, e condivisi i meriti. Il cinema di questo tipo è per definizione collettivo. Lo è persino nel caso dell’autore che lo realizza interamente da solo. In ogni caso il suo film dipende dagli altri, da quello che gli offrono e da come lo fanno, mai dal denaro o dai mezzi materiali a disposizione. Decisamente siamo agli antipodi di quel cinema che magari parla di temi sensibili, degli ultimi della terra, e lo fa sotto la dittatura di un regista capriccioso, di una produzione con pochi scrupoli in perenne braccio di ferro con le maestranze e tutti i lavoratori di lusso dell’industria cinematografica…
Nel corso degli anni Novanta, l’evoluzione tecnologica ha reso sempre più praticabile questo cinema “collettivo” e realizzato con i costi e le modalità del documentario. Per le ragioni accennate, in Italia c’è una singolare ricchezza di autori e film di valore, che però hanno il difetto capitale di non rientrare in nessuna delle grandi visioni ideologiche del cinema contemporaneo. È un cinema spesso nascosto sotto la definizione di documentario. Questo ha permesso, in Italia, la nascita di un cinema frammentatissimo, marginalissimo, ma anche molto libero, molto autentico, innovativo e personale. È stato un cinema pionieristico, e fra questi pionieri vorrei ricordare almeno lo scomparso Corso Salani. Con il passaggio al nuovo millennio la tecnologia digitale si è raffinata rapidamente, ha permesso una riduzione drastica dei costi di realizzazione di un film. Esistono percorsi unici, complessi, che partono da un cinema più classicamente narrativo per approdare alla sperimentazione o viceversa, esistono marginali di genio come lo scomparso Francesco Gatti e grandi cineasti marginalizzati come Giuseppe Gaudino. Ma è la vera novità di questi anni».
Quindi il cinema documentario italiano è in primissima istanza un volere uscire fuori da perimetri formali e linguistici asfittici riprendendo a dialogare con grande energia e forza propositiva sia con il dispositivo di riproduzione che, soprattutto, con il territorio, inteso come l’insieme delle relazioni politiche e umane di fatto rimosse da un utilizzo privo di scrupoli della televisione commerciale. A ben vedere, infatti, il grande assente del cinema italiano d’oggi, al di là delle operazioni di promozione attivate a volte con grande lungimiranze dalle film commission operanti in Italia, è proprio il territorio. E non basta certo rievocare il modello tramontato della commedia all’italiana o qualche rigurgito di umorismo regionale per affermare la presenza del territorio. A volere tracciare una sorta di linea ideale della presenza del territorio nel cinema italiano, procedendo inevitabilmente per grandi linee, non si può non iniziare con Gloria: apoteosi del milite ignoto (1921), probabilmente il primo caso in cui il territorio si manifesta in tutta la sua sconvolgente flagranza. Successivo alla tragedia della prima guerra mondiale, il film, profeticamente prefascista, risponde a un imperioso bisogno di autorappresentazione che successivamente Alessandro Blasetti porterà alle sue estreme conseguenze con Vecchia guardia (1934), opera compiutamente fascista che cova però già i germi del futuro realismo che daranno vita al miglior cinema del secondo dopoguerra (e che non a caso sarà messo da parte privilegiando la commedia dei telefoni bianchi). La marcia su Roma secondo Blasetti mette in relazione le campagne con la capitale distante in un impeto visionario potente anche se calato nell’ineludibile discorso politico di fondo.
Il dialogo con il territorio s’interrompe quasi subito. Già durante il neorealismo. Il viaggio in Italia di Rossellini non sarà accolto come ipotesi di lavoro mentre la commedia all’italiana si concentrerà esclusivamente sui localismi e regionalismi. Da subito tornano a dominare «le storie». Il territorio diventa solo lo sfondo, il palcoscenico sul quale ambientarle e il territorio sovente trascolora nel fatto di cronaca. Non a caso, Rossellini continuerà la sua ricerca in India e altrove nel mondo. A prescindere infatti dalla quasi involontaria testimonianza sociologica contenuta nel «poliziottesco» della fine degli anni Settanta, probabilmente l’unico luogo del cinema italiano dove cogliere i segni della trasformazione urbanistica affrontata dalle nostre città, il territorio scompare quasi del tutto.
