Pubblichiamo la lettera di una lettrice che critica contenuti e toni dell’articolo “” di Anna Angelucci pubblicato su MicroMega online. A seguire la risposta dell’autrice.
Su MicroMega online è comparso un articolo, datato 12/05/2020 e ripreso dal sito di ROARS, dal titolo “”, il cui tono e il cui contenuto, a dir poco sconcertanti, mi hanno indotta a scrivere queste poche righe. Premetto che da anni mi occupo professionalmente di analisi dei dati delle indagini internazionali della IEA e dell’OCSE sugli apprendimenti e in generale di valutazione in campo educativo e che collaboro in qualità di esperto con l’Istituto Nazionale di Valutazione alle rilevazioni sugli studenti e le scuole italiane. Essendo un collaboratore esterno, non rappresento ufficialmente l’Istituto e dunque intervengo solo a titolo personale per difendere il lavoro di quanti operano al suo interno da un attacco dal quale trasudano astio e livore in un crescendo di pathos emotivo tale da suscitare qualche interrogativo sulle motivazioni profonde di chi l’ha sferrato.
Non entro nel merito delle intemerate lanciate nell’articolo contro l’INVALSI e le sue presunte colpe denunciate con un improbabile richiamo a Popper e un profluvio di espressioni dalla connotazione pesantemente dispregiativa (“ci ammorba”, “inoculare il veleno”, “tronfi sacerdoti dell’INVALSI”, e così via insultando). Mi limito ad osservare che il solo argomento portato a giustificazione dell’anatema scagliato contro l’Istituto è che quest’ultimo, durante la chiusura delle scuole per l’emergenza sanitaria causata dal coronavirus, non è intervenuto nel merito della didattica a distanza né ha fornito alcun suggerimento a questo riguardo a insegnanti, famiglie e studenti, bensì, dopo due mesi di “assordante silenzio”, ha annunciato di voler mettere a disposizione delle scuole e degli insegnanti che vorranno servirsene alla ripresa dell’anno scolastico una serie di prove da utilizzare a scopo diagnostico e di programmazione didattica.
Premesso che è perlomeno curioso recriminare l’inattività di un Istituto di cui si deplora la stessa esistenza, ritenuta inutile e dannosa, vorrei far notare che intervenire nella didattica non è compito dell’INVALSI – cosa che se mai compete all’INDIRE – mentre invece è suo compito, come recitano i decreti istitutivi, predisporre prove di verifica periodiche e sistematiche dei livelli di apprendimento in alcune materie chiave degli studenti italiani.
Le prove INVALSI, pur con tutti i limiti che i test standardizzati hanno, danno indicazioni, basate su consolidate metodologie statistiche, circa le conoscenze e abilità degli alunni dei vari gradi scolari interessati dalle rilevazioni annualmente condotte e non per nulla i dati da esse forniti sono ampiamente utilizzati da ricercatori che operano anche in campi diversi da quello dell’educazione, dall’economia alla sociologia e alla psicologia. Quando vi sia l’esigenza di disporre di informazioni comparabili sui risultati dell’istruzione, il ricorso a prove standardizzate – vale a dire a prove del medesimo contenuto, corrette e valutate con gli stessi criteri così da garantire l’indipendenza dell’esito della valutazione, in cui soltanto consiste la loro “oggettività” – è necessario, dal momento che i giudizi degli insegnanti, come la ricerca ha a più riprese dimostrato, non sono confrontabili.
Attacchi indiscriminati come quello dell’articolo in questione e come molti altri succedutisi in questi anni da quando l’Istituto di Valutazione è stato istituito impediscono di fatto un dibattito serio e razionale sui nodi politici che ruotano intorno alla valutazione degli esiti del sistema d’istruzione, facendo di tutta l’erba un fascio e confondendo piani diversi di discorso che vanno invece tenuti rigorosamente distinti, in particolare il piano tecnico-metodologico della costruzione delle prove e della raccolta dei dati, il solo di cui l’Istituto sia responsabile, e il piano delle scelte politiche, riguardanti le finalità delle rilevazioni e l’uso da farsi dei dati che ne derivano.
Dispiace, per concludere, che una rivista come Micromega, che personalmente acquisto e apprezzo, dia spazio a interventi del genere di quello qui discusso, soprattutto considerando il suo obiettivo programmatico, sintetizzato nel sottotitolo: “Per una sinistra illuminista”.
Angela Martini, Padova
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Gentile Angela Martini,
la ringrazio per la sua lettera, che mi offre una preziosa, ulteriore occasione di riflessione pubblica su un tema così importante.
Argomento principale del mio post era certamente lo sdegno per “l’assordante silenzio” di tutti gli esponenti dell’Istituto Invalsi durante lo svolgimento della didattica a distanza resa necessaria dall’emergenza sanitaria. Uno sdegno inopportuno, a suo avviso, visto che, come lei afferma con un’argomentazione di carattere ‘burocratico’, non è compito dell’Invalsi intervenire sulla didattica, bensì dell’Indire. Non sono d’accordo.
