Covid-19: autoritarismo ed economia di guerra

Luca Michelini



1. Parte della pubblica opinione italiana non gradisce che l’impatto e le conseguenze economiche del Convid-19 sull’economia italiana e mondiale, nonché i provvedimenti di politica economica che si stanno prendendo in Europa e nel Mondo, siano paragonati a ciò che accade in una economia di guerra.

Riassumendo e semplificando, due sarebbe i rischi che si correrebbero ad istituire questo paragone. Primo: invocare l’economia di guerra implicherebbe favorire forme autoritarie di governo e di Stato, come esemplifica l’Ungheria di Orban. Secondo: l’economia di guerra implica un unanimismo patriottardo che tenderebbe ad annichilire con la democrazia anche ogni forma di libera discussione dell’operato dei governi.

E poiché è stato Draghi, sul Financial Times, ad usare il paragone tra quanto accade oggi e quanto accaduto durante il Primo Conflitto Mondiale (invocando una finanza straordinaria incardinata sull’aumento dei debiti pubblici, su una certa socializzazione degli investimenti e sulla monetizzazione del debito), una parte della pubblica opinione che teme l’involuzione democratica di sistemi “in guerra” si perita di sottolineare come proprio Draghi sia stato fautore di quel sistema economico neo-liberista (privatizzazioni, deregolamentazione del mercato del lavoro ecc.) che ora mostra la corda[1].

È stata Confindustria, del resto, la prima ad utilizzare il paragone con l’economia di guerra mentre nello stesso tempo non è stata unanime nel porsi il problema della protezione sanitaria dei lavoratori. Ha fatto un certo scalpore un recente video in cui uno dei maggiori editori italiani considera la situazione attuale come una ghiotta occasione di profitto. Insisto nel ricordare che già Adam Smith scrisse che coloro i quali per mestiere come obiettivo hanno il profitto, non possono governare, mancandogli la concezione dell’interesse generale. È l’applicazione di un principio fondamentale messo a punto dal grande economista scozzese: la divisione del lavoro plasma il talento umano.

2. I rischi indicati esistono senz’altro. Economia di guerra può significare autoritarismo: politico e sociale. Vista la storia del nostro Paese, passata e recente (i due “ventenni”), corriamo il rischio di pensare che l’interesse individuale si sovrapponga all’interesse generale, che il paradigma della massimizzazione del profitto possa diventare il paradigma in base al quale ridisegnare l’intera collettività e lo Stato in tutte le sue articolazioni. Corriamo il rischio di non fare un’analisi obiettiva dei motivi per cui uno Stato e una economia così disegnati (configurati, cioè, secondo il modello che Smith condannava) si sono trovati impreparati ad una epidemia. Corriamo il rischio di scaricare il costo della crisi sui ceti più deboli. Corriamo il rischio di far risucchiare ogni tentativo di cambiamento di paradigma economico all’interno del pensiero liberista, come è accaduto con il reddito di cittadinanza.

Questa parte della pubblica opinione tuttavia sottovaluta un punto: la situazione attuale è oggettivamente simile ad una economia di guerra. Come in passato, vi sono i suoi teorici, che possono avere le intenzioni prima descritte da chi teme la deriva autoritaria. Ma come conferma l’articolo di Draghi, cioè come conferma il fatto che di economia di guerra e di finanza straordinaria parla uno dei più significativi esponenti del neo-liberismo (semplifico: perché già il QE mette in discussione quel paradigma[2]), la situazione attuale spinge per forza di cose verso una “mobilitazione generale” delle risorse. Spinge di fatto verso una economia di guerra.

3. Ecco allora che il paragone con l’economia di guerra può essere molto utile non dico per prevedere quello che potrà avvenire, ma per profilare alcuni scenari.

Sono state l’improvvisazione, la disorganizzazione, nonché la sperequazione economica e sociale a far scaturire dalla Grande Guerra rivoluzioni e controrivoluzioni, crolli e nascite di Imperi. A quanti si crogiolano, amando le semplificazioni, nel sottolineare il grande “libro nero” del comunismo o del fascismo va ricordato che entrambi hanno le radici ben piantate negli sconquassi economici e sociali della Grande Guerra. Che vide la disintegrazione dell’Impero asburgico e di quello Ottomano e la comparsa dell’egemonia degli Usa.

Il dibattito economico e sociale che si sviluppò a guerra finita verté sulla possibilità che l’economia di guerra, che aveva visto crescere in modo decisivo anche se disordinato l’intervento dello Stato nell’economia, proseguisse il suo cammino anche in periodo di pace. E verté sul contenuto sociale che questa “nuova economia” doveva avere: se come strumento di rafforzamento del capitalismo classista ed elitario (nazionalisti) o di sua radicale trasformazione per realizzare nuovi diritti sociali (in Italia nacque allora il Ministero del lavoro: liberalismo sociale) o di suo più o meno graduale superamento (socialdemocrazia, comunismo).