Quindi quando Alberto Fasulo con il suo Rumore bianco mette lo scorrere del Tagliamento in rapporto con il territorio circostante lo fa attraverso un lavoro di ascolto che deve molto al cinema di Frederick Wiseman: ciò che salta agli occhi non è tanto la qualità «documentaria», «realistica» dell’impresa quanto la sua natura schiettamente «fantastica», genuinamente «altra». Oltre, cioè, le coordinate del realismo abituale, che in realtà sono finte tanto quanto le convenzioni televisive più viete. Ed è in questa tensione verso un oltre e un altro cinema che trova la sua forza e la sua ragion d’essere il lavoro di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti. «Crediamo che l’immagine girata sia frutto, rappresentazione e specchio del proprio metodo e approccio al lavoro», affermano i due cineasti. «Noi abbiamo scelto di scrivere, filmare e montare i nostri film. È bello, ci piace, è fondamentale e ci aiuta a migliorare. Solo in questo modo, proprio come l’opera degli artigiani che quotidianamente si raffina, il film muta e prende forma giorno per giorno, si scrive nel lavoro e nella riflessione. Come dice Frederick Wiseman: “Mi interessano tutte le attività umane. Scelgo un argomento, punto la mia macchina da presa e poi cerco di capire le cose che accadono davanti ai miei occhi e alle mie grandi orecchie e di dar loro una struttura, combinando pensiero razionale ed emotivo”. È un gioco d’equilibrio che si nutre di una giusta distanza tra noi e quello che filmiamo, una linea sottile in cui tentiamo di restituire frammenti di lavoro, sentimenti, emozioni, vita senza anteporre un giudizio a ciò che mostriamo. Vorremmo prendere per mano lo spettatore e accompagnarlo fino al punto in cui riesce a perdersi, uno smarrimento emotivo all’interno di una sorta di camera oscura dei sentimenti. Crediamo che questo sia l’unico modo di dare alle persone la possibilità di costruire un proprio film, una personalissima visione del mondo, che non necessariamente coincide con la nostra. Crediamo nella bellezza e nei buoni film, siano questi documentari, fiction, film d’animazione, commedie o tragedie. La questione non è raccontare la realtà, è fare dei film necessari, rigorosi e coraggiosi. Solo attraverso questi può emergere quella scintilla che tende sempre verso nuove domande. La tensione come punto d’arrivo».
Il nodo cruciale, infatti, affrontato dal cinema documentario italiano è proprio quello dell’alterità. Basti pensare a Cadenza d’inganno – Recit d’un rencontre interrompue di Leonardo di Cost
anzo nel quale il regista partenopeo mette in scena il proprio scacco, in quanto narratore di storie «vere», nei confronti di un bambino, Antonio, il quale da oggetto dell’attenzione del regista diventa soggetto sottraendosi al film del quale era chiamato a essere protagonista. Ossia da personaggio del film diventa persona, costringendo di fatto il regista a ripensare la sua posizione non solo rispetto al territorio nel quale opera ma soprattutto in relazione al suo lavoro. Ed è dunque in questo equilibrio metastabile fra alterità e territorio, un equilibrio in perenne verifica, che si produce il migliore cinema «documentario» italiano. Perché, come nota Bruno Oliviero, gli autori di documentari negli ultimi anni si sono consentiti «il lusso di cercare forme, un lusso da barboni, nel senso di quei lussi che si consentono coloro i quali stanno fuori da qualsiasi sistema di regole (e il caso dell’italia è emblematico, non avendo un sistema televisivo nel quale ci sono i documentari, per esempio) ma questo ha consentito di sperimentare, di farsi continue domande sulla rappresentazione di ciò che si andava raccontando. Scavalcando in questo modo la nostalgia di quando il “cinema era il cinema”, facendolo senza preoccuparsi del fatto che il cinema è morto. In che senso uso questa frase ridicola, apodittica, banale e ormai volgare, oggi, giugno 2011? Il cinema come mezzo d’espressione che ha qualche legame con il presente nei fatti non c’è, non serve, non viene visto. Chi vuole raccontare il proprio tempo non fa cinema. Ci sono le eccezioni che vanno sempre più restringendosi, e sono i grandi vecchi del cinema impegnato o artisti come Sorrentino… ma come si “deve” fare questa cosa, raccontare il proprio tempo, oggi? Lo si deve fare in parodia o in parabola? Cosa è peggio? Pensa… esiste un film al cinema che racconti i precari? Tanti… e cosa sono? Commedie in fondo sguaiate anche nei migliori esempi… un film che racconti la drammatica contraddizione tra sviluppo e progresso? Insomma, il cinema non incide più sull’immaginario. E cosa fanno i documentaristi? Lavorano continuamente con l’immaginario, lo manipolano, ci si tuffano dentro, credendo che gli si possa, alla fine trovare una forma. È per questo che il cinema di quando era il cinema esiste dentro di noi, resiste, siamo curiosi e andiamo a guardare i film del passato che possono aiutarci a risolvere alcuni enigmi della narrazione diretta, perchè nel presente ormai troppo raramente ci troviamo di fronte al tentativo di sciogliere questo enigma, con tutti questi film tutti uguali, a volte belli (quando va bene) e più spesso brutti, soprattutto se con quei mezzi espressivi si vuole raccontare il presente».
