Stefano Caserini, autore del saggio “L’auto non inquinante è un’illusione” contenuto nel numero di MicroMega in edicola, controreplica al testo pubblicato lo scorso 28 luglio di Marco Ponti e Francesco Ramella, autori del saggio “” sul numero 4 di MicroMega.
La replica di Marco Ponti e Francesco Ramella (in seguito per brevità, P&R) al mio intervento su Micromega 5/2020[i] ha fornito elementi che meglio permettono di dimostrare la debolezza delle tesi presentate nel primo scritto di Marco Ponti, secondo cui le politiche sulla mobilità sostenibile non sono utili e convenienti per contrastare il cambiamento climatico. Una replica che mostra ancora di più i limiti di valutazioni economiche semplicistiche sorrette da un discorso approssimativo, basato su citazioni fuori contesto, confusione su alcuni numeri chiave ed errori fattuali.
1. Le auto attuali «inquinano molto poco»? Sicuramente no.
Ribadisco quanto ho scritto
[ii]: il fatto che ci siano state riduzioni significative nelle emissioni autoveicolari per molti inquinanti, non è in contraddizione col fatto che le emissioni residue di quegli inquinanti siano comunque ancora impattanti sulla salute. Il secondo motivo per cui è errato sostenere che un’autovettura attuale inquina poco è che per un altro inquinante emesso dai veicoli – l’anidride carbonica, CO
2 – ci sono state riduzioni modeste. La CO
2 è un inquinante perché acidifica gli oceani, una minaccia per l’ecosistema marino poco conosciuta ma non per questo meno grave. La variazione nell’acidità del mare dal periodo preindustriale non ha precedenti negli ultimi 65 milioni di anni
[iii]. Inoltre, la CO
2 ha tanti altri effetti indiretti sulla salute, legati in modo chiaro all’attuale surriscaldamento globale di cui è la causa largamente più importante. Le emissioni medie di CO
2 degli autoveicoli circolanti si sono ridotte in modo irrisorio negli scorsi 20 anni. Per il resto, anche se si guardano i dati degli inquinanti non climalteranti le affermazioni dello scritto di Marco Ponti non sono chiaramente supportate dai dati. Va notato innanzitutto che quanto Marco Ponti ha scritto nel primo articolo è diverso da quanto P&R hanno scritto nella replica. Ponti scriveva che “un
veicolo attuale inquina mediamente un decimo di uno di 20 anni fa”
[iv], ora P&R confrontano i “
costi esterni”
[v] legati all’inquinamento dell’aria dei veicoli Euro 0 ed Euro 6, calcolati considerando alcuni inquinanti, e riportano riduzioni dei costi di 20 volte per i veicoli a benzina e di 7 volte per i veicoli diesel. Ma gli Euro 6
sono circa il 25 % del parco circolante nel 2019, non possono essere considerati rappresentativi dei “veicoli attuali”. E la vendita dei veicoli Euro 0 è stata vietata 27 anni fa: questi veicoli non possono essere considerati rappresentativi dei veicoli circolanti “20 anni fa”. Se si prendono le emissioni medie del parco autoveicolare circolante dei due principali inquinanti atmosferici che determinano il superamento dei limiti di qualità dell’aria,
negli ultimi 20 anni di cui sono disponibili i dati (1999-2018) il veicolo medio attuale (anno 2018) emette il 33% di NOx e il 61% di PM10 rispetto al veicolo di 20 anni fa (1999)
[vi]. Siamo molto, molto lontano da riduzioni di 10 o 20 volte in vent’anni. Infatti, gli stessi P&R scrivono nella replica “è oggi necessario togliere dalle strade dieci auto per avere lo stesso effetto che nel 1980 si sarebbe conseguito eliminandone una sola”. Dal 1980 ci separano 40 anni, non 20. In conclusione, se P&R avessero scritto il loro articolo 20 anni fa, avrebbero potuto citare grandi riduzioni nelle emissioni di alcuni inquinanti rispetto ai 20 anni precedenti. Se allora avessero concluso che i veicoli (circolanti 20 anni fa) inquinavano molto poco, avrebbero sbagliato, come sbagliano ora. Diverso sarebbe se fra 20 anni avremo un parco circolante di veicoli elettrici, con energia rinnovabile come fonte di carica.
