Dal problema etico al problema giuridico del diritto di morire
[…] Sinora ci siamo soffermati sul diritto di morire in senso etico. Adesso è venuto il momento di concentrarsi sul diritto di morire in senso giuridico. Operazione, questa, che presuppone una chiara distinzione dei due ambiti. Infatti, per usare le parole di Patrizia Borsellino:
Quando si parla di diritti […] si corre il rischio di non prestare la dovuta attenzione ad una distinzione fondamentale per una corretta impostazione di ogni discussione in termini di diritti. La distinzione in questione è quella tra diritti in senso morale e diritti in senso giuridico. I diritti, nel primo senso, sono aspettative morali diffuse a livello sociale, e magari già tradotte in domande politiche, che non trovano però ancora la garanzia della loro soddisfazione e del loro accoglimento negli strumenti del diritto. I diritti, nel secondo senso, richiamano, invece, situazioni soggettive riconosciute e garantite da norme giuridiche, nazionali e sovranazionali. [330]
In altri termini, come scrive in modo incisivo Michelangelo Bovero, evidenziando la differenza tra l’ambito delle pretese morali e l’ambito dei diritti positivi:
Le pretese moralmente giustificate, se divenute diritti positivi e non più soltanto morali, non sono più semplici pretese, ma più propriamente o più saldamente diritti: che è quanto a dire che i diritti non sono, o tendono a non essere, pretese vane, o vanificabili. [331]
Tant’è che la cosiddetta “età dei diritti” potrebbe essere caratterizzata come quella in cui una serie di pretese ideali (avanzate in nome e a vantaggio dell’individuo da movimenti politici e filosofici) tendono a diventare diritti positivi giuridicamente riconosciuti e protetti da quell’insieme di norme che costituiscono il diritto oggettivo.
Diritto che, nel nostro caso, appare tuttora contestato da molte parti e al centro di un annoso dibattito internazionale, generatore di una diatriba che non è più soltanto «elitariamente accademica ma si è fatta quotidianamente ed ubiquitariamente concreta». [333] Infatti, esso interessa tanto il dibattito filosofico e giuridico accademico quanto la discussione pubblica, ed è ormai divenuto qualcosa «che sempre più induce ogni coscienza, non importa se favorevole o contraria, a interrogarsi». [334]
Come attesta l’esistenza stessa di questo dibattito, oggigiorno sembra più agevole discorrere di un diritto di morire in sede etica che in sede giuridica, nella quale un “diritto” di questo tipo, al di là della sua sempre più avvertita auspicabilità, stenta a trovare spazio e legittimazione. Tant’è che nel nostro tempo alcune delle maggiori (= più decisive e persistenti) obiezioni al riconoscimento del diritto di morire provengono proprio dai giuristi. Al punto che si è creata una vera e propria spaccatura tra una parte consistente della cultura e dell’opinione pubblica – propensa al riconoscimento di tale diritto – e il carattere “conservatore” di molta parte della legislazione mondiale vigente e della dottrina che ne sta tradizionalmente alla base.
Il concetto sotteso dall’espressione “diritto di morire” è uno dei più discussi nell’ambito del dibattito sull’eutanasia e il suicidio medicalmente assistito. Questo fatto emerge in particolare dalla disamina della più recente letteratura bioetica in lingua inglese: le più importanti riviste filosofiche e mediche americane e britanniche ospitano con una certa frequenza articoli pro e contra il riconoscimento dell’esistenza legale del diritto di morire e concedono anche un certo spazio alla pubblicazione delle repliche ai lettori, alimentando in questo modo il dibattito. In Italia si verifica esattamente l’opposto: nel nostro Paese, infatti, si parla pochissimo del diritto di morire e non sembra esistere un dibattito originale ed “autoctono” sull’argomento. Gli articoli scritti da autori italiani si occupano prevalentemente di studiare la liceità morale della pratica eutanasica e per quanto riguarda invece l’analisi del diritto di morire, si limitano a compiere riflessioni filosofiche (raramente giuridiche) che scaturiscono dalla lettura ed analisi della letteratura internazionale. [336]
Quanto si sta dicendo circa la necessità di occuparsi dell’aspetto giuridico e non solo morale del diritto di morire non significa che l’aspetto etico non sia, o non rimanga, importante e imprescindibile. O che a un presunto pan-eticismo si debba contrapporre un presunto pan-giuridicismo incentrato su una riduttiva sostituzione della bioetica con il biodiritto (comunque si concepisca quest’ultimo). [337]
Significa piuttosto, in prima battuta, che non è più possibile tematizzare in modo soddisfacente i problemi del fine vita senza soffermarsi a riflettere a fondo anche sugli aspetti legali della questione e quindi senza incontrarsi e scontrarsi con i concetti, passati e presenti, del sapere giuridico.
In seconda battuta significa che non solo non è più possi bile riflettere sulle pratiche eutanasiche senza tenere presenti le categorie che il diritto ha storicamente elaborato per gestire questa complessa tematica, ma che il nucleo attualmente più vivo e “strategico” del dibattito in materia più che sul giudizio etico verte ormai sulla legittimazione della morte assistita come realtà giuridica e pratica sociale.
Tanto più, bisogna aggiungere, che chi crede davvero nel diritto di morire non può fare a meno di porsi il problema della sua traduzione pratico-giuridica e socio-istituzionale e quindi di affrontare i problemi connessi alla legalizzazione della morte assistita.
Un diritto di morire non può, in linea di principio, trovare cittadinanza in una società civile e democratica.[339]
E quindi sostiene, al contrario, che è proprio la struttura di una società civile e democratica a implicare il diritto di accomiatarsi volontariamente dalla vita [340] e a giustificare l’idea secondo cui tale diritto, per usare le parole adoperate dalla Consulta di Bioetica sin dagli anni novanta, «debba venir riconosciuto e rispettato dalla società pluralista, in modo analogo all’unanime riconoscimento espresso nei confronti del diritto di vivere». [341]
NOTE
[330] P. BORSELLINO, Bioetica tra “morali” e diritto, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009, p. 304 (2018², p. 422). D’ora in poi saranno riportate soltanto le pagine della nuova edizione aggiornata del 2018. Cfr., ID., Il caso Englaro, sedici anni dopo: verso il riconoscimento di un diritto, “Bioetica. Rivista interdisciplinare”, XVI(2008), n. 1, pp. 72A-81A: 73A.
[331] M. BOVERO, “Diritti e democrazia costituzionale”, in L. FERRAJOLI, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura di E. VITALE, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 235-260: 244.
[332] P. RICCA, Vivere: un diritto o un dovere? Problematiche dell’eutanasia, cit., p. 45.
[333] M. PORTIGLIATTI, “Diritto a morire”, in Digesto delle Discipline Penalistiche, UTET, Torino 1990, pp. 1-10: 3.
[334] E. CATANIA, Vivere a tutti i costi? Eutanasia, dilemma del terzo millennio, Marsilio, Venezia 2011, p. 9.
[335] P. BORSELLINO, Bioetica tra “morali” e diritto, cit., p. 71.
[336] R. BARCARO, Breve rassegna sul diritto di morire, “Bollettino S.F.I.”, (1998), nuova serie n. 163, pp. 7-19: 7-8. Cfr., ID. Eutanasia. Un problema paradigmatico della bioetica, FrancoAngeli, Milano 1998, p. 82 ss.
[337] Per una critica della pretesa di sostituire la bioetica con il biodiritto, o un certo biodiritto, cfr. M. MORI, “Biodiritto e pluralismo dei valori”, in S. RODOTÀ, M. TALLACCHINI (a cura di), Trattato di biodiritto. Ambiti e fonti del biodiritto, diretto da S. RODOTÀ, P. ZATTI, Giuffrè, Milano 2010, pt. III, cap. 10, pp. 437-464. A sua volta, respingendo l’idea del biodiritto come qualcosa di alternativo alla bioetica, P. BORSELLINO, in “Tra cultura e norma”, contenuto nel medesimo volume, precisa che «lo studioso di biodiritto non si contrappone allo studioso di bioetica, ma contribuisce alla realizzazione dell’impresa bioetica con uno specifico approccio – quello giuridico – senza la cui adozione la bioetica rischia di fallire l’obiettivo di incidere significativamente sulla trasformazione dell’etica sociale diffusa» (pt. III, cap. 2, pp. 149-167: 151).
[338] A. SESSA, “Fondamento e limiti del divieto di aiuto al suicidio (art. 580 c.p.): un nuovo statuto penale delle scriminanti nell’ordinanza della Consulta n. 207/218”, in F.S. MARINI, C. CUPELLI (a cura di), Il caso Cappato. Riflessioni a margine dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 2018, prefazione di F. VIGANÒ, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2019, pp. 337-353: 338.
[339] A. PESSINA, Eutanasia. Della morte e di altre cose, cit., p. 62.
[340] Cfr. il cap. 18.
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