Esempio notevolissimo di questo furioso dialogo appassionato è Cielo senza terra di Giovanni Maderna, dove l’occupazione della Innse di Milano da parte degli operai in sciopero è posta su un piano di coesistenza con una lunga scampagnata che il regista intraprende insieme al figlio Eugenio, filmato da Sara Pozzoli, fra i boschi della Grigna settentrionale. Maderna ovviamente bada bene a tirare delle conclusioni dialettiche dalla scalata al cielo di un padre e suo figlio e l’ultimo assalto al cielo di un pugno di operai (e i ricordi di un discografico). Ma è proprio nella flagranza del gesto del lavoro del cinema – che rossellinianamente diventa simile al mangiare o camminare – che il lavoro (o la sua assenza) diventa il luogo – un altro territorio – dove il cinema si offre come possibilità di dire e vedere in forme non stereotipate. Esemplare di questo movimento, il sofferto In amabile azzurro (2010) del duo Felice D’Agostino e Arturo Lavorato dove la Calabria e la sua devastazione sono rilette attraverso L’Orestiade. Squarciato da epifanie straubiane e mareschiane, il film offre l’immagine esatta, documentaria addirittura, di cosa oggi significa ingaggiare un corpo a corpo con il territorio. Ancora una volta il discorso fluisce in un sentire di matrice quasi free jazz dove la macchina da presa scivola lungo la superficie del terreno per incantarsi nuovamente di fronte ai corpi e agli elementi. Ciò che si può senz’altro affermare, senza timore di trascinare in un discorso unico elementi e lavori profondamente diversi fra loro, resistendo quindi alla banalizzazione della prospettiva unica, è che il cosiddetto cinema documentario italiano ha tentato letteralmente di riportare alla luce un paese in un momento in cui era scomparso da decenni come schiacciato fra opposte polarizzazioni.
L’Italia, in questo cinema nuovo, emerge come differenza. Anche in un caso esemplare di cinema di denuncia, come il corale Ju tarramutu (2010) di Paolo Pisanelli, le contaminazioni tra i vari registi espressivi – ballata brechtiana, echi del cinema di Ciprì & Maresco, pamphlet – danno vita non solo a un esempio emblematico di intervento sul territorio in netta opposizione con la vulgata dei media ufficiali, ma soprattutto mette in atto una strategia di racconto che, recuperando l’oralità, di fatto attiva una nuova modalità di visione (cosa che accade peraltro in un film diversissimo e non ambientato in Italia come El sicario: Room 164, 2010, di Gianfranco Rosi, altro cineasta di punta del movimento documentario italiano). E questa qualità orale si trova alla base della commovente ballata La valle della luna (2010) di Giovanni Buccomino, probabilmente uno degli esordi documentari più maturi degli ultimi anni, film che danza nella comunità di un gruppo di persone che coscientemente si tagliano fuori dal mondo solo per ritornarvi come memoria e parola.
È evidente, anche da una ricognizione necessariamente sommaria come questa, che uno dei principali risultati a emergere dallo studio dei film citati e da altri ancora «trascurati» per ovvie ragioni di spazio, è che l’Italia, osservata attraverso il prisma della post-fiction del cinema documentario, ritorna a essere una realtà plurale (basti pensare ancora a La Domitiana, 2009, di Romano Montesarchio). L’immagine di un paese giunto felicemente (o meno…) alla fine della sua storia per abbracciare un dopo all’insegna del consumismo viene clamorosamente smentita dalla molteplicità di immagini che raccontano «un’altra storia». Una storia tutta al presente nella quale il cinema, inteso come strumento d’indagine e linguaggio, torna a essere attore e protagonista dei cambiamenti. Probabilmente è proprio questo l’unico cinema politico pensabile oggi. Perché in esso la politica è connaturata al mezzo stesso dell’indagine. Infatti, dove non ci sono regole scritte, ossia dove non vige uno stato di quiete, il dovere pensare a delle modalità di coesistenza comporta necessariamente delle strategie di conoscenza e socializzazione. Ed è da questa necessità che il cinema, il territorio, la lingua si ritrovano su di un piano inevitabilmente «politico», perché «politiche» sono le condizioni nelle quali ci si trova a dovere ipotizzare delle nuove modalità di vita, di ascolto e di… ripresa.
NOTE
1 A.M. Ortese, Corpo celeste, Adelphi edizioni, Milano 2006, p. 45
2 E. Bruno, Film: altro reale, Edizioni Il formichiere, Trento 1978, p. 9.
3 R. Rossellini, «Non si può dire tutto in un solo film», in Senso come rischio. 60 anni di Filmcritica, Le mani, Recco 2010, p. 34.
(3 dicembre 2011)
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