2. Il ruolo non marginale di trasporti collettivi e biciclette per la riduzione delle emissioni climalteranti
I dati citati sulla ripartizione fra i km percorsi con diversi modi di traporto, citati da P&R, sono relativi solo all’Unione Europea, e considerano solo i “passeggeri”. Ma le persone che si spostano non sono solo passeggeri di mezzi di traporto, sono anche pedoni e ciclisti, che rappresentano una quota importante degli spostamenti e dei km percorsi in molte città, anche del nord del mondo. Se questi spostamenti venissero incrementati da politiche sulla mobilità sostenibile, non se ne vedrebbe traccia nei dati citati da P&R. Decenni di urbanistica scriteriata e di politiche urbane a favore delle autovetture hanno determinato il peso preponderante del traffico autoveicolare. Ma qualcosa si sta indubbiamente muovendo. Negli stessi dati citati da P&R si può notare che se la quota modale dei trasporti collettivi terrestri è diminuita dell’1,7%, quella dei mezzi privati motorizzati (2 e 4 ruote) è diminuita nello stesso periodo (1995-2017) del 2,7%. P&R non faticheranno a trovare i dati sulle quote modali nei paesi e nella città del sud del mondo, visto che il discorso originario era generale (con citazioni di Cina, India, Africa). Peccato che non abbiano riportato riferimenti a quella presunta “evidenza empirica amplissima sia in termini spaziali che temporali” che dimostrerebbe che i trasporti collettivi hanno un ruolo marginale ai fini della riduzione delle emissioni climalteranti anche per le megalopoli cinesi, indiane e africane. In mancanza di riferimenti autorevoli, la cosiddetta prova “regina” sarebbe che “Non vi è ragione alcuna per ritenere che nei prossimi 20 o 30 anni l’evoluzione possa essere significativamente diversa” da quanto successo negli scorsi 20 o 30 anni. Anche questa è una prova esile: chi si preoccupa di cambiamenti climatici e inquinamento dell’aria, ha parecchie ragioni per cambiare. E non è difficile reperire le passate proiezioni sulla domanda di energia primaria in Europa, o sullo sviluppo delle energie rinnovabili, sbagliate clamorosamente proprio ipotizzando che il futuro sarebbe stato uguale al passato.
3. Dove si giocherà la partita del clima? Anche in Europa
L’argomento usato nel primo scritto da Marco Ponti (non tocca a noi ridurre le emissioni di CO2, conviene che lo facciano altri), è stato di fatto cambiato nella replica di P&R, sono contento che possiamo ora concordare su quanto ho scritto: il ruolo dell’Unione Europea nella riduzione delle emissioni climalteranti anche del settore dei trasporti è importate. Non solo per i benefici diretti dalla riduzione dei carburanti fossili, ma per l’effetto di traino e la ricaduta che le innovazioni tecnologiche e sociali europee nel settore dei trasporti avranno sugli altri paesi. Un dibattito su quanto sia giusto investire per sostenere i trasporti collettivi è benvenuto, a patto che sia affrontato in modo rigoroso, cogliendo i diversi aspetti in gioco, e non con valutazioni spannometriche basate su illusioni di facili e poco costose riduzioni possibili in altri settori. E tenendo conto che l’Unione Europea si è già impegnata a essere climate-neutral nel 2050, e a ridurre le emissioni di CO2 dei trasporti in modo significativo, agendo anche in modo deciso sul lato della domanda.
