Da Orwell a “Black Mirror”: la distopia come specchio del reale

Luca Giudici


Nel luglio del 2018, per i tipi di Meltemi editore è stato pubblicato un volume intitolato Il futuro in bilico. Il mondo contemporaneo tra controllo, utopia e distopia. L’autrice, Elisabetta Di Minico, ha conseguito un dottorato in Storia contemporanea all’Università di Barcellona, e il volume in questione è la rielaborazione della tesi stessa, intitolata Antiutopia y control. La distopia en el mundo contemporaneo y actual. La ricerca di Di Minico mira ad analizzare alcuni punti cardine a proposito del rapporto tra storia, narrativa e azione politica.
Da un lato, non si presentano problemi specifici se filosofi o letterati prendono spunto da tematiche che formalmente sarebbero proprie degli storici, e questo avviene ad esempio nel romanzo storico, che è una delle espressioni più diffuse e figlie di questa relazione. Dall’altro lato invece, il processo contrario, cioè una riflessione filosofica o un’opera di finzione narrativa che viene analizzata non solo per la sua valenza principale, ma in quanto oggetto storico, implica il riconoscimento di un valore aggiunto del contenuto stesso. Inoltre, la questione assume ulteriore complessità quando l’oggetto indagato appartiene al contemporaneo, epoca in cui la sedimentazione necessaria alla riflessione critica non è ancora avvenuta, e quindi non vi è ancora un pensiero condiviso su di esso. Questa indeterminazione non è per nulla un elemento negativo in assoluto, dato che il magma interpretativo che circonda il contemporaneo è un segnale di libertà intellettuale. Dove questa manca emergono i regimi totalitari e le interpretazioni univoche del reale.

D’altro canto, se ci imponiamo il rigore di una ricerca storica non possiamo non entrare nel merito del problema. Questo deve essere definito esplicitamente in quanto elemento storico, piuttosto che altro (oggetto narrativo o riflessione filosofica). Sappiamo, grazie a Hayden White, che la storia è prima di tutto una retorica, e la storiografia una pratica discorsiva. Nel nostro caso in particolare, a riprova di questa relazione tra storia e narrazione, l’oggetto di questa indagine, la distopia, come chiosa Di Minico: “è connaturata alla storia”, ne è espressione immediata.

In questa prospettiva l’elemento distopico diventa lo strumento decisivo per comprendere il reale. Così come il romanzo storico vive il passato come metafora del presente, così, in una sorta di metastoria in senso inverso, il distopico diventa l’ombra del futuro sul presente. Perciò, posto che la distopia esiste in quanto oggetto narrativo, e che la riflessione filosofico politica intorno al tema del controllo se ne è appropriata, è possibile – si chiede Di Minico – ricondurre questi temi sotto la cupola del rigore storiografico senza per questo perdere la valenza rivendicativa che gli appartiene?

Questo elemento politico presente nella dissertazione di Di Minico non è scindibile dall’analisi, non può essere visto come un collegato, e non è corretto limitare l’indagine di conseguenza alla sola formalizzazione della storiografia. Di Minico in questo è partigiana, e ha evidentemente un progetto di lavoro chiaro da realizzare e di cui ha piena coscienza. Questo consiste nel dare dignità documentale a oggetti narrativi spesso sottovalutati e non considerati come specchio del reale. Per questo motivo il suo testo si focalizza esplicitamente sugli elementi necessari alla sua tesi, che potremmo dire, rivolgendoci ancora a Hayden White, si muove in un mondo dove alla verità razionalista e moderna della adequatio è subentrata una nebulosa di percezioni e di individualità. Credo che la ricerca intorno a questo aspetto sia il motore che ha spinto Di Minico a dedicare oltre metà del volume all’analisi dei testi del passato, ovvero quegli elementi in cui viene descritto ciò che ci ha condotto fino all’odierna concezione dei concetti di utopia e distopia, evidenziandone le potenzialità rivoluzionarie così come le ampie criticità. Le storie dell’Utopia e del suo pendant, la distopia, sono state narrate in molte occasioni, ma probabilmente la particolarità della riflessione proposta da Di Minico emerge proprio a causa di questo suo essere immersa nel contemporaneo.

Se gli inizi del pensiero utopista – e qui penso a Bacone, Campanella, Erasmo, More – sono i risultati del pensiero di filosofi e di alcuni grandi intellettuali sui generis, uomini in grado di cogliere l’aspetto multidisciplinare del tema, è a partire dall’800 che i romanzieri, a cui – nel contemporaneo – si aggiungono i fumettisti, diventano il canale tramite cui si rappresentano gli aspetti più radicali delle distopie.

L’intero corposo secondo capitolo perciò analizza questo tema, esaminando meticolosamente una lunga serie di testi, da Jack London a Frank Miller, e prendendo spunto da tutti i classici del filone: Orwell (1984), Bradbury (Fahrenheit 451), Atwood (Il racconto dell’ancella), Moore (V for Vendetta), e molti altri. Chi si occupa di questi temi avrà modo di apprezzare la capacità dell’autrice di seguire il filo del suo tema attraverso la storia della letteratura fantastica, a volte anche attraverso collegamenti arditi con ampi salti temporali. L’unione di critica letteraria, analisi filmica e prospettiva politica ne fanno una lettura intrigante e appassionante. In questo contesto, l’obiettivo dell’autore è di seguire una traccia, un percorso carsico, che a volte scompare per poi riapparire, e che manifesta un legame stretto, reiterato nel corso del tempo, tra movimenti politici e ambizioni narrative. La distopia, come forma letteraria, pur guardando al futuro, trova una sponda nel passato, al fine di spiegare il presente, proprio perché ha in sé una propensione alla critica sociale. Questo non deve farci pensare che si riconduca solamente a un elemento didascalico e dottrinale (che comunque è presente ed è centrale), ma molti dei titoli proposti introducono elementi decontestualizzanti rispetto alla situazione descritta, che vanno bel oltre la pura attualità, e che fanno emergere una strategia e un progetto, un’interpretazione univoca, dei valori condivisi.

