L’artista americano è presente con tre lavori nella collettiva TBT (To Be Titled, Turn Back Time), inaugurata pochi giorni fa da Magazzino, a Roma. La mostra prevede due appuntamenti, il primo dei quali si concluderà il 15 giugno e comprende opere di Massimo Bartolini, Guillermo Galindo, Nicola Martini, Matteo Nasini e Namsal Siedlecki.
I dipinti su tela di David Schutter (Chicago, 1974) sono il risultato di un’attenta filologia della pratica pittorica, la cui realtà fondamentale -gesto manuale e materia- è estratta dall’immagine procedendo attraverso successive stratificazioni monocrome di colore nero o grigio. Una pittura che ricrea con la distribuzione del colore nel verso della pennellata e con le sfumature date da intensità, strato e sovrapposizione, non soltanto il gesto stesso, ma l’appercezione delle sue qualità intrinseche, sintetizzando così in un unico momento lo sguardo del pittore e quello dell’osservatore che si accosta alla tela fino ad astrarsi dall’insieme della figurazione. Se, dunque, la pittura di Schutter sembra rappresentare un ritorno al fare pittorico, all’immagine, al medium materiale, in realtà, fondendo due momenti distinti dell’intuizione artistica, creazione e percezione, si fa sia osservare che riflettere.
I lavori di Schutter nascono dallo studio della pittura ad olio del passato, da Hals a Corot e Manet, e ci ricordano che le immagini sulla tela non sono soggetti, ma apparenze fenomeniche effimere, inafferrabili, pronte a ritornare nell’indistinto da cui erano provvisoriamente emerse prendendo forma per accumulo o assottigliamento, come addensamenti atmosferici. Da Raffaello con il suo Ritratto di Baldassarre Castiglione, al seicentesco Frans Hals, fino a Piranesi, l’arte non può fare a meno di riflettere, in modi diversi, sui valori del nero. Non parliamo di un nero simbolico, com’era per Malevich, o del vantablack assoluto ed esoterico acquistato da Kapoor, ma di una riflessione sulle sue proprietà pittoriche e potenzialità. Del resto, nessuno dei grandi coloristi del passato, anche i più sfarzosi come Tiziano o Veronese, è stato tale per la varietà cromatica, ma per la consistenza e l’equilibrio del colore e per il dosaggio dei timbri: non immagine, ma materia e azione fino all’astrazione da quella. Nella pittura, la diversità dei colori ha anche la capacità di tendere a fondersi (un carattere enunciato in modo diverso da Gerhard Richter nelle sue foto-dipinto), per acquistare unione nel dosaggio, o nella trasparenza, o nella luce.
In una lettera a suo fratello Theo, Vincent Van Gogh definiva Hals un grande colorista, alla stregua di Rubens, Veronese, Delacroix e Velàsquez, contando nella sua tavolozza non uno, ma ventisette neri. Proseguiva spiegando che il nero (come il bianco) è in pittura la combinazione dei colori, che racchiude in sé le qualità e le declinazioni di ognuno esprimendole in luce, ombra, valore tonale. La pittura di David Schutter eredita con sensibilità queste riflessioni: non nasconde o nega le opere da cui prende le mosse, ma ne riproduce l’intima essenza e il movimento.
David Schutter è nato a Chicago, dove vive e lavora. Ha ricevuto il Rome Prize dell’American Academy in Rome per l’anno 2015-16; ha avuto mostre personali all’Istituto Centrale per la Grafica di Roma, alla Gemäldegalerie di Berlino, alla Scottish National Gallery of Modern Art di Edimburgo, al Museum of Contemporary Art di Chicago, alla galleria Aurel Scheiber di Berlino, alla Sikkema Jenkins & Co. di New York; e alla Rhona Hoffman Gallery di Chicago. Il suo lavoro è stato esposto, inoltre, a documenta14 (2017), alla Glasgow International Biennale, Le Magasin- Centre National d’Art Contemporain di Grenoble, alla David Roberts Art Foundation di Londra, e alla Fondazione Memmo a Roma.