4. Sottostima degli impatti dei cambiamenti climatici da parte di W. Nordhaus: nuove conferme.
La replica di P&R su questo punto è inconsistente, contiene palesi errori e una citazione eloquente che è interessante valutare nel dettaglio. La grande sottostima degli impatti economici dei cambiamenti climatici effettuata in passato da William Nordhaus, citata nel mio scritto, è stata già discussa in letteratura
[vii], ed è avvenuta in un lavoro pubblicato nell’anno 2007, come da precisa citazione riportata nella nota 13 del mio testo. P&R ora citano i dati di un lavoro di Nordhaus del 2018, a cui non mi sono mai riferito, e da questo ne deducono che la mia affermazione (relativa ad un lavoro di 11 prima) sarebbe “priva di fondamento”. L’errore logico è evidente. Più grave, e disvelatore della prassi di cherry picking e della mancanza di rigore scientifico tipica delle argomentazioni di P&R, è che cerchino di attribuire all’IPCC stime economiche dei danni dei cambiamenti climatici simili a quelle di Nordhaus
[viii]. Ora, chi cita i rapporti dell’IPCC dovrebbe sapere, dopo 32 anni dall’istituzione di questo organismo, la pubblicazione di 5 “Rapporti di valutazione” e di una decina di “Rapporti speciali”, che l’IPCC effettua una rassegna della letteratura scientifica. Per cui non è strano che a pag. 256 del
Rapporto Speciale su 1,5°C di riscaldamento globale (in seguito SR1.5) sia riportata la frase suddetta, desunta da un altro lavoro pubblicato in letteratura. Quindi quanto hanno scoperto P&R è solo che la stima sulla riduzione del Pil tendenziale effettuata in un lavoro del 2018 da Nordhaus non è molto diversa da quella fatta in un altro lavoro citato dall’IPCC nel SR1.5. Nella stessa pagina del SR1.5, e in quelle precedenti e successive, si possono trovare tante altre stime dei danni economici dei cambiamenti climatici, molto diverse – e in palese conflitto – con quella citata
[ix]. Questo è congruente con il carattere di “valutazione” della letteratura che effettua l’IPCC, che nelle stesse pagine si dilunga anche a riassumere i molti limiti di queste stime economiche, limiti del resto citati anche negli scritti di Nordhaus e di altri economisti (limiti che P&R si guardano bene da citare). Nel SR1.5 – sempre facendo riferimento a lavori pubblicati in letteratura – si spiega ad esempio che quelle valutazioni economiche non considerano impatti non economici, quali quelli sugli ecosistemi e i servizi che questi forniscono, quelli derivanti dall’acidificazione del mare, o non considerano le conseguenze legate al superamento delle soglie critiche nel sistema climatico (tipping point), spiegate con dovizia di – terrificanti – particolari nella pagina successiva: destabilizzazione della calotta glaciale della Groenlandia e della Penisola Ovest dell’Antartide, indebolimento della circolazione termoalina, ecc. Giusto per fare un esempio, chi stima i danni economici per un riscaldamento a 3°C o 3,6°C non sta considerando i danni che potrebbero derivare da un aumento del livello del mare di decine di metri che sarebbe innescato da quell’aumento di temperatura. Un aumento che avverrebbe nel giro di molti secoli (e quindi, anche se fosse considerato da alcuni modelli economici che utilizzano tassi di sconto elevati per attualizzare i danni futuri, darebbe contributi minimi ai costi del cambiamento climatico), ma poi durerebbe per molti millenni, per via dell’inerzia e dell’irreversibilità della dinamica della fusione delle calotte glaciali. Nei suoi rapporti l’IPCC si sforza comunque di sintetizzare e far emergere indicazioni dalla letteratura esistente, distillando le principali conclusioni in messaggi chiave, accompagnati da indicazioni sul grado di confidenza in queste valutazioni. La sintesi avviene nel “Sommario” presente nei singoli capitoli e poi nel “Sommario per i decisori politici” di ogni rapporto. Nel Sommario
del capitolo 3 dello SR1.5, capitolo da cui P&R hanno preso la frase citata, si scrive che la soglia della transizione da livelli di rischio moderati a elevati (per quanto riguarda gli impatti economici aggregati) si trova ora tra 1,5 °C e 2,5 °C di riscaldamento globale, a differenza del 3,6 °C stimato del rapporto del 2013, “
a causa di nuove prove su impatti economici globali e rischi per la biodiversità terrestre (media fiducia)”
[x]. Nelle
30 pagine del Sommario per i decisori politici non si riporta alcuna stima di danni economici in termini di riduzione di PIL. L’IPCC si limita a scrivere al punto B.5.5. che i rischi per la crescita economica globale totale dovuti agli impatti dei cambiamenti climatici saranno a fine secolo minori a 1,5°C che a 2°C, e questi impatti saranno maggiori per i paesi tropicali e subtropicali dell’Emisfero Meridionale. In una nota chiarisce che “
Gli impatti sulla crescita economica si riferiscono ai cambiamenti nel prodotto interno lordo (PIL). Molti impatti, come la perdita di vite umane, il patrimonio culturale e i servizi degli ecosistemi sono difficili da valutare e monetizzare”. È quindi singolare che di un rapporto IPCC che descrive in modo drammaticamente efficace la gravità della situazione climatica, i rischi nell’arrivare a +2°C di riscaldamento globale e la convenienza di fermarsi a +1,5°C (altro che +3°C, o addirittura +3,6°C!), sia presa quella specifica frase. Se si legge il rapporto, o anche solo il sommario, è evidente che quella frase non può in alcun modo essere vista come “una stima dell’IPCC” sui danni del riscaldamento globale per scenari così catastrofici di riscaldamento. Quindi il punto è: come mai P&R sono incorsi in un errore così grossolano?
Ho già avuto modo di raccontare gli episodi in cui Francesco Ramella ha negato la gravità del riscaldamento globale[xi], per questo non mi ha sorpreso verificare che la precisa frase citata è utilizzata
negli ambienti negazionisti sui cambiamenti climatici, che la citano fuori contesto (come fatto da P&R) per cercare di convincere che i danni dei cambiamenti climatici non sono così gravi e vengono esagerati,
perché anche l’IPCC dice che al massimo sono l’8.2% del Pil nel 2100 – quindi non è la fine del mondo. È questo un classico degli argomenti delle campagne di disinformazione dei
Mercanti di dubbi, che vogliono convincere i decisori politici che non c’è motivo di agire con decisione contro i cambiamenti climatici.
5. 100 € per tonnellata di CO2. Il prezzo è giusto? No.
Secondo P&R il valore “100 € per tonnellata di CO
2” è “determinato da una scelta politica, quella di limitare l’incremento di temperatura a 1,5 °C”. Attribuiscono la scelta di questo specifico valore ad
un rapporto tecnico preparato da alcuni esperti per la Commissione europea. I quali si guardano bene dal dire che è il valore ottimale, si limitano a scrivere che è il valore medio di quanto hanno trovato in letteratura, relativamente al breve e medio termine (2030), per limitare l’aumento della temperatura a 1.5-2°C (non 1.5 °C quindi)
[xii]. Inoltre, se si considera il lungo termine (2050, fra soli tre decenni), il costo diventa 269 €/tCO2 (intervallo da 156 a 489 €/tCO2). Nel rapporto si spiega perché gli autori preferiscono usare questa metrica (i costi per evitare i danni) rispetto ai costi dei danni, ad esempio perché i secondi sono più difficili da stimare, viste le tante incertezze e i rischi non considerati. Scegliere questa metrica, scegliere di usare il valore medio (anziché ad esempio il 75° o 90° percentile) o scegliere di riferirsi al 2030 anziché al 2050 o al 2100, non è una scelta neutra. Ad ogni modo, secondo P&R, “
Quel valore potrebbe peraltro davvero non essere ottimale. Lo è solo se i costi da sostenere per non superare il target prefissato sono inferiori ai benefici conseguiti”, e se non è ottimale secondo P&R è probabile che sia eccessivo. Il supporto è una (una!) analisi costi benefici in cui si scrive che “
non si può escludere che l’obiettivo da 1,5 ° C superi un test costi-benefici. I costi sono quasi certamente elevati. Le stime dei benefici vanno da molto più in basso a molto più alte”. Conclusione di P&R: “
Dunque, quello che possiamo dire è che “non si può escludere che” quella politica sia efficiente ma potrebbe benissimo non esserlo. In quel caso il valore di 100 € sarebbe troppo elevato”. L’imprecisione regna sovrana. I 100 €/tCO2 non sono relativi ad un obiettivo di +1.5°C, ma di 1.5-2°C (
