De-frammentare gli habitat: una priorità, anche in Italia
I preziosi servizi ecosistemici garantiti dalla mobilità delle specie animali, così come la stessa sopravvivenza di esse, sono compromessi da una presenza sempre più pervasiva delle infrastrutture umane. L’Italia, in particolare, ha investito pochissimo nelle strutture per evitare gli incidenti stradali causati dagli attraversamenti della fauna selvatica, come i ponti verdi.
MARCO SALVATORI
Siamo sull’autostrada del sole, nella notte tra il 3 e il 4 gennaio di un anno fa, all’altezza di Borghetto Lodigiano, un comune lombardo vicino al confine con l’Emilia. Un’automobile all’improvviso sterza per evitare un ostacolo in mezzo alla strada e finisce nella corsia d’emergenza. Lì sono in sosta altre due auto, al di fuori delle quali sono in piedi i conducenti con le loro famiglie. Uno viene investito in pieno, mentre l’auto in corsa finisce in testa coda e si schianta contro l’altra vettura ferma, scagliandola a quasi 100 metri di distanza. Il bilancio è drammatico: un morto e dieci feriti. Nel mezzo della carreggiata vengono rinvenute le carcasse di due cinghiali adulti, investiti, e il corpo dell’esemplare giovane che era con loro sbalzato in un campo poco lontano. Gli animali avevano scavato un buco sotto la rete di protezione e avevano deciso di avventurarsi sull’asfalto per raggiungere il terreno al di là della strada.
Questo episodio tragico ha profondamente impressionato l’opinione pubblica e scatenato un intenso dibattito che ha però completamente ignorato un aspetto fondamentale della vicenda: gli animali selvatici per loro natura si spostano.
L’IPBES, il comitato scientifico delle nazioni unite per la biodiversità ed i servizi ecosistemici, ha stimato che ad oggi il 75% della superficie terrestre del pianeta sia stata significativamente alterata dall’uomo [1]. In questo contesto, gli habitat idonei per le specie selvatiche si presentano sempre di più come dei frammenti distanti l’uno dall’altro, separati da una matrice territoriale fortemente antropizzata, non adatta ad ospitare le popolazioni animali. Spesso fra una tessera di habitat e l’altra è stata costruita una strada o un’autostrada, sbarrando irrimediabilmente la possibilità di connessione biologica per gli animali terrestri, e di conseguenza interrompendo il flusso di individui e di geni. Si tratta di uno dei principali impatti dell’uomo sulla biosfera: la rete globale di infrastrutture ha frammentato la superficie terrestre in oltre 600.000 parcelle [2].
L’ecologia del movimento
La stragrande maggioranza delle specie animali interagisce con il proprio ecosistema principalmente muovendosi attraverso di esso. Che siano predatori o prede, gli animali selvatici si devono mettere in movimento per ricercare il loro nutrimento, abbeverarsi, relazionarsi con i conspecifici, accoppiarsi, regolare la loro temperatura corporea. Insomma, la motilità è forse la più spiccata caratteristica del mondo animale, in special modo di quello terrestre. Si tratta di un processo talmente importante che esiste un’intera disciplina scientifica ad esso dedicata: l’ecologia del movimento [3]. Abbiamo forse maggiore familiarità con le migrazioni primaverili e autunnali degli uccelli, che possono coprire anche diverse migliaia di chilometri spostandosi tra i siti riproduttivi e quelli di svernamento, ma anche molte specie di mammiferi compiono migrazioni. Dagli ungulati delle Alpi, come cervi e camosci, che scendono di quota in inverno e risalgono in estate, sino alle antilopi saiga che percorrono oltre 1000 chilometri ogni anno per raggiungere i migliori pascoli dell’Asia centrale, esiste fra i mammiferi un ampio ventaglio di distanze percorribili. Gli animali non coprono distanze elevate solamente in corrispondenza delle migrazioni stagionali: anche i fenomeni di dispersione tipici dei giovani individui in cerca di un nuovo territorio o di un compagno possono essere ragguardevoli.
Il 17 Luglio 2011 nei monti Slavnik della Slovenia meridionale, un gruppo di ricercatori sloveni catturò un giovane maschio di lupo di due anni e lo dotò di radiocollare GPS per registrarne i movimenti. Il 20 Dicembre di quell’anno questo giovane lupo, soprannominato Slavc, abbandonò il suo branco ed iniziò a spostarsi verso nord per la prima tappa di un vagabondaggio che lo porterà ad attraversare la Slovenia, l’Austria meridionale e l’Italia orientale. Dopo aver percorso 1176 chilometri in appena 98 giorni, Slavc si è fermato nel Parco Naturale dei monti Lessini, nel veronese, dove ha trovato una compagna con la quale ha fondato il primo branco di lupi dell’Italia nord-orientale dopo secoli, riallacciando la connessione genetica fra la popolazione di lupo appenninica e quella balcanica [4]. Questi predatori sono così ritornati a ricoprire una nicchia ecologica all’interno della complessità delle interrelazioni fra le specie dei sistemi viventi, compreso un rapporto con la specie umana, a volte conflittuale, ma risolvibile attraverso un’oculata gestione.