Se, dunque, diventa impossibile, tecnicamente impossibile, non passare da una sorta di economia di guerra, come sembra darsi il caso, allora è opportuno non lasciare che essa diventi appannaggio dei ceti dirigenti e dominanti che ci hanno portato a questo stato di cose. È bene tagliare l’erba sotto i piedi sia ai nazionalisti (sovranisti), sia agli europeisti, che di fatto sono succubi del nazionalismo economico di altri paesi, sia a coloro che l’intervento pubblico lo voglio del tutto subordinato agli interessi privati. Altrimenti il rischio che si corre è proprio quello paventato: la nascita di un regime autoritario indispensabile al governo di una società dilaniata da una crisi economica e sociale profondissima.

4. Che cosa significa tagliare l’erba sotto i piedi a questi schieramenti culturali e sociali?

Significa utilizzare cautela nel parlare di “shock esogeno all’economia” per il Convid-19: perché è autoassolutorio da parte del lessico economico (anche se tra i più avveduti) non porsi il problema delle cause economiche dello shock[3], ritenuta tematica extra-economica.

Significa capire che in economia di guerra è inevitabile l’intervento pubblico. Significa dunque contrastare tutte quelle posizioni estremistiche che vorrebbero limitare questo intervento pubblico, lasciando operare liberamente il mercato.

Significa contrastare quelle posizioni altrettanto estremistiche che vorrebbero che questo intervento pubblico andasse a favore di interessi di parte, diventasse strumento di consolidamento degli equilibri economici e sociali realizzatesi negli ultimi venti anni[4]. Ben venga, dunque, l’idea di realizzare il reddito universale[5].

Significa capire che le forme della monetizzazione del debito pubblico (MES, QI e sue tempistiche, politiche di spesa pubblica, politica fiscale) implicano una precisa ripartizione nazionale (tra individui, ceti, classi) e internazionale (tra nazioni) del costo della guerra economica in atto[6].

Significa non cercare utopistiche fughe in avanti (di estrema destra o di estrema sinistra o di supina sottomissione a sovranità straniere), ma costruire una effettiva unità nazionale capace di creare reale coesione sociale salvaguardando interessi economici e sociali trasversali e l’interesse nazionale. Significa essere p
reparati (anche con un “piano b”[7]) a resistere ad un tentativo di “grecizzare” il nostro pese.


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Significa comprendere che questa economia di guerra è del tutto particolare rispetto a quelle nate nel passato in occasione di conflitti militari: perché la mobilitazione generale si realizza per conseguire un diritto sociale: quello della salute. Perché insegna, potrebbe insegnare, che dobbiamo avere paura, perché dobbiamo considerare obiettivi da mobilitazione generale, per esempio la povertà o una diseguaglianza eccessiva o addirittura la diseguaglianza (almeno dei punti di partenza) o l’ignoranza o una scolarizzazione esigua o elitaria o la ricerca scientifica o la pace o l’ecologia o mercati più limitati ma per questo più capaci di rispettare i diritti fondamentali dei lavoratori e la pace tra le nazioni.

Significa, infine, disfarsi della paura di matrice anarchico-liberale dello Stato, ma battersi per una sua trasformazione in grado di governare i processi di cambiamento economico e sociale in corso e futuri. Impensabile nel futuro pensare ad una società priva di ospedali pubblici. Doveroso riuscire a renderli una macchina dinamica e efficiente, organicamente collegata al tessuto economico nazionale.

NOTE
[1] Cfr. M. Revelli, Draghi, lupi, faine e sciacalli, del 29 marzo 2020, Volerelaluna.it.

[2] Numerosi gli economisti pienamente coinvolti nella stagione neo-liberista che condividono la posizione di Draghi: F. Giavazzi, G. Tabellini, Eurobond perpetui contro il Covid-19, 27 marzo 2020, lavoce.info; V. Visco: il MES non è utile, adesso serve l’helicopter money, 28 marzo 2020, ArticoloUno.it; C. Cottarelli, Dalla BCE un aiuto da 220 miliardi all’Italia: ecco perché non c’è soluzione fuori dall’Ue, 28 marzo 2020, La Stampa. C. Batasin, L. Bini Smaghi, M. Messori, S. Micossi, P.C. Padoan, F. Passacantando, G. Toniolo, La risposta italiana alla crisi sanitaria: pensare oggi il futuro del Paese, Luiss. School of European Political Economy, Policy Brief 11/2020.

[3] F. Saraceno, Le conseguenze economiche della pandemia: M. Draghi e le scelte di politica economica ai tempi del virus, 26 marzo 2020, Open.luiss.it.

[4] Cfr. p.es. quanto accade alle maestranze agricole: G. Ornaghi, M. Nasso, I forzati dell’economia, 31 marzo 2020, JacobinItalia.it.

[5] B. Grillo, Reddito Universale: è arrivato il momento, 30 marzo 2020, bebbegrillo.it.

[6] Cfr. E. Brancaccio, Draghi indica il futuro ma dribbla una domanda: chi pagherà questa crisi?, 29 marzo 2020, Econopoly.

[7] Ricordo che della tematica si è occupato non solo P. Savona, ma anche altri economisti, di scuola diversa: cfr. Un’altra Europa, a cura di E. Screpanti, “Il Ponte”, 2017, n. 5-6.
(2 aprile 2020)





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