L’Invalsi, come recita lo Statuto pubblicato sul suo sito ufficiale, è un Ente Pubblico di Ricerca (art. 1) che, attraverso le proprie attività di studio e ricerca sul funzionamento dei sistemi formativi, delle politiche e delle prassi educative, la predisposizione e l’implementazione di strumenti di misurazione degli apprendimenti e delle competenze degli studenti e le attività di valutazione delle istituzioni scolastiche e formative da esso coordinate nell’ambito del SNV, promuove il miglioramento dei livelli di istruzione e della qualità del capitale umano, contribuendo allo sviluppo e alla crescita del Sistema d’Istruzione, motore di sviluppo dell’economia italiana e promotore di equità sociale, nel quadro degli obiettivi fissati in sede nazionale, europea e internazionale (art. 2); esplica funzioni di rilevante interesse tecnico-scientifico e promuove collaborazioni con altri enti di ricerca (art. 3); la sua missione comprende attività di ricerca istituzionali, coerenti con i compiti che gli sono assegnati dalla normativa, e attività di ricerca scientifica di più ampio spettro ma sempre riferibili allo sviluppo della qualità dell’istruzione (art. 4).
Qui mi fermo qui per amor di brevità, ma le assicuro che, se lei leggesse lo Statuto dell’Istituto con cui collabora, troverebbe indicati ulteriori impegni e attività, formalmente assunti da Invalsi, legati al miglioramento, al supporto e alla qualità della didattica e del lavoro dei docenti nelle scuole.
Se studio e ricerca sulle prassi educative rientrano dunque a pieno titolo, e per Statuto, nell’ambito delle attività ordinarie di Invalsi, poiché è innegabile che didattica e valutazione sono strettamente collegate, a maggior ragione l’esito di questi studi e ricerche poteva essere d’aiuto in questa dematerializzazione d’emergenza in cui la scuola è stata drammaticamente e improvvisamente catapultata. Ma, al posto di studi e ricerche, al posto di indicazioni e suggerimenti necessari, in un frangente così caotico e diversificato, in cui una voce pedagogica e non docimologica avrebbe potuto davvero fornire un supporto importante, anche solo sotto il profilo emotivo, per centinaia di migliaia di docenti e studenti, sono arrivate proposte di prove diagnostiche attendibili per comparare oggettivamente gli esiti di questi periodo di apprendimento a distanza.
Ma cosa potrà mai comparare oggettivamente Invalsi, a settembre, dopo una improvvisa pandemia? Cosa mai potrà mai dire più di quanto abbia detto l’Istat in queste settimane in merito alle sperequazioni, alle discriminazioni socio-culturali, alla dispersione, alla letterale sparizione nel web di gruppi interi di studenti che questa situazione ha drammaticamente accentuato?
Una batteria straordinaria di test standardizzati da somministrare a settembre, quando ancora non sappiamo neppure se e come a settembre saremo a scuola, serve davvero alla scuola o serve a un Istituto che deve dare senso a sé stesso? E qui mi fermo, per amor di pace.
Nel prosieguo della sua lettera, lei sottolinea due aspetti: “I limiti che i test standardizzati hanno” e la necessità di tenere rigorosamente distinti i diversi piani del discorso, “in particolare il piano tecnico-metodologico della costruzione delle prove e della raccolta dei dati, il solo di cui l’Istituto sia responsabile, e il piano delle scelte politiche, riguardanti le finalità delle rilevazioni e l’uso da farsi dei dati che ne derivano”.
Bene, vorrei sgombrare definitivamente il campo da queste due argomentazioni di rito.
1) I limiti che, per sua stessa ammissione, i test standardizzati hanno, sono tali da rendere ormai impossibile, a più di dieci anni di distanza dall’introduzione di questa rilevazione censuaria, la loro accettazione acritica, anche in considerazione dei perversi effetti retroattivi sulla didattica che i test standardizzati “con tutti i loro limiti”, appunto, hanno purtroppo pervicacemente indotto.
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2) Continuare a distinguere artatamente il piano tecnico dal piano politico significa negare le proprie responsabilità, personali e istituzionali. Ogni Ente di Ricerca, così come ogni singolo ricercatore, ogni singolo insegnante, ogni singolo lavoratore, ogni singolo cittadino è responsabile politicamente (politica viene da polis, ovvero città, spazio comune, collettività) di quello che fa, del perché lo fa, di come lo fa e degli effetti che il suo operato produce. Non esiste alcuna neutralità nei nostri comportamenti, ancorché di natura tecnica. Crederlo e affermarlo è quanto di più ideologico si possa fare. E qui mi fermo, per amor di scienza e coscienza.
Questa responsabilità politica, nel caso dell’Invalsi, è davvero enorme. Come afferma Heinz von Forster nel suo “Sistemi che osservano” (1987), “i test scolastici sono un mezzo per misurare il grado di banalizzazione. Se lo studente ottiene il punteggio massimo, ciò è segno di una perfetta banalizzazione: lo studente è completamente prevedibile e quindi può essere ammesso nella società. Non sarà fonte di sorprese, né di problemi”.
Quanto al mio stile fastidiosamente enfatico, mi perdonerà: la mia asprezza di polemista è direttamente proporzionale al mio profondo dolore di insegnante.
(25 maggio 2020)
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