Crisi sociale, Recovery fund e il macigno del debito: che autunno ci aspetta
Daniele Nalbone
Professore che autunno attende l’Europa e l‘Italia?
L’Europa è nel pieno di una recessione senza precedenti e anche l’ultimo trimestre dell’anno metterà a segno risultati sideralmente lontani da quelli del 2019, ed è molto probabile che proprio l’Italia registrerà il maggiore calo del pil. Se è vero che i mesi del lockdown sono alle spalle, speriamo definitivamente, è in autunno che il problema sociale emergerà prepotentemente. Molte famiglie e molte imprese hanno resistito sin qui, ma alla lunga i nodi vengono al pettine. D’altronde dallo scoppio della crisi sanitaria si è già perso mezzo milione di posti di lavoro, e questo nonostante il blocco dei licenziamenti. Insomma, il quadro è molto più cupo di quanto previsto ad aprile dal governo, quando si parlava di una caduta del pil dell’8 per cento, e quelle previsioni dovranno essere ampiamente riformulate con la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza, attesa per fine settembre. Le previsioni avanzate dalla Commissione Europea e dell’OCSE, che vedono il pil italiano in caduta di oltre 11 punti percentuali, sembrano molto realistiche. E speriamo che non si arrivi al meno 13 per cento ipotizzato dal Fondo Monetario Internazionale.
Dobbiamo concludere che le misure assunte dal governo non hanno avuto effetto?
Le misure emergenziali introdotte dal governo, dal decreto “Cura Italia” di marzo fino al decreto “Agosto”, erano indispensabili e hanno alleviato l’impatto drammatico della crisi. C’è da dire che quelle misure in molti casi hanno raggiunto in ritardo le imprese e le famiglie, e in alcuni casi si sono rivelate scarsamente selettive, andando a vantaggio anche di imprese che non avevano bisogno di sostegni. Inoltre, l’ammontare complessivo delle risorse complessivamente messe in campo, pari a cento miliardi di euro, per quanto rilevante, non è certo in grado di contenere un crollo del pil così grave.
Per quale motivo la recessione si sta dimostrando così grave nel nostro Paese?
L’impatto del covid-19 è stato molto severo in Italia e poi paghiamo il prezzo delle politiche economiche fallimentari degli scorsi anni, mi riferisco soprattutto alle politiche di austerità e alle famigerate riforme strutturali. L’austerità ha portato allo smantellamento del sistema di welfare, determinando un deficit degli investimenti pubblici rispetto alla media europea di oltre 120 miliardi, tra il 2008 e il 2019. Le privatizzazioni hanno solo fatto la fortuna di pochi e le deregolamentazioni del mercato del lavoro hanno creato una generazione di precari, gli stessi che in gran numero stanno perdendo il posto di lavoro in queste settimane. E tutto ciò ha indebolito il tessuto sociale e produttivo del Paese.
Però ora possiamo contare su una nuova politica economica europea.
In effetti le misure definite in Europa nei mesi scorsi costituiscono a oggi lo strumento principale per impostare una politica di rilancio. La BCE con il programma di acquisto per l’emergenza pandemica, il PEPP, sta aumentando considerevolmente la quota del debito pubblico italiano in suo possesso, contenendo lo spread rispetto ai bund. Il Recovery fund sarà finanziato con una inedita operazione di collocazione di titoli del debito europeo sul mercato e consentirà all’Italia di effettuare investimenti per oltre duecento miliardi tra il 2021 e il 2025. E poi il Patto di Stabilità è stato messo nel congelatore. Novità rilevanti ma ancora insufficienti, per diversi motivi.
Ci spieghi quali.
In primo luogo, bisogna ricordare che dovremo restituire la gran parte delle risorse europee che riceveremo, una parte perché esplicitamente a debito e un’altra come nostro contributo al bilancio europeo. Cosa che non sarebbe accaduta se l’extradeficit europeo fosse stato monetizzato direttamente dalla BCE. È certamente vero che la gran parte dei rimborsi saranno dovuti successivamente al prossimo periodo di bilancio e con interessi contenuti, ma il Recovery fund determinerà comunque una crescita sensibile del debito pubblico italiano. In secondo luogo, l’avere agganciato il piano al bilancio dell’Unione fa sì che a breve arriveranno solo i fondi sociali del SURE, mentre per una anticipazione del Recovery Fund dovremo attendere la primavera o forse l’estate. Infine, anche il volume complessivo delle risorse non è sufficiente.
Ma la Banca d’Italia ha previsto un incremento del pil italiano del 3 per cento, grazie al Recovery Fund.
L’impatto sarà positivo sul pil italiano, soprattutto se le risorse per gli investimenti non saranno sostitutive rispetto a quelle nazionali ma realmente aggiuntive. E soprattutto se il governo non arriverà a proporre alla Commissione Europea un set di investimenti banalmente raccolto presso i ministeri, senza una strategia di politica industriale complessiva e lungimirante. Leggo delle sei “missioni” che il governo vorrebbe perseguire con i fondi europei, dalla digitalizzazione al verde. Tutti ottimi propositi. Ma la mia opinione è che il piano di investimenti da avanzare in Europa dovrebbe partire da una consapevolezza delle strozzature che caratterizzano il sistema produttivo italiano. Abbiamo imprese troppo piccole, che investono ben poco in nuove tecnologie e si affidano generalmente a una competitività da costo, che non investono in lavoro di qualità e formazione del personale, che spesso utilizzano modelli di governance non avanzati. Imprese che si muovono in un contesto scarsamente infrastrutturato, sia dal punto di vista delle infrastrutture materiali che di quelle immateriali. C’è dunque bisogno di un disegno di politica industriale entro cui calare il piano di investimenti. Ma, sebbene ci sia nel governo un positivo mutamento di prospettiva rispetto al ruolo dello Stato e ai dogmi del mercato, di un disegno organico di politica industriale a oggi non c’è traccia. Ciò rischia di rendere meno significativa la spinta alla crescita del Recovery Fund, che in ogni caso non potrà da solo compensare l’effetto drammatico della crisi e tutto il sottoinvestimento del decennio precedente.
Insomma, lei ritiene che l’Italia negli anni prossimi continuerà a perdere terreno rispetto alla Germania e alla Francia?
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Le politiche messe in atto dalla BCE e dalla Commissione Europea non sono sufficienti a innescare processi di convergenza in Europa. Soprattutto l’aumento spaventoso del debito pubblico che si registrerà a fine 2020 diverrà insostenibile nel quadro istituzionale attuale, a meno di nuove e più incisive politiche europee. A fine anno, complice la caduta del pil, l’aumento della spesa pubblica e la riduzione delle entrate fiscali, il debito italiano farà un balzo di oltre quindici punti, andando a superare il 160 per cento del pil. Come dicevo prima, lo stesso Recovery fund aumenterà il nostro debito. Per evitare la crescita continua del debito, soprattutto dopo il 2021, occorrerebbe che il tasso di crescita del pil nominale superasse il costo medio del debito. Ma attualmente non si vedono le condizioni perché ciò accada. In altre parole, dopo la crisi del coronavirus e negli anni a venire c’è il rischio molto concreto che il nostro debito divenga insostenibile.
Sta dicendo che la BCE dovrebbe fare come la FED, rivedendo il suo obiettivo di inflazione e puntando maggiormente alla crescita?
Giudico positivamente la svolta della FED e credo che una politica monetaria finalizzata al pieno impiego e tollerante rispetto a una inflazione anche superiore al 2 per cento sarebbe un bene per l’Europa e in particolare per i Paesi ad alto debito. D’altronde i tassi di interesse reali negativi non possono che aiutarci. Ma resto anche convinto che a cospetto dei profondi squilibri europei, e dell’impatto asimmetrico che sta avendo il coronavirus, la politica monetaria da sola non sia sufficiente. Insomma, credo che servirebbe un altro Recovery fund, ma a totale finanziamento BCE.
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