De Benedetti: “Perché gli dico grazie”
di Giovanni Valentini, da Repubblica
ROMA – Le prime parole di Carlo De Benedetti sono incrinate dalla tristezza. "Da anni ormai – dice il presidente del nostro Gruppo editoriale, ricordando l’amico presidente onorario – lui non si occupava più delle questioni quotidiane. Ma si sapeva che era sempre lì ed era un riferimento per tutti, a cominciare da me. In questo momento, sento nel mio animo una grande solitudine: Carlo Caracciolo era un editore, l’unico vero editore che abbia incontrato in vita mia".
A quando risale esattamente la vostra conoscenza?
"A cinquant’anni fa. Era il 1958. Io mi occupavo dell’azienda di famiglia e lui venne a Torino per propormi di acquistare, per qualche migliaia di lire, uno spazio pubblicitario su una specie di Guida Monaci, un annuario che curava per l’Etas-Kompas. Era un uomo bello, elegante, cordiale e allo stesso tempo semplice. Un uomo capace di ispirare subito simpatia".
Da allora, siete stati più soci o più amici?
"Certamente più amici. Poi, negli ultimi trent’anni, Carlo è stato un compagno della mia vita".
Quando avete deciso di mettervi in affari insieme?
"Accadde a metà degli anni Ottanta. Il Gruppo, a parte Repubblica, era in difficoltà, Caracciolo e Scalfari vennero a chiedermi una mano e così sottoscrissi un aumento di capitale dell’Espresso, attraverso un pacchetto di fedi convertibili: in pratica, obbligazioni senza reddito, convertibili alla scadenza in una partecipazione del 15%, senza nessun altro patto. Per la verità, fu una scelta del tutto irrazionale, fatta un po’ per amicizia nei confronti di Eugenio e un po’ per il fascino di Carlo che negli affari perdeva una buona parte del suo spirito romantico".
Sono queste le caratteristiche che spiegano perché intorno a lui ruotavano persone anche molto diverse tra loro?
"Caracciolo era davvero un principe rinascimentale. Aveva quindi una sua corte, composta da persone sagge e colte, ma frequentata ogni tanto anche da qualche gaglioffo. E solo un personaggio come lui, nella sua superiore lievità se lo poteva permettere. Io con lui ho condiviso passioni, delusioni, speranze, sconfitte e vittorie. Ma soprattutto la dedizione totale alla missione del Gruppo".
Il vostro rapporto, poi, è andato avanti fino alla "guerra di Segrate" per la conquista della Mondadori, contesa da Silvio Berlusconi…
"Quello – voglio dirlo chiaramente – fu un torbido imbroglio di corruzione giudiziaria. Eppure, la "guerra di Segrate" cementò l’unione con Caracciolo e Scalfari, il nostro legame di solidarietà. Berlusconi fece di tutto per portarli dalla sua parte. Ma non ho mai avuto il minimo dubbio che né l’uno né l’altro potessero tradirmi".
E Caracciolo come si comportò in quella vicenda? Fu proprio lui a cercare e trovare la mediazione risolutiva di Ciarrapico, uomo di fiducia di Giulio Andreotti.
"Carlo dimostrò allora la sua vera natura di giocatore: di poker e anche di scacchi. Mentre io mi rivolgevo a Mediobanca, guidata a quell’epoca da Enrico Cuccia, lui invece – senza dire nulla a nessuno e certamente a fin di bene – trattava con Ciarrapico. Personalmente, ero molto restio a seguirlo su quella strada. Ma Carlo sosteneva che, per difenderci dall’attacco di Berlusconi, non potevamo servirci soltanto di metodi anglosassoni… Alla fine ebbe ragione lui".
Che cosa cambiò nel Gruppo dopo la "guerra di Segrate"?
"Praticamente, nulla. Il Gruppo fondato da Caracciolo era una bottega rinascimentale, formata da alcuni grandi artisti, a cominciare da Eugenio Scalfari. Tutta la struttura aziendale, in sostanza, poggiava su una cerchia di amici coordinati dal direttore amministrativo, Milvia Fiorani. Poi, a metà degli anni Ottanta, Scalfari si convinse che doveva dotarsi di un manager professionale. Arrivò Marco Benedetto come amministratore delegato e il Gruppo fece un salto di qualità. Ma anche dopo la "guerra di Segrate" continuammo a riunirci nella vecchia mansarda di via Po e a volte sembrava che lo scopo principale del consiglio di amministrazione fosse quello di mangiare insieme la mitica focaccia di formaggio e prosciutto".
Quali erano le doti principali dell’editore Caracciolo?
"Carlo aveva un’ardente passione per questo mestiere, anche se la nascondeva dietro il suo aplomb. Cercava sempre strade nuove per crescere e spesso giocava anche d’azzardo. Gli riconosco, soprattutto, due grandi meriti: il primo è quello di aver stretto un sodalizio complementare, quasi siamese, con Scalfari; l’altro è quello di aver puntato sull’acquisto dei quotidiani locali, con una mossa isolata che allora sembrò una follia e per la quale fu addirittura preso in giro. Ma non è mai stata la follia a soffiare nelle vele di Carlo, il suo cuore era dominato dallo spirito d’avventura".