Come si è detto l’obiettivo di Di Minico è mostrare l’affinità, per non dire l’aderenza esistente tra la finzione narrativa e la realtà storica. Non è necessario qui ripercorrere nel dettaglio questa sorta di bibliografia distopica. Quasi tutti questi titoli sono entrati a pieno titolo nell’immaginario contemporaneo, assumendo un condiviso valore simbolico. La maschera di Guy Faukes (diventata il simbolo di Anonymous) e i mantelli rossi delle Ancelle (adottati anche in Italia dalle donne aderenti a Non Una di Meno) vengono riconosciuti in tutto il mondo e sono così transitati a pieno titolo dall’immaginario al reale. L’obiettivo di Di Minico è così pienamente raggiunto, e il percorso carsico della narrativa distopica si presenta nel contemporaneo come reale, in una sorta di inquietante epifania di mostri che si pensavano sconfitti per sempre.

Se in questo secondo capitolo sono le forme narrative a essere protagoniste, nelle due sezioni finali sono le forme di governo che finiscono sotto la lente di Di Minico, che qui affronta le questioni per cui questo volume ha forse la sua principale raison d’être. La riflessione che emerge alla fine dell’analisi dei testi è perciò proprio relativa alla loro capacità di riflettere il reale o di proporne ipotesi interpretative. In che modo la narrazione distopica è una forma di realismo? È la domanda quindi che lo studioso si deve porre riguarda espressamente, e riguarda il valore storico che questi testi assumono, che è indipendente da quello letterario. Le distopie, soprattutto nel contemporaneo, hanno spesso un grande successo di pubblico. Da cosa dipende? Dalla loro aderenza al reale? Dalla sensibilità dei nervi scoperti della nostra società che vengono toccati in alcuni romanzi, come ad esempio il tema del controllo? Certamente, ma non solo. La potenza indagatrice della distopia è il vero elemento fautore del suo successo. Le distopie fanno emergere gli elementi repressivi nascosti sotto un’apparenza di democrazia. Difatti, se il terzo capitolo è dedicato ai regimi totalitari e repressivi (i poteri dominanti, come vengono definiti), ovvero i luoghi dove il controllo mostra il suo volto più feroce e distruttivo, quello della dittatura, è nel quarto che si parla dei poteri suadenti, ovvero delle forme di dominio espresse nelle democrazie e in generale nelle forme di governo non esplicitamente dittatoriali. Dovunque vi siano forme di controllo si riscontrano anche aspetti distopici, e questi, se anche non hanno l’evidenza del totalitarismo, emergono nell’immaginario. Il controllo si rivela essere soprattutto quello mentale, legato alla produzione di desiderio, alla manipolazione dell’inconscio e della vita stessa, alla gestione delle masse indifferenziate e del corpo sociale. Per entrambi i poteri che qui vengono distinti, uno dei temi centrali è la relazione tra controllo e mass media, dove emerge il forte legame tra le tecniche di persuasione e le forme del control
lo sociale.

Le tecniche finalizzate a produrre consenso hanno sviluppato strategie particolarmente invasive nell’ultimo decennio grazie all’esplosione del fenomeno dei social network, che si sono rivelati uno strumento eccellente per generare movimenti di massa, soprattutto se lasciati nelle mani di un bravo comunicatore. Solo negli ultimi anni sono stati diversi gli scandali dovuti all’emersione di operazioni massicce di vendita di dati riservati a politici o a società di gestione finalizzate a scopi elettorali o commerciali. Nella serie TV distopica Black Mirror o in altre affini il tema della mercificazione dei dati personali è ampiamente trattato, a dimostrazione che, grazie allo sviluppo delle tecnologie, un testo come questo di Di Minico avrebbe necessità di frequenti aggiornamenti, purtroppo. Le ultime elezioni americane, lo sviluppo dei populismi in Europa, la travolgente avanzata delle forze fasciste e razziste anche nel cuore delle democrazie più rodate, per Di Minico non sono altro che la conferma delle più fosche previsioni contenute nelle narrazioni distopiche, e della sostanziale omogeneità esistente sia sul piano mediatico che su quello politico militare tra i poteri dominanti e i poteri suadenti.

Come opporsi allora a questa convergenza di forze? Se le forme del controllo e del dominio sono affini sia quando si appartiene a una società totalitaria sia quando si vive sotto istituzioni che si dicono democratiche, cosa possiamo fare per opporci a questa marea, almeno in queste ultime? Di Minico non ha esitazioni: l’unica forma di liberazione passa attraverso la conoscenza e la memoria. Non dobbiamo mai smettere di studiare il passato, e dobbiamo ripresentarlo attualizzato, continuamente. Solo attraverso la conoscenza e la memoria prende corpo la responsabilità, l’unico mezzo che possa cambiare concretamente il nostro mondo. La responsabilità è ciò che ci permette di sentirci parte di qualcosa, e che può fermare la proliferazione della distopia. Conoscenza, memoria e responsabilità sono perciò le parole chiave per una rifondazione utopica del nostro tempo, affinché le distopie che oggi rispecchiano il reale tornino ad essere “il lato cattivo”, il pendant del “buon luogo”.
(4 giugno 2019)






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