All’inizio della Fase 1, la situazione del turismo dal punto di vista dei lavoratori autonomi e del fenomeno dell’overtourism. Proviamo ora a tornare sull’analisi di questa situazione alla luce dei propositi e dei problemi che si porranno nella fase successiva.
Come per altri settori economici, all’inizio dell’emergenza coronavirus è stato subito evidente (o auspicabile) che la particolare congiuntura in cui si stava entrando fosse il momento giusto per ragionare a meccanismo fermo sulla salute, la validità e la speranza di tenuta a lungo termine del sistema turistico, così come di quello della fruizione culturale che a esso parzialmente si sovrappone. Il momento giusto per segnalare con forza, anche, problemi e contraddizioni del settore, in questi mesi tragicamente riproposti e aggravati, certo, ma che erano già impliciti nel sistema stesso. Affrontati i quali in passato, sarebbe forse stato possibile affrontare meglio anche la crisi imminente. Com’è noto, un aspetto più urgente della crisi innescata dal coronavirus, confermato dall’evoluzione delle settimane successive, ha riguardato i danni economici subiti, fin dal primo momento, dal comparto turistico, il quale nel 2018 aveva rappresentato il 13% del PIL, pari a un valore economico di 232,2 miliardi di euro (dati ENIT); tra le conseguenze della cancellazione totale e repentina, già da febbraio, di viaggi e servizi prenotati, c’è stato il dramma personale e collettivo dell’arresto forzato di migliaia di lavoratori, restati a casa senza lavoro anche prima delle campagne #iorestoacasa e delle prescrizioni del
DPCM del 9 marzo.
Un altro aspetto – recepito da molti italiani costretti dall’inattività a elaborare, anche psicologicamente, nuovi e disorientanti scenari – ha riguardato il semplice confronto tra prima e ora, ossia tra i ammirato con un misto di delizia e sgomento nelle suggestive vedute a volo di drone di piazze, scalinate e corsi cittadini abbandonati dagli uomini e di cui l’erba alta, il tarassaco, il trifoglio rosso e il cappero cresciuti tra i marmi antichi e i sampietrini stavano riappropriandosi assieme a famiglie di anatre, caprioli e altre creature a spasso per i marciapiedi delle città (in realtà, altre presenze “rimosse” si muovevano discretamente: fattorini, lavoratori dei servizi essenziali, senzatetto).
Un deserto sublime (non uso a caso questo termine burkiano), che fa pensare alle vetuste, silenziose rovine di un passato grandioso su cui si arrampicano, come parassiti, isolate figurine di straccioni nelle stampe di Giambattista Piranesi; che suscita un desiderio istintivo di essere lì, di conquistare quegli spazi che, come svuotati e tornati vergini, visti in televisione o nelle foto ci sono apparsi inusitati, lontani, nuovi. Esattamente lo stesso impulso che provano i turisti che desiderano e pagano per recarsi in luoghi lontani noti attraverso i media, e che ha contribuito alla nascita del turismo globale di massa.
Un deserto che, però, ha un significato: è il vuoto lasciato dai consumatori; è la riduzione ai minimi termini del moto cinetico del consumo.
I numeri
E’ anche l’involontaria rappresentazione di una situazione generale che si può scegliere di descrivere in molti modi. Dal punto di vista, ad esempio, del trasporto aereo su scala mondiale, la
International Air Transport Association riferisce la cancellazione, fino a giugno, di 4,5 milioni di voli, con una perdita del 55% rispetto allo stesso periodo del 2019, corrispondente a 314 miliardi di dollari; per quanto riguarda il flusso turistico di provenienza internazionale in Italia, il
Bollettino ENIT n. 1 di quest’anno (datato 7 maggio) dichiara: “se la crisi provocata dalla SARS nel 2003 ha avuto un impatto dello 0,4% sugli arrivi globali da turismo internazionale e la crisi economica del 2009 ha visto una riduzione del 4%, le previsioni per il 2020 segnalano cali del 20-30% secondo l’OMT. L’OCSE prevede un ribasso del turismo internazionale del 45-70%. Questi dati sono indicatori di una crisi senza precedenti, che mette in serio pericolo l’industria dell’ospitalità ed i servizi connessi al turismo, dalla mobilità alla cultura”. Sempre secondo ENIT, nei primi quattro mesi del 2020 il traffico aeroportuale internazionale verso l’Italia è diminuito del -64,8%. Per il periodo da giugno ad agosto si conta, in Italia, una percentuale di prenotazioni diminuita del -68,5%.