Nel libro-intervista con Nello Ajello per Laterza, come si legge fin dal titolo, lui si definiva un "editore fortunato". Era proprio così?
"Assolutamente, sì. Fortunatissimo. Era estremamente fortunato nel lavoro, anche in senso economico, patrimoniale. Nella sua vita privata ha sempre preferito il divertimento alla felicità. Io credo che Carlo abbia scelto di essere un uomo solo. Aveva fascino e riscuoteva un grande successo con le donne. Ma credo che l’unico, vero amore della sua vita sia stato quello con la moglie, Violante Visconti di Modrone. Beckett diceva di se stesso: non sono portato per la felicità. Ecco, credo che sia stato lo stesso per Caracciolo".
Che cosa vi ha uniti nel mestiere di editori?
"Direi, innanzitutto, la determinazione: per me, fondata sulla logica e per lui più sull’intuizione. Poi la passione, qualche volta acritica, per il nostro mestiere".
Oltre ai giornali, lui amava anche i giornalisti?
"Non tutti. Alcuni di loro lo divertivano, con altri sapeva divertirsi. Un po’ come faceva Gianni Agnelli con i calciatori della Juventus. A pensarci bene, Carlo amava pochissimi di voi. Lui sapeva anche essere un uomo cinico, aveva il cinismo del giocatore".
Caracciolo e l’avvocato Agnelli, suo cognato. Rispetto reciproco o rivalità?
"Direi, piuttosto, un confronto silente, a distanza: più che altro, sul piano dello charme, del fascino, della personalità".
Fino all’ultimo istante, lui è stato un combattente. Da che cosa derivava questo aspetto del suo carattere?
"Carlo poteva apparire un uomo volage, leggero, ma in realtà aveva principi solidissimi. Dall’età di 16 anni e fino all’altro giorno, in clinica, si sentiva un partigiano nel senso più nobile del termine. Non se ne vantava mai apertamente, ma ogni tanto raccontava di quando era stato condannato a morte dai tedeschi e poi era riuscito a liberarsi. Era un autentico antifascista".
Molti lo chiamavano "il principe rosso".
"Caracciolo aveva senz’altro una certa nostalgia per il comunismo…".
Per il comunismo come ideologia o per il vecchio Pci come partito?
"No, certamente non per l’Unione Sovietica. Ma per l’utopia comunista, sì. Quella era la sua stella polare. Non ha mai avuto molte simpatie per tutto ciò che è venuto dopo il Pci: riteneva che quelle esperienze non avessero un solido fondamento, un set stabile di valori. Il suo cuore batteva per il Pci di Berlinguer. Posso dire che Carlo era più
a sinistra di me".
Voi avete avuto, però, anche alcuni momenti di tensione.
"Uno solo. Quando tre anni fa decisi di assumere la presidenza del Gruppo L’Espresso. Per me, non aveva importanza chi fosse il presidente, lui o io. Fino a quel momento, avevo svolto – per così dire – il ruolo di garante imprenditoriale di due grandi artigiani e artisti, come Caracciolo e Scalfari. Carlo era già malato, aveva da poco compiuto 80 anni, e mi sembrava opportuno che una società quotata in Borsa e impegnativa come il Gruppo L’Espresso rinnovasse il suo vertice".
Questo ha modificato i vostri rapporti personali?
"Niente affatto. Carlo è rimasto fino alla fine un punto di riferimento per tutti noi, me compreso. Abbiamo continuato come negli ultimi trent’anni a parlarci tutte le domeniche al telefono e negli ultimi anni a incontrarci ogni mercoledì alle 9 nel suo ufficio".
Quando vi siete parlati l’ultima volta?
"Mercoledì scorso, mi ha risposto al telefono, dalla clinica. Ho sentito che non c’era più".
E non vi siete più visti?
"Sono andato a trovarlo in clinica venerdì, alle 8 del mattino, ma non sono riuscito a vederlo".
Ora che il presidente onorario non c’è più, il Gruppo riuscirà a conservare il suo spirito originario?
"Le doti dell’uomo non sono replicabili. Il suo stile resterà inimitabile. Le sue convinzioni, però, ci hanno accomunato totalmente e per me è stato naturale stare al suo fianco nel mestiere di editore. Ora io rappresento, come lui, quella figura di garante della libertà e del dna del Gruppo che costituiscono il principale impegno della mia vita di oggi".
Due anni fa Caracciolo è andato in Francia a rilevare una quota di Libération. Che cosa lo spinse, la voglia di un’altra avventura?
"La proposta era stata fatta al Gruppo, io risposi di no. Lui mi disse: ti spiace se ci provo io? Credo sia stata la voglia di un’altra sfida, l’ambizione di dimostrare che era ancora capace di affrontarla".
Qual è il ringraziamento maggiore che Carlo De Benedetti deve a Carlo Caracciolo?
"Aver fondato il Gruppo L’Espresso, un’iniziativa che ha contribuito alla maturazione del Paese. Un esempio raro di libertà. Un posto perbene che permette a chi ci lavora di dispiegare la propria intelligenza".
(16 dicembre 2008)
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