La storia del lupo Slavc ci mostra come, anche in un continente molto densamente popolato dall’uomo, come quello europeo, gli animali selvatici siano potenzialmente in grado di compiere grandi spostamenti, valicando montagne, fiumi e confini nazionali. Da questa loro capacità dipendono processi ecologici di fondamentale importanza. Come indicato da uno studio pubblicato sulla rivista scientifica PLoS ONE nel 2013, gli erbivori selvatici trasportano i minerali come fosforo e azoto alimentandosi in un habitat e depositando le loro deiezioni in un altro, creando così un flusso di nutrienti dagli ecosistemi più produttivi a quelli meno produttivi, agendo come dei veri e propri distributori di fertilità per i suoli [5]. Il movimento animale è cruciale anche per la dispersione dei semi delle piante zoocore, cioè tutte quelle specie vegetali che fanno affidamento sugli animali per la propria propagazione. Infine, lo spostamento degli individui consente uno scambio genetico essenziale per mantenere in salute le popolazioni selvatiche che, qualora isolate, sono destinate a subire le conseguenze deleterie dell’incrocio fra consanguinei e soccombere.
Le barriere ecologiche
Una ricerca di un gruppo svizzero pubblicata sulla rivista Basic and Applied Ecology nel 2012 ha rilevato una netta discontinuità genetica fra popolazioni di capriolo separate da due autostrade recintate nei pressi della città di Aarau: misurando la variabilità dei geni microsatelliti nel DNA hanno determinato che il flusso genico fra i due lati delle autostrade fosse nullo [6].
I preziosi servizi ecosistemici garantiti dalla mobilità delle specie animali, così come la stessa sopravvivenza di esse, sono compromessi da una presenza sempre più pervasiva e capillare delle infrastrutture umane. Strade e autostrade agiscono come barriere ecologiche spesso invalicabili per gli animali terrestri, segregando le popolazioni selvatiche in vere e proprie isole. Perciò la rete infrastrutturale ha degli effetti sull’ambiente che si estendono ben al di là della superficie occupata dalle carreggiate: il ricercatore di Harvard Richard Forman ha stimato che sebbene la rete stradale degli Stati Uniti occupi meno dell’1% del territorio, i suoi effetti ecologici si estendono su di una area pari al 20% dell’intero paese [7]. Dal momento che l’IPBES prevede che la lunghezza della rete stradale a livello globale raggiungerà i 25 milioni di chilometri entro il 2050 [1], è facilmente intuibile che le barriere artificiali avranno un impatto sempre più profondo sulle comunità biologiche.
Ma il problema non si limita all’impatto ambientale. Quando degli animali selvatici tentano di attraversare una strada vi è inoltre un elevato rischio di incidenti con i veicoli, con le conseguenti perdite di vite umane, a cui si sommano danni sociali ed economici. In uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Conservation Biology due ricercatori olandesi dell’università di Wageningen hanno stimato il numero annuale di collisioni fra veicoli e fauna selvatica in Europa in 507.000, con conseguenze fatali per 300 persone all’anno, e altre 30.000 ferite. Il danno economico annuale di questi incidenti ammonta ad un minimo di un miliardo di dollari [8].
I ponti verdi
Con oltre 160 chilometri di strade ogni 100 chilometri quadrati l’Italia è, assieme a molti altri paesi europei, ai primi posti nella classifica mondiale per densità stradale [9]. A differenza di altre nazioni europee però, l’Italia ha sino ad ora investito pochissimo nelle strutture necessarie ad evitare gli incidenti stradali con la fauna selvatica, le quali al contempo consentono il libero passaggio degli animali. Alcuni interessanti interventi sono stati realizzati, per esempio, lungo la strada statale 336 Magenta-Malpensa e lungo la tangenziale est di Pavia, ma purtroppo queste strutture rimangono ancora rare a livello nazionale.