Considerando tre scenari (uno di base, uno al rialzo e uno al ribasso), i pernottamenti internazionali nel 2020 saranno stimabili tra il -44% e il -72% rispetto ai volumi del 2019, con un calo di 108 milioni di pernottamenti nel 2020 rispetto al 2019, in base all’ipotesi di scenario di base; l’impatto sulla spesa turistica in entrata dall’estero si traduce in un calo previsto di 21 miliardi di euro nel 2020 rispetto al livello del 2019 (scenario di base). Sul mercato domestico si prevedono impatti negativi sui viaggi nazionali nel 2020, stimati tra il -25% e il -45% rispetto ai volumi del 2019 (pari a 13-23 milioni di ospiti). Secondo Assoturismo, il coronavirus “ha cancellato oltre mezzo secolo di turismo”, e alla fine del 2020, se tutto va bene, registreremo livelli di turismo “simili a quelli a metà anni ‘60, quando il mondo era diviso in blocchi e i viaggi aerei erano un lusso per pochi”.
Tornare a livelli simili a quelli degli anni ’60. Forse, più che al boom economico, lo scenario generale rischia di somigliare agli effetti dell’austerity degli anni ’70. Ma, al di là della veridicità del dato, questa è un’immagine che si combina suggestivamente con quella delle nostre città svuotate, con la paura e la fantasia di un ritorno al passato.
Il lavoro e il patrimonio culturale
In questo momento parlare di turismo implica due nodi, solo apparentemente distinti e invece collegati dalla necessità di un riconoscimento e di una immedesimazione di talune categorie di lavoratori del settore con la “materia prima” del turismo stesso (materia considerata, invece, un pretesto per la mobilitazione di grandi masse di clienti), ossia il patrimonio culturale. E, attraverso quest’ultimo, l’immedesimazione del lavoratore con lo Stato che ha il compito di tutelare e promuovere tale patrimonio.
Un nodo è, appunto, quello del lavoro, estremamente frammentato quanto a prerogative e competenze (si pensi alla varietà di servizi di cui si usufruisce in vacanza o durante un viaggio), ma che conta fra le molte figure professionali quella ibrida e un po’ scomoda rappresentata dai tanti storici dell’arte e archeologi prestati al settore come guide turistiche, talvolta divisi tra questo lavoro e l’attività didattica o la ricerca accademica; e talvolta ancora, esponenti (mi riferisco soprattutto alla mia generazione) di un multiforme precariato intellettuale, al quale si approda da classi economiche diverse ma del quale si condividono ansie, rinunce, aspirazioni, interessi, mancanza di garanzie. Una categoria che, anche a causa del mancato riconoscimento a cui accennavo, è abbandonata a una dimensione privatistica che si traduce, per venire a un esempio pratico, nella varietà dei regimi contributivi e previdenziali cui è sottoposta, e nella carenza di tutele e coperture.
Solitamente si tratta, infatti, di lavoratori autonomi a Partita IVA che versano tributi dal 32% al 40% tra INPS e IRPEF e che, dopo la fine del cosiddetto “regime dei minimi”, non hanno diritto ad alcun tipo di agevolazione statale (scarico delle spese mediche, rimborso spese, malattia, congedo parentale, assegni di disoccupazione). Perché, nel gestire la fruizione del patrimonio culturale, lo Stato tratta alcuni tra i suoi cittadini più qualificati in materia, alla cui formazione ha contribuito con il sistema universitario, come imprenditori privati di se stessi, spesso lasciati al cottimo presso grandi agenzie e piattaforme straniere? E altri case studies di questa unione mancata tra cittadini e cosa pubblica potremmo cercare tra gli artisti, gli attori, i musicisti.
L’altro capo è l’interpretazione del patrimonio culturale, la sua individuazione, e di conseguenza la sua gestione, le modalità di fruizione che siamo in grado di offrire. Il turismo, che risponde a una lecita esigenza di conoscere e viaggiare, non dovrebbe essere un’industria, anche se di questa possiamo sfruttare talune metodologie di analisi e programmazione: il turismo dovrebbe essere una modalità complessa di fruizione culturale che presupponga un ragionamento sulla cultura stessa, su cosa si considera tale, sulla sua condivisione, e che certo coinvolge alcuni reparti imprescindibili come l’accoglienza, la ristorazione, i servizi, i quali, però, non dovrebbero essere qualitativamente differenti da quelli pensati per una cittadinanza dotata di diritto alla città come opera, al suo valore d’uso. Ora, tra gli scenari futuri si sente parlare sempre più spesso di un turismo diffuso, decentrato rispetto ai grandi magneti tradizionali. Era un’aspirazione di alcuni illuminati, è diventato ora una necessità; sarà, del resto, la condizione perché si possa rispettare il quanto mai opportuno vademecum comportamentale e organizzativo elaborato da Confcultura per la riapertura di musei e luoghi d’interesse, e che prevede distanziamento e ingressi contingentati.
Scelte
Rimodulare l’offerta turistica e culturale su altri siti, al di fuori di quelli sfruttati a oltranza dall’industria del turismo, sarà necessario affinché disciplinare gli accessi non diventi un motivo scoraggiante di difficoltà e rallentamento. Ma non è affatto semplice, e non si improvvisa: comporta l’individuazione e la predisposizione degli altri siti trascurati, l’organizzazione dell’accoglienza e del trasporto, una volenterosa e costruttiva sinergia tra gli enti locali e le agenzie turistiche. Il turismo si basa su un grande afflusso di acquirenti: per la sola città di Roma, nel 2019, parliamo di oltre 7.5 milioni di visitatori per il Colosseo, quasi 7 milioni per i Musei Vaticani. Sono numeri che hanno consentito a molti di lavorare e vivere, ma che nella pratica quotidiana hanno comportato, in periodi di picco, una concentrazione di persone estremamente spiacevole, ingestibile, anche pericolosa, e certamente al di sotto di standard decenti di qualità dell’esperienza. E dunque: il nostro sistema ha dimostrato, finora, di saper imprimere un’apprezzabile inversione alla sua rotta? Potrei prendere come campione l’ambito circoscritto dell’intera città di Roma, o meglio delle molte Rome dove i sublimi e desolati scenari piranesiani sopra ricordati, con l’assenza di turisti, la vegetazione da Terzo Paesaggio e le apparizioni faunistiche, sono normali anche in tempi ordinari: pensiamo alla linea quasi dritta che unisce per poco più di sei chilometri (una passeggiata a piedi) la chiesa di Santa Bibiana, il cosiddetto Tempio di Minerva Medica, Porta Maggiore con la sua concentrazione strepitosa di oggetti d’interesse, e di lì prosegue .
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Potenzialmente, l’asse di un sistema integrato assai ricco e già servito da trasporto pubblico, ignorato al punto che quando si organizza una grande mostra su Bernini alla Galleria Borghese, a pochissimi chilometri in linea d’aria, si preferisce sottoporre una opera preziosissima dello scultore barocco a un avventuroso e costoso trasloco temporaneo, , che indurre i visitatori ad andarla a vedere nella sua sede abituale che ne offre il palcoscenico ideale, la chiesa di Santa Bibiana per la quale fu scolpita. Ma persino restando nell’area molto più ristretta e circoscritta del solo Colosseo che, come abbiamo visto, attrae milioni di visitatori, abbiamo una risposta negativa: intorno all’anfiteatro, nel raggio di poche decine di metri, c’è il Ludus Magnus, il Parco di Colle Oppio con le sue presenze archeologiche, che versa nelle condizioni che tutti i romani conoscono, il dimenticato Antiquarium del Celio, Santo Stefano Rotondo, e numerosi altri siti storico-artistici e archeologici importanti e ignorati: un grande attrattore come il Colosseo non riesce a irradiare energia e capillarità neanche a così breve distanza.
Lavoro e patrimonio: questi sono alcuni dei temi sul tavolo, disponibili a una riflessione che ci aiuterà a ripartire verso percorsi più sicuri e democratici.
(18 maggio 2020)
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