Dall’overtourism al deserto da coronavirus, gli estremi che si toccano
Mariasole Garacci
In pochi giorni, i primi disastrosi danni economici del COVID-19 si sono abbattuti sul turismo, uno dei settori fondamentali per l’economia italiana, che dà lavoro a 4,2 milioni di persone (Eurostat) e che nel 2018 ha rappresentato il 13,2% del PIL, pari a un valore economico di 232,2 miliardi di euro (Enit). La prima conseguenza è stata la cancellazione pressoché totale e senza rimborso di servizi turistici e viaggi: pochi giorni fa Confturismo e Confcommercio calcolavano 31,625 milioni di turisti in meno e 7 miliardi di euro persi tra il 1 marzo e il 31 maggio. Vedremo se queste cifre sono destinate a salire.
Mentre si richiede a tutta la popolazione di rispettare norme comportamentali che tutelino il sistema sanitario nazionale da un collasso nocivo anche per la stessa economia, è necessario che venga operata un’oculata selezione dei settori prioritari di intervento e destinazione delle risorse. Risale a un lontanissimo 28 febbraio scorso il tavolo convocato dal ministro Franceschini al MiBACT per discutere con le associazioni di categoria sui danni al settore turistico causati dal COVID-19, e negli ultimi giorni il Governo e le istituzioni hanno ripetutamente annunciato l’intenzione di sostenere i lavoratori colpiti più direttamente e che non possono ricorrere allo smart-working. Sarà necessario prevedere sussidi economici per il breve periodo, oltre che il rinvio, se non la cancellazione, dei termini di versamento delle imposte per tutto il 2020.
Come ha scritto Roberto Ciccarelli sul manifesto, “per le partite Iva il governo ha ipotizzato anche un indennizzo di 500 euro per un massimo di tre mesi, oltre alla sospensione di tasse e contributi. Considerata l’eterogeneità delle tipologie lavorative coinvolte, e la pluralità dei loro rapporti lavorativi, è purtroppo possibile che saranno in molti a non essere interessati da una misura che sembra essere insufficiente per contrastare una crisi di lunga durata”. Circola ora in rete l’appello La cultura non viene (mai) dopo con la proposta di estendere il reddito di cittadinanza alle figure del precariato e a quelle del lavoro autonomo nei servizi.
Non voglio, con queste considerazioni, dare l’impressione di credere che la categoria dei lavoratori del turismo e della cultura sia la sola coinvolta dalla congiuntura presente che, come sappiamo, riguarda tutti. Ma questo può essere il momento giusto per segnalare con forza che la situazione attuale non ha fatto che aggravare ed evidenziare problemi del turismo in generale e dei lavoratori autonomi in particolare già presenti e da sempre segnalati. Proseguendo con il caso campione delle guide turistiche (ma si potrebbero analizzare altre professioni), queste sono lavoratori autonomi con regimi vari di Partita IVA che comportano un tributo dal 32% al 40% tra INPS e IRPEF e che non prevedono alcun tipo di agevolazione: scarico delle spese mediche, rimborso spese, malattia, congedo parentale, assegni di disoccupazione. Ora più che mai, questi lavoratori saranno soggetti, inoltre, alla consueta concorrenza sleale dell’abusivismo e a un pericoloso e tentatore dumping sociale interno: fenomeni questi, sui quali è sempre necessario ricevere aiuto, controllo e protezione da parte dello Stato. Proprio in considerazione della incisività del turismo sul PIL italiano, e dunque del contributo dato al benessere di tutto il Paese, dovrebbe essere evidente che chi lo dà non può essere abbandonato a dinamiche volatili né a un mercato del lavoro privo di diritti e garanzie. Auguriamoci che politici ed economisti approfittino del momento per ragionare seriamente su questo.
Ma la battuta d’arresto che tutti gli italiani stanno sostenendo in questi giorni, l’inattività forzata e la riorganizzazione del tempo, devono essere usate anche come un’immancabile occasione per ragionare più in generale sulla nostra socialità, sulle modalità di fruizione del patrimonio artistico e del territorio, consci che non tutto può essere fatto telematicamente e che c’è una parte della nostra vita che ha bisogno della trasmissione orale, del contatto diretto, del corpo, della presenza, della condivisione. In questa riflessione, un peso rilevante ha proprio la grande industria del turismo e del consumo di cultura nelle città e nei luoghi aperti al pubblico. Industria di cui Marco D’Eramo ha fornito una storia e un vivido resoconto nel suo Il selfie del mondo (2017), e che comporta profondi mutamenti del modo di vivere lo spazio urbano e comunitario: li ha studiati attentamente, per quel che riguarda la ricettività e l’economia che attorno ad essa ruota, Sarah Gainsforth in Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale (2019), dove si analizza uno dei modi in cui il capitalismo digitale o delle piattaforme ha influito sulla trasformazione di interi quartieri e città in luoghi merce.
In pochi giorni siamo passati dai fenomeni di overtourism che le cronache da Venezia, da Firenze, da Roma avevano reso noti, al deserto. Con tutto ciò (ne ho appena illustrata una parte) che questo comporta. Difficile non mettere in relazione i due estremi. Sembra che l’incremento del numero di turisti ogni anno orgogliosamente proclamato dal MiBACT, dalle Soprintendenze, dagli studi di settore, rechi intrinsecamente la crisi: un turismo massificato porta certamente molto lavoro, ma è sottoposto per ragioni economiche e culturali a tempi e a modalità esasperati e superficiali, a uno sfruttamento concentrato su alcuni luoghi e immagini icastici e popolari, alla soddisfazione immediata e opportunistica della domanda senza una progettualità a lungo termine che non sia finalizzata alla crescita costante. Questo ha a che fare con fenomeni di globalizzazione molto vasti, il più banale e facile da individuare dei quali è il fatto che alcuni luoghi ed episodi sono divenuti simboli imprescindibili della cultura stessa, trasformandosi in landmarks e must-see. Forse, però, derubricare il desiderio di visitarli a un superficiale e distratto consumismo è ingiusto, e ci ha limitati a un sotteso senso di superiorità nei confronti del consumatore semplice (penso a espressioni come usate pubblicamente). Forse si tratta, invece, di un più complesso e lecito desiderio di appropriazione culturale, di interpretazione del benessere economico conquistato. Un desiderio degno di essere capito, coltivato, educato, ampliato, spostato su altri oggetti e non stigmatizzato da alcuni e cavalcato selvaggiamente da altri. Penso alla possibilità, per fare solo un paio di esempi, di delocalizzare in sedi e succursali di periferia e di provincia opere d’arte importanti dalle grandi collezioni artistiche, facendo prosperare intorno ad esse servizi, accoglienza, lavoro; di portare nella provincia italiana, così sfibrata, la dimensione antropologica di “città” dove si legge, si possono visitare mostre, si può offrire a d abitanti e visitatori stranieri quella vita che nei nostri piccoli paesi sembra sempre “altrove”. Alla necessità di diversificare la proposta turistica, per deviare su altri siti gli insostenibili flussi di visitatori che si concentrano su poche aree oberate da una spietata messa a profitto che trasforma il Colosseo, i Musei Vaticani, il Pantheon e altri due o tre luoghi-mangiatoia, in queste ore paurosamente deserti, in esangui e affollati blockbusters.
Quando l’allarme sanitario sarà passato, chi ha potere di indirizzo politico dovrà ascoltare le istanze finora ignorate, e concepire nuove prospettive. Altrimenti il prossimo virus, il prossimo attentato terroristico, il prossimo scoppio della bo
lla dei tulipani o dei mutui subprime, torneranno a riproporre i problemi di questi giorni come se fossero inediti, e noi torneremo a guardarci intorno spaventati ogni volta che la folla di consumatori si dissipa e ci lascia soli tra le rovine.
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