Esiste un ampio ventaglio di opzioni per garantire l’attraversamento in sicurezza. Per quanto riguarda gli anfibi, che spesso trovano una strada a sbarrare i loro millenari percorsi riproduttivi verso gli stagni, sono molto utilizzati i passaggi sotterranei o “rospodotti”: nei Paesi Bassi ne sono stati realizzati circa 600. Per la meso-fauna, come volpi, tassi, lepri, faine si realizzano dei sottopassi di altezze variabili fra i 3 e i 5 metri e larghezze fra i 12 ed i 25, verso cui gli animali sono direzionati grazie a recinzioni adeguatamente disposte [10]. Fra le strutture più efficaci nel consentire l’attraversamento della fauna vi sono i sovrappassi faunistici, o ponti verdi. Questi manufatti consentono il passaggio dei grandi mammiferi come caprioli, cervi, cinghiali, orsi, lupi e linci, ma al contempo anche quello di moltissime altre specie di dimensioni più ridotte, compresi gli invertebrati. Solitamente si tratta di ponti vegetati con una pianta a forma di clessidra, di una larghezza minima di 15 metri nel punto più stretto e di 50 all’imboccatura, e spesso sono dotati di barriere laterali per minimizzare il disturbo visivo ed acustico sugli animali. In Francia, già nel lontano 1991 erano presenti 125 sovrappassi faunistici, mentre in Germania vi sono 82 Grünbrücken e il governo federale pianifica di costruirne altri 90 entro la fine del 2020 [11]. La Svizzera si è lanciata in un vero e proprio piano di “de-frammentazione” dell’habitat nel 2005: come parte di un ampio progetto di rete ecologica nazionale sono stati identificati i principali corridoi di dispersione della fauna e le barriere più ostiche, che sono state risolte attraverso la realizzazione di sottopassi o sovrappassi, a seconda dei casi [12].
Dato che i sovrappassi hanno un costo variabile fra uno e cinque milioni di euro, è importante accertarsi che siano veramente efficaci nel raggiungere gli obiettivi. L’uso dei passaggi da parte della fauna selvatica sembra essere influenzato da diversi fattori, come la posizione della struttura in relazione ai percorsi naturali, le dimensioni, il design, l’aspetto visivo, la frequentazione degli esseri umani e la presenza di vegetazione agli ingressi [13]. Ad ogni modo, una mole di ricerche è concorde nel certificare che i ponti faunistici sono effettivamente utilizzati da un’ampia gamma di specie, che vengono rilevate attraverso l’utilizzo di fotocamere automatiche ad infrarossi (foto-trappole). Una commissione tecnica scozzese ha stimato nel 2004 che l’investimento finanziario per un sovrappasso faunistico viene ammortizzato in dieci anni, grazie all’eliminazione dei danni economici dovuti alle collisioni fra veicoli e animali [14].
Il valore del patrimonio naturale europeo
La connettività ecologica è una priorità per la Commissione Europea, che nel 2013 ha stilato un piano strategico ad ampio raggio per le cosiddette infrastrutture verdi. Le infrastrutture verdi sono definite come “una rete di aree naturali e seminaturali pianificata a livello strategico con altri elementi ambientali, progettata e gestita in maniera da fornire un ampio spettro di servizi ecosistemici” [15]. L’ossatura di base del reticolo di infrastrutture verdi a livello europeo è costituita da Natura 2000: una rete ecologica istituita nel quadro delle direttive europee Habitat e Uccelli. La rete si estende a oltre 26.000 siti naturali protetti sparsi in tutti gli Stati membri e copre il 18% del territorio terrestre dell’UE e circa il 4% delle acque marine. Natura 2000 è stata creata soprattutto con l’intento di conservare e proteggere specie e habitat fondamentali nell’UE, ma fornisce anche numerosi servizi ecosistemici alla società umana, come il filtraggio delle acque, la mitigazione del clima, la protezione dei suoli dall’erosione, la purificazione dell’aria, e la disponibilità di luoghi ricreativi per le persone. Si stima che il valore di questi servizi ammonti a circa 200-300 miliardi di euro all’anno. Grazie all’operato degli ultimi 25 anni nell’istituzione e consolidamento della rete, la struttura portante delle infrastrutture verdi dell’UE è già una realtà, ma deve essere ampliata con elementi ecologici lineari, come fasce boscate, ambienti perifluviali, siepi, cinture verdi periurbane, che connettano fra loro i siti più isolati e garantiscano il flusso genico delle specie selvatiche. La gestione dei siti della rete deve comunque essere guidata dai principi scientifici della biologia della conservazione, affinché essa raggiunga effettivamente gli obiettivi che si pone. Rispetto alle convenzionali infrastrutture grigie, concepite con un unico scopo, le infrastrutture verdi sono multifunzionali e necessitano di scarsa o nulla manutenzione. Ad esempio, per controllare il rischio di alluvioni la realizzazione di un’area naturale tampone, come un bosco alluvionale, può raggiungere gli stessi risultati di un canale di scarico in cemento, ma a costi più bassi e garantendo al contempo altri benefici, come la mitigazione del clima o la disponibilità di un’area per la pesca ricreativa. In una pubblicazione scientifica uscita su Land Use Policy nel 2016 un gruppo di ricercatori ha analizzato numerosi progetti di infrastrutture verdi, riscontrando che questo termine racchiude una tale diversità di oggetti, che va dalle piste ciclabili, ai giardini urbani, sino alle vere e proprie riserve naturali, da poter essere uno strumento ambiguo per la conservazione della biodiversità. Stanti questi rischi, gli stessi studiosi concludono che le infrastrutture verdi possono comunque essere un’utile risorsa per la conservazione biologica, a patto che gli obiettivi conservativi siano esplicitamente inclusi in fase progettuale [16].
In altre parole si tratta di realizzare, o meglio di ripristinare, una vera e propria infrastruttura vivente, una sorta di sistema circolatorio ecologico, che irrori i sistemi naturali, agricoli e urbani, parallelamente alla rete di infrastrutture artificiali. Nelle arterie di questo apparato scorreranno animali, geni, polline, semi, ife fungine e nutrienti minerali. In questo contesto, la creazione di passaggi faunistici che aggirino l’ostacolo insormontabile costituito dal sistema stradale e autostradale è di importanza cruciale. La realizzazione di questi elementi configura quella che gli anglosassoni chiamerebbero una win-win situation, cioè uno scenario in cui vincono tutti: la biodiversità ne gioverebbe perché vi sarebbero meno animali selvatici uccisi e si ristabilirebbe il naturale flusso di individui e geni fra le popolazioni, e gli esseri umani eviterebbero costosi e a volte fatali incidenti. Cosa stiamo aspettando?
Bibliografia
[1] S.Díaz, J. Settele, E. S. Brondízio E.S., H. T. Ngo, M. Guèze, J. Agard, A. Arneth, …& C. N. Zayas (2019). IPBES Summary for policymakers of the global assessment report on biodiversity and ecosystem services of the Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services. IPBES secretariat, Bonn, Germany.
[3] Nathan, R., Getz, W. M., Revilla, E., Holyoak, M., Kadmon, R., Saltz, D., & Smouse, P. E. (2008). A movement ecology paradigm for unifying organismal movement research. Proceedings of the National Academy of Sciences, 105(49), 19052-19059.
[4] Ražen, N., Brugnoli, A., Castagna, C., Groff, C., Kaczensky, P., Kljun, F., … & Majić, A. (2016). Long-distance dispersal connects Dinaric-Balkan and Alpine grey wolf (Canis lupus) populations. European journal of wildlife research, 62(1), 137-142.
[5] Wolf, A., Doughty, C. E., & Malhi, Y. (2013). Lateral diffusion of nutrients by mammalian herbivores in terrestrial ecosystems. PloS one, 8(8).
[6] Hepenstrick, D., Thiel, D., Holderegger, R., & Gugerli, F. (2012). Genetic discontinuities in roe deer (Capreolus capreolus) coincide with fenced transportation infrastructure. Basic and Applied Ecology, 13(7), 631-638.
[7] Forman, R. T., & Alexander, L. E. (1998). Roads and their major ecological effects. Annual review of ecology and systematics, 29(1), 207-231.
[8] Bruinderink, G. G., & Hazebroek, E. (1996). Ungulate traffic collisions in Europe. Conservation biology, 10(4), 1059-1067.
[9] https://knoema.com/atlas/ranks/Road-density
[10] Bank, F. G., Irwin, C. L., Evink, G. L., Gray, M. E., Hagood, S., Kinar, J. R., … & Sauvajot, R. M. (2002). Wildlife habitat connectivity across European highways (No. FHWA-PL-02-011).
[11] http://www.nabu.de/natur-und-landschaft/naturschutz/deutschland/14468.html
[12] Trocmé, M. (2005). The Swiss defragmentation program–reconnecting wildlife corridors between the Alps and Jura: an overview. eScolarhip
[13] Corlatti, L., Hacklaender, K., & Fredy, F.R. (2009). Ability of wildlife overpasses to provide connectivity and prevent genetic isolation. Conservation Biology, 23(3), 548-556.
[14] Putman, R. J., Langbein, J., & Staines, B. W. (2004). Deer and road traffic accidents: A review of mitigation measures: costs and cost-effectiveness. Report for the Deer Commission for Scotland.
[15] https://ec.europa.eu/environment/nature/ecosystems/strategy/index_en.htm
[16] Garmendia, E., Apostolopoulou, E., Adams, W. M., & Bormpoudakis, D. (2016). Biodiversity and Green Infrastructure in Europe: Boundary object or ecological trap?. Land Use Policy, 56, