Crisi coronavirus, ciò che l’Europa poteva fare e non ha fatto. Realfonzo: “Alle porte una nuova ondata di austerità”

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Intervista a Riccardo Realfonzo, professore ordinario di economia politica nell’Università del Sannio, dove presiede il Corso di laurea in Economia Aziendale, direttore di "economiaepolitica.it" e promotore del "Monito degli economisti" pubblicato su Financial Times. Al centro dell’intervista, il ruolo e le responsabilità dell’Europa nella gestione della crisi dettata dalla pandemia.

di Daniele Nalbone

Professore, la crisi determinerà un crollo del pil italiano di 8 punti percentuali nel 2020. A questo va aggiunta la riduzione dell’occupazione già in atto e un salto del debito pubblico verso il 160% del pil. In questo scenario, quale futuro attende il nostro Paese?

Da una situazione grave come quella che si profila per il futuro italiano si uscirà o con politiche recessive e deflazionistiche o con spinte all’inflazione. In entrambi i casi, ci troveremo a percorrere sentieri impervi e caratterizzati da forti costi sociali. Pagheremo un prezzo salato per la totale inadeguatezza del quadro delle regole europee.

Andiamo con ordine. A suo avviso le responsabilità dell’Europa esplodono con la crisi del coronavirus?

No. La vicenda dell’Italia nell’eurozona è stata già difficilissima dopo la crisi del 2008. In quella fase, sotto l’incalzare della Commissione europea, il paese si è impegnato nel praticare austerità, realizzando ogni singolo anno, con l’eccezione del 2009, manovre di bilancio in avanzo primario, ponendo cioè l’asticella della spesa pubblica di scopo al di sotto del prelievo fiscale. A questo fine, sono stati tagliati tutti i capitoli del welfare, dalla sanità alla ricerca, e gli investimenti pubblici. L’effetto dell’austerità è stato il blocco della crescita e l’aumento del rapporto debito pil. L’austerità della Commissione ci ha messo in ginocchio e solo gli acquisti di titoli del nostro debito da parte della Banca centrale europea (BCE, ndr) hanno evitato che la crisi del debito deflagrasse.

Ma lei vede solo responsabilità europee nel disastro che sta delineando dell’economia italiana?

No. Ci sono anche nostre responsabilità. Su tutte il cancro dell’evasione fiscale, che non abbiamo voluto estirpare e che oggi non possiamo più permetterci. E poi il disastro delle riforme strutturali, a cominciare da quelle relative al mercato del lavoro, che hanno contribuito a ridurre la competitività del Paese.

Veniamo all’emergenza del presente. Il 13 marzo scorso lei ha promosso un documento, pubblicato dal Financial Times, nel quale propone un piano europeo anti-virus fatto di politiche fiscali coordinate e centralizzazione dei finanziamenti.

Davanti alla crisi drammatica che si preannunciava, destinata a bloccare contemporaneamente l’offerta e la domanda, occorreva procedere in Europa con politiche strettamente coordinate sul piano sanitario, sul piano dei sostegni alle imprese e alle famiglie, sul piano degli investimenti per rimettere in moto l’economia. E, soprattutto, occorrevano finanziamenti centralizzati per evitare nuove asimmetrie e l’esplosione del debito pubblico che avrebbe inevitabilmente portato alcuni Paesi sulla soglia dell’insostenibilità del debito.

A riguardo la proposta centrale è la monetizzazione dei deficit pubblici da parte della BCE.

Sì, la banca centrale può finanziare teoricamente qualunque livello della spesa pubblica. La monetizzazione del deficit è una forma di finanziamento senza costituzione di debito per lo stato finanziato, cui ricorrono altri paesi nel mondo. L’Europa avrebbe dovuto rispondere alla crisi del coronavirus con un piano europeo finanziato dalla BCE. L’unico possibile rischio di questa forma di intervento è l’inflazione, ma nella profonda crisi in cui ci troviamo questo rischio è del tutto assente. D’altronde, la BCE sta immettendo liquidità per arginare gli attacchi speculativi contro il debito di alcuni paesi e non vi è certo pressione inflazionistica. Non credo alla scusa delle difficoltà giuridico-formali, la verità è che non c’è la volontà politica di procedere in questa direzione.

Parlando di misure di sostegno alle politiche anti-crisi come giudica la scelta di respingere la proposta degli eurobond avanzata dall’Italia in favore del recovery fund?

Un errore ulteriore. La proposta italiana consisteva nell’emissione di titoli di debito comune dei paesi membri verso il mercato. Certo, a differenza della monetizzazione dei deficit, questa seconda possibilità non era a costo zero, ma comunque avrebbe potuto permettere di non contabilizzare una crescita del debito pubblico dei singoli paesi.

Il Consiglio europeo ha invece preferito concentrarsi sulla ipotesi del recovery fund, sul quale però al momento regna l’incertezza. Può spiegarci quali sono i rischi e i possibili vantaggi di questo strumento?

Del recovery fund ad oggi non sappiamo quasi nulla. Sembra che si fonderà sulla emissione di titoli da parte della Commissione europea, con un meccanismo di garanzia legato al bilancio dell’Unione. Ciò rischia di spostare tutto al 2021. Inoltre, sembra che si voglia mettere in atto un meccanismo a leva, per cui l’ammontare di cui genericamente si parla, forse millecinquecento miliardi, sarebbe riferito al complesso degli investimenti teoricamente attivabili con meccanismi di garanzia, non al valore delle risorse affettivamente messe a disposizione dei paesi. Infine, non si sa ancora se ci saranno esclusivamente prestiti a carico del debito dei paesi o anche grants che invece non graveranno sui debiti. Solo se la quota di grants fosse molto significativa, da essa potrebbe arrivare quella spinta alla ripresa senza oneri sul debito che è ciò di cui l’Italia ha bisogno.

Per il momento di sicuro ci sono i prestiti della Banca europea per gli investimenti (BEI), il SURE, strumento contro la disoccupazione garantito da tutti gli stati membri, e soprattutto il Meccanismo europeo di stabilità (MES). A riguardo, tra gli altri, Carlo Cottarelli ed Enzo Moavero Milanesi su Repubblica ne hanno sottolineato i vantaggi.

Sì, ma con argomentazioni molto deboli. In primo luogo, il MES può effettuare solo prestiti, che appesantiscono la condizione della finanza pubblica dei paesi che vi fanno ricorso. Per l’Italia l’unico vantaggio sarebbe costituito dal risparmio di interessi rispetto alla emissione di nostri titoli del debito pubblico, sui quali ancora non è possibile fare stime precise perché non si conoscono i tassi a cui sarà disponibile questa nuova linea di credito, ma si tratterà probabilmente di poche centinaia di milioni in un orizzonte temporale di alcuni anni. E poi, come ribadito in una bozza di regolamento della nuova linea di credito che circola in Europa, vi è la clausola prevista dal Two Pack secondo cui chi accede al MES deve sottoporsi a sorveglianza rafforzata da parte della Commissione Europea.

Insomma, si conferma che l’unica azione di rilievo in Europa la sta mettendo in atto la BCE, con il suo programma di acquisti dei titoli del debito pubblico nel mercato secondario. Ma basterà questa azione ad evitare una crisi del debito
italiano?

Il governo prevede che la caduta del pil nel 2020 sarà dell’8% e il debito balzerà solo al 151,8%. In realtà si tratta di previsioni ottimistiche, se confrontate ad esempio con quelle formulate da Goldman Sachs. È chiaro, comunque, che un salto del debito di una ventina di punti percentuali ci porterà in una condizione in cui sarà molto difficile controllare la sostenibilità del debito. E anche se la BCE continuasse con la sua politica di acquisti differenziati dei titoli di debito europei nel mercato secondario, gli oneri del debito pubblico italiano sarebbero asfissianti, quasi il 4% del pil. Viceversa, nel Documento di economia e finanza (DEF) il governo si spinge a ipotizzare un forte rimbalzo del pil nominale al 6,1% nel 2021 e una conseguente discesa del debito sotto il 150% del pil. Uno scenario davvero ottimistico, considerato il quadro complessivamente deludente degli interventi europei. Adottando uno scenario più realistico di maggiore crescita del debito pubblico e minore rimbalzo nel 2021 – come ho fatto in un recente lavoro pubblicato da “Economia e Politica” – si conclude che per stabilizzare il rapporto tra debito e pil nel 2021 potrebbero essere necessari avanzi primari ben superiori al 2%. Insomma, una possibile strada di fronte alla quale ci verremo a trovare, e che certo ci sarà “suggerita” dalla Commissione europea, è una riedizione delle politiche di austerità in forma ancora più pesante. Politiche recessive che arresterebbero del tutto la crescita e ci condannerebbero definitivamente al declino.


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Quali saranno le alternative alle politiche di nuovi e più elevati avanzi primari?

Se dall’Europa non dovesse venire una seria spinta alla crescita non gravata da altri debiti, c’è il rischio che la politica italiana del futuro venga impostata su altre politiche recessive, come la ristrutturazione del debito, il drastico incremento dell’imposizione fiscale, forme di espropriazione di ricchezza (risparmio forzoso). Dall’altro lato, ci sarebbe un’alternativa non meno difficile, l’Italexit, la strada del ritorno alla sovranità monetaria, con la svalutazione, i processi inflazionistici e la possibilità di ripagare il debito in una moneta emessa liberamente dallo stato italiano. Scenari che possono essere gestiti in modo differenziato, auspicabilmente scaricando gli oneri principali sui rentiers e non sul lavoro. Per questa ragione occorrerà rivolgere gli investimenti pubblici verso un nuovo modello di sviluppo, che ruoti intorno alle infrastrutture sociali e al welfare.

In ogni caso, scenari da incubo. Possiamo evitarli in qualche modo?

L’Europa potrebbe ancora evitarli, se solo i paesi del Nord comprendessero gli effetti disastrosi, anche per le loro economie, di una eventuale implosione dell’unione monetaria, e si decidessero a procedere verso un sentiero realmente unitario, cominciando col sostenere energicamente la ripresa e finanziando dal centro le politiche fiscali coordinate anti-crisi. D’altronde, come scrisse saggiamente Nicholas Kaldor nel lontanissimo 1971, “una unione monetaria ed economica è irraggiungibile senza un’unione politica; e quest’ultima presuppone integrazione delle politiche fiscali e non già armonizzazione delle politiche fiscali”.

(2 maggio 2020)



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