Note finali su Venezia 69
Fabrizio Tassi
Un buon festival, che ha riservato alcune cocenti delusioni (su tutti Brian De Palma e Terrence Malick), ma anche una buona dose di ottimi film: Bellocchio, Anderson, Assayas, Kim Ki-Duk, Mendoza, Korine, Redford e l’esordiente Di Costanzo, forse la sorpresa più bella di questa edizione.
Credere o capire. Obbedire (affidarsi a qualcuno, a qualcosa) oppure scegliere (e magari sbagliare, magari anche spesso). Appartenere a un gruppo, un’identità, una tribù, una tradizione, o metterle tutte in discussione.
Siamo sempre lì. A ragionare sul posto che occupiamo nel mondo. Su cosa significhi e comporti l’essere liberi. Ma anche sul bisogno di "fare comunità", fidarsi di altri esseri umani, condividere un ideale, un insieme di valori.
Il bello del cinema è che non ha bisogno di perdersi in chiacchiere o petizioni di principio.
Siamo dentro la comunità ortodossa ebraica (come in Fill the Void della regista Rama Burshtein) accompagnati da chi la vive e la conosce dall’interno (dal suo punto di vista sul mondo e la propria comunità), tra uomini e donne che vogliono semplicemente essere felici, e lo fanno dentro le regole rigide e i costumi condivisi di una tradizione millenaria.
Ma incontriamo anche il tribalismo senza regole delle giovani edoniste celebrate da Harmony Korine (Spring Breakers) in un film acido e agit-pop, in cui il vuoto viene riempito dalla mistica del piacere, del denaro, del potere di essere ciò che si decide di essere, anche un nulla senza senso, tra armi, droghe, sesso (esibito più che consumato) e telefonate alla mamma per dire che "ho ritrovato me stessa" (mentre lo guardavo pensavo all’ultimo Malick: non è una provocazione da due soldi, ma una questione di approccio al cinema, trasformato in estatica giaculatoria, che là è (troppo) alta e qui è ludicamente e disordinatamente bassa).
Siamo con Mira Nair (The Reluctant Fundamentalist) a seguire la vicenda di un giovane pachistano che passa dal fondamentalismo della finanza occidentale a quello dell’islamismo radicale, decidendo di rifiutare entrambi, libero di amare l’America ma di odiarne l’arrogante ipocrisia e prepotenza, libero di essere fedele alla propria terra, alla sua tradizione, alla sua voglia di indipendenza, senza essere un soldatino di Dio (qui è tutto troppo detto e spiegato, ma il film ha un suo perché).
Oppure ci ritroviamo tra le palafitte di una remota regione nelle Filippine, dove sposarsi costa caro e le norme sociali che regolano i rapporti tra uomini e donne non vanno sempre d’accordo con la verità dei sentimenti, in un film dai risvolti etnografici pieno di poesia senza bisogno di essere lirico, ricco di umanità e realtà senza dover esibire il suo specifico realismo (il notevole Sinapupunan di Brillante Mendoza).
L’edizione 2012 della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia ci ha offerto l’occasione di tornare su alcuni temi che sono al centro dell’ (il volume di MicroMega, uscito una decina di giorni fa, sta andando molto bene nelle edicole e nelle librerie, e se lo merita). A partire dal discorso sulla laicità.
Se il Festival di Cannes verrà ricordato soprattutto per il film di Haneke, Amour (che tra le altre cose è tornato a farci discutere e dividere sull’eutanasia), quello di Venezia è rimasto segnato dalla Bella addormentata di Marco Bellocchio. Lo avevamo scritto proprio sull’Almanacco: speravamo in questo film perché venisse restituita dignità e verità alla vicenda di Eluana Englaro, sfruttata senza vergogna e pudore da media, politici, associazioni di credenti più attenti alla lettera che alla giustizia, molto sensibili ai principi ma pochissimo agli uomini, alle donne e alla loro libertà di credere o non credere (di vivere e morire come credono). Ebbene, Bellocchio ha superato le nostre stesse aspettative, costruendo (sì, la parola è questa, è un film molto scritto e pensato e "messo in scena") un’opera che ha una straordinaria misura, in cui la vicenda di Eluana, la liberazione dalla prigione della sua non-vita, si riflette sulla coscienza e la vita di tutti e di ognuno. Non è una cronaca, una ricostruzione, un documento in forma narrativa. E’ un insieme di storie che ci aiutano a capire come quella storia ha messo in discussione le nostre convinzioni (oppure no), come ci ha interpellato, costringendoci a prendere una posizione, come ha fatto emergere il peggio e il meglio del nostro Paese (quanto è grottesca la parola Libertà associata alle truppe e all’ideologia berlusconiana…).
La "bella addormentata" del titolo è una donna morta dentro, che vuole farla finita: il suo "principe" non gli impone semplicemente un dovere di vivere, ma prova a ridarle il gusto della vita, a ricordarle quanto sia preziosa la sua libertà di scegliere se farla davvero finita. Realtà e visione (sogno, incubo), come sempre in Bellocchio, inquadrature che sono pensiero per immagini, monologhi che esplicitano il senso e dialoghi che alludono ad altre riflessioni possibili, mentre la vita urge, spinge, chiede, chiama, fregandosene di ciò che pensiamo di credere.
Ci sono tanti modi di affrontare la questione della libertà, più o meno buoni, efficaci, suggestivi, tanti punti di vista (santo relativismo!). Ad esempio Wadjda di Haifaa Al Mansour, di cui si è molto parlato per essere il primo film girato in Arabia Saudita (da una regista donna) e che ha il coraggio di osservare quel mondo chiuso e bigotto con la freschezza ribelle e la semplicità genuina di una ragazza di 10 anni. Oppure Sennen no Yaraku (Mille anni di estasi) di Koji Wakamatsu, che racconta giovani "maledetti", bellissimi, insaziabili, costantemente alla ricerca di nuove emozioni, di quell’estasi che riscatta l’assurdità di un tragico destino sempre uguale, osservandoli da una distanza siderale, accettando, senza giudicare o disperare, la natura transitoria delle cose e la fallibilità dell’uomo.
Se possiamo scegliere, rinunciamo volentieri allo sguardo compiaciuto di Ulrich Seidl, che in Paradies: Glaube mette in scena (oscenamente) una donna ossessionata dalla religione (cattolica) e il suo rapporto impossibile col marito musulmano, immobilizzato su una carrozzina. C’è tutto il repertorio, il sadomasochismo, il cilicio, l’ottusità missionaria, il crocifisso usato per masturbarsi, la crudeltà dell’ortodossia che non vede la realtà ma la riscrive a sua immagina e somiglianza. Tutto troppo esibito, in un cinema che giudica invece di mostrare, che non ha pietà ma solo commiserazione e sarcasmo, che si ritiene infinitamente superiore alle persone e le cose che racconta. Vade retro!
Molto ma molto meglio The Master di Paul Thomas Anderson (per chi scrive, il miglior film del festival), che c’entra poco o niente con Ron Hubbard, Scientology, le sette, la "nuova religiosità" (e i suo risvolti ridicoli) e c’entra invece moltissimo con la storia di tutti noi, alle prese con padri, padroni e maestri, sempre alla ricerca di una nuova libertà. Un ex-soldato, disperato e alcolizzato, si imbatte in un aspirante maestro, che riesce a dare una forma al suo caotico slancio vitale, senza riuscire a domarlo fino in fondo. Sì, certo, il film parla anche dell’America (uscita illusa e confusa dalla guerra, alla disperata ricerca di nuovi padri-padroni). Ma racconta soprattutto quanto bisogna essere cora
ggiosi, soli, pazzi, ostinati, ubriachi di vita, per continuare a cercare il "luogo" in cui non abbiamo più bisogno di guide da seguire ciecamente.
Tutto questo lo abbiamo visto in un buon festival, che ha riservato alcune cocenti delusioni (su tutti Brian De Palma e un Terrence Malick alla deriva, che sembra aver perso il senso e il ritmo della sua musica smisurata), ma anche una buona dose di film interessanti: dal post-’60 di Assayas, Après Mai, a Pieta di Kim Ki-Duk; dal sottovalutato At any Price di Ramin Bahrani, che fa i conti col cinema Usa (quello più visto, conosciuto, celebrato) per ribadire il fallimento etico del sogno americano, a un film di Robert Redford sull’incomunicabilità politica tra le generazioni e la contraddizione tra gli ideali astratti e la realtà, coi suoi valori essenziali (The Company you Keep); dal documentario di Spike Lee su Michael Jackson, Bad 25, al film che il figlio di Peter Brook ha dedicato al metodo del babbo-regista-genio, Tightrope.
Peccato solo per la selezione italiana, che in concorso (a parte Bellocchio) ha messo i film più deboli, quelli di Daniele Ciprì e Francesca Comincini, mentre in Orizzonti c’era la pellicola-rivelazione dell’esordiente (nella fiction) Leonardo Di Costanzo, L’intervallo, forse la sorpresa più bella del festival. Un piccolo film che racconta due ragazzi chiusi in un edificio abbandonato, alle prese con le regole non scritte e la violenza del mondo camorristico, ma senza bisogno di spiegare o denunciare, senza avere la presunzione di "rivelare" chissà cosa, stando semplicemente (?) a guardare e ascoltare la realtà, vista attraverso gli occhi e le parole di due adolescenti. E’ Napoli, sì, ma potrebbe essere una qualsiasi metropoli in cui due giovani devono decidere cosa diventare, mentre gli adulti, là fuori, hanno già stabilito le regole che dovranno seguire. Non sarà facile trovare il coraggio di dire "no".
(9 settembre 2012)
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