pagina 65 del rapporto citato da P&R); una differenza molto significativa, perché i costi per limitare l’aumento delle temperatura a 1.5 °C sono molto maggiori, perché 1.5°C è già drammaticamente vicino. Gli scienziati coordinati dall’IPCC hanno scritto circa 700 pagine per spiegare la differenza fra 1, 5 °C e 2°C negli impatti, negli sforzi per raggiungerlo, i benefici e i danni. A P&R basta un articolo per concludere che 100€/t CO
2 potrebbe essere un costo troppo elevato. Non riescono proprio a vedere la possibilità che sia troppo basso.
6. L’inevitabilità della riduzione delle emissioni dei trasporti
Quando ho scritto “
La cosa incomprensibile è perché mai per finanziare le riduzioni di gas serra negli altri settori non potremmo applicare una tassazione in quegli specifici settori”
[xiii] intendevo proprio che dovremmo applicare una tassazione a quegli specifici settori. Quindi sono d’accordo su quanto P&R hanno scritto in merito alla necessità di introdurre un prezzo del carbonio elevato anche in altri settori. L’utilizzo di una patrimoniale per reperire i fondi necessari non è solo un tema di redistribuzione del reddito, tema pure importante. Si possono raccogliere risorse da destinare a politiche incisive di decarbonizzazione. A differenza di P&R, non vedo la tassazione in altri settori come alternativa a quella attuale sui carburanti fossili per il traffico autoveicolare, e reputo una sciocchezza preoccuparsi della riduzione degli introiti statali causati da chi rinuncia ad andare in auto perché sceglie la bicicletta. Nei prossimi 30 anni dovremo fare a meno dei combustibili fossili, anche nel settore dei trasporti, e quindi agli introiti fiscali collegati. Ma porterà molti vantaggi, che andrebbero studiati in modo approfondito, mettendo da parte gli schemi semplificatori, o almeno gli errori. La frase di P&R “
se un automobilista rinuncia ad andare in auto e sceglie la bicicletta, per ogni litro di benzina non consumato lo Stato si priva di 300 euro con i quali potrebbe ridurre un multiplo della CO2 non emessa” contiene un vistoso errore. Un litro di benzina costa 1,4 euro, è impossibile che lo stato ci perda 300 euro se non viene consumato. Ho cercato di capire la possibile origine di questa cifra e ho trovato solo
uno scritto di due anni fa in cui Francesco Ramella aveva scritto che “
l’attuale prelievo sulla benzina equivale a una carbon tax pari a circa 300 dollari per tonnellata di CO2 emessa” e questa era la cifra indicata come l’introito fiscale di cui lo Stato si privava in caso di politiche per la mobilità sostenibile. Suppongo ci sia stato uno scambio fra tonnellata di CO
2 e litro di benzina e fra dollari ed euro, di cui non sono stupito vista l’approssimazione di questi ragionamenti, ma i numeri veri sono molto diversi
[xiv]. Un po’ per questi errori, un po’ per i tentativi visti poco sopra di minimizzare i danni dei cambiamenti climatici, un po’ perché fuori dalla finestra ci sono 37°C, faccio davvero fatica a credere che sia sensata la domanda finale di P&R, se sia etico usare le risorse pubbliche “
per migliorare la qualità della vita invece di impiegarle per ridurre un quantitativo molto maggiore di emissioni”. Non è corretto descrivere il problema della mitigazione del cambiamento climatico come un terreno di contrapposizione fra “migliorare la qualità della vita” e “ridurre le emissioni di gas serra”. Il citato SR1.5 dell’IPCC ha dedicato un capitolo per spiegare i tanti benefici delle politiche climatiche per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile al 2030, molto legati alla qualità della vita. Anzi, se abbiamo qualche possibilità di ridurre le emissioni di gas climalteranti è perché possiamo dimostrare che è possibile costruire un mondo più vivibile e più giusto rinunciando ai combustibili fossili. Quando Alex Langer diceva che
la conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile, parlava della necessità di mostrare questi benefici, già nel 1994.
Conclusione
Gli sudi economici possono dare utili indicazioni su come può essere più conveniente agire per raggiungere obiettivi ambiziosi, ma conviene rifuggire da valutazioni semplificate e di corto respiro, che non riescono a cogliere la prospettiva che abbiamo davanti, quella di una transizione di sistema in cui in tutti i settori sono richieste radicali innovazioni. Vorrei finire con un accenno ad una questione che è sottesa a questo scambio con Marco Ponti e Francesco Ramella, ed è quella dei limiti delle valutazioni economiche. È certo utile valutare le politiche più efficienti, definire il corretto mix di incentivi e disincentivi, mirare in modo oculato i sussidi, la quantità di risorse che conviene spendere per ridurre le emissioni, per adattarsi ai cambiamenti già in atto, o per le altre crisi parallele (e legate) a quella climatica. Ma non bisogna dimenticare che nella questione climatica c’è in gioco molto di più di quanto possa essere tradotto in termini di riduzioni di PIL. Non solo i danni dei cambiamenti climatici non possono essere espressi solo in termini economici, ma il fatto stesso di cambiare il clima può essere considerato moralmente sbagliato da molte persone. Nessun calcolo economico può giustificare la perdita della banchisa artica, la distruzione di tutte le barriere coralline o di interi ecosistemi forestali, un aumento del livello del mare di 5 o 10 metri, un mese con temperature medie sopra i 35 gradi in Val padana. Mentre P&R sono convinti che non vi sia ragione alcuna per ritenere che nei prossimi 20 o 30 anni l’evoluzione del settore dei trasporti possa essere significativamente diversa da quella del passato, il punto chiave è invece che nei prossimi 20 anni dovremo fare qualcosa di molto diverso. Non solo su come ci muoviamo, ma come produciamo l’energia, riscaldiamo le case, coltiviamo il cibo. A questo si riferisce la citazione della frase di Antoine de Saint Exupéry, messa come incipit nel Rapporto speciale dell’IPCC su 1,5°C di riscaldamento globale: “Per quanto riguarda il futuro, non si tratta di prevederlo, ma di renderlo possibile”.
(4 agosto 2020)
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NOTE:
[i] S. Caserini “L’auto non inquinante è un’illusione”, Micromega 5/2020, 156-168
[ii]
Ho scritto: “
Anche se il progresso tecnologico ha permesso riduzioni significative delle emissioni di molti inquinanti, quelle residue sono comunque impattanti sulla salute. Non avremo mai motori a combustione interna puliti, non inquinanti, né a benzina, né tantomeno a diesel”.
[iii]
Fonte: Special Report 1,5° di riscaldamento globale dell’IPCC, par. 3.3.10: la variazione nell’acidità del mare dal periodo preindustriale “
non ha precedenti negli ultimi 65 milioni di anni (alta confidenza) o nei precedenti 300 milioni di anni della storia della Terra (media confidenza)”.
[iv]
M. Ponti, «La mobilità dopo la pandemia: meglio su gomma?»,
MicroMega, n. 4/2020, pp. 125-140.
[v]
I costi esterni sono i costi associati all’utilizzo di un veicolo che ricadono sulla collettività. Oltre ai costi legati all’inquinamento dell’aria o delle variazioni climatiche, sono disponibili
nel rapporto citato le stime legati ai costi esterni legati anche a congestione, rumore, incidenti, estrazione e lavorazione dei carburanti.
[vi]
Fonte dati: ISPRA-Sinanet, Dati trasporto stradale 1990 – 2018. Si noti che per la CO
2 la riduzione delle emissioni medie del parco autovetture circolanti dal 1999 al 2018 è stata dell’1%.
[vii]
Si veda ad esempio D. Jamieson (2014) Reason in a dark time, Princeton University press, capitolo 4.
Keen S. (2020)
The appallingly bad neoclassical economics of climate change. Globalization
[viii]
estratto dal testo di P&R: “
Nel suo più recente paper pubblicato sull’American Economic Review, Nordhaus stima che i costi del cambiamento climatico per un aumento della temperatura di 3°C siano pari al 2,1% del PIL mondiale.
Nello Special Report dell’IPCC si legge (p. 256) che: “Under the no-policy baseline scenario, temperature rises by 3.66°C by 2100, resulting in a global gross domestic product (GDP) loss of 2.6% (5–95% percentile range 0.5– 8.2%)”. Le due stime sono dunque molto simili: 2,1% di riduzione del PIL tendenziale (che sarà un multiplo di quello attuale) per un aumento di 3°C per Nordhaus e 2,6% per un riscaldamento di 3,66 °C per l’IPCC”.
[ix]
Ad esempio, nella frase precedente a quella citata si legge “
M. Burke et al. (2018) used an empirical, statistical approach and found that limiting warming to 1.5°C instead of 2°C would save 1.5–2.0% of the gross world product (GWP) by mid-century and 3.5% of the GWP by end-of-century”. Si noti che in questo studio una riduzione del PIL del 3,5% è prevista solo per un aumento di temperature di +2°C!
[x]
“
In ‘global aggregate impacts’ (RFC4) a transition from moderate to high levels of risk is now located between 1.5°C and 2.5°C of global warming, as opposed to at 3.6°C of warming in AR5, owing to new evidence about global aggregate economic impacts and risks to Earth’s biodiversity (medium confidence).
[xi]
Si veda al riguardo il capitolo “Il clima spiegato dagli economisti”, nella Parte III del mio libro “A qualcuno Piace Caldo”, ora
disponibile gratuitamente sul web.
[xii]
È interessante notare che dal rapporto citato sui costi esterni, P&R citano la frase secondo cui “
Le riduzioni delle emissioni di gas a effetto serra concordate nell’accordo di Parigi si basano sulla prevenzione di aumenti di temperatura superiori a 1,5-2 gradi Celsius. Il superamento di questo livello è considerato troppo rischioso per le generazioni future”. Ma allora Nordhaus, che nel 2007 definiva ottimale la temperatura di 2,8°C, e nel 2018 stima una riduzione di PIL al 2100 senza politiche sul clima “2,1% di riduzione del PIL tendenziale (che sarà un multiplo di quello attuale) per un aumento di 3°C”, sta o no sottostimando i rischi? Perché mai queste generazioni future dovrebbero essere a rischio sopra i 2°C, se la perdita di Pil sarebbe così modesta come dicono Nordhaus e altri economisti? Non sarà perché stanno clamorosamente sottostimando i danni, o non ne stanno conteggiando molti importanti?
[xiii]
La frase completa del mio testo era “
La cosa incomprensibile è perché mai per finanziare le riduzioni di gas serra negli altri settori non potremmo applicare una tassazione in quei specifici settori, anziché prendere le risorse da chi consuma benzina e gasolio inquinando le città e aggiungendo altra CO2 in atmosfera. O perché le risorse per aiutare i paesi a minor reddito a diventare carbon neutral non potrebbero derivare da tassazioni sui grandi patrimoni, giusto per fare un esempio.”
[xiv]
Bruciando un litro di benzina si emettono 2,33 kg di CO
2. Fonte:
Caserini et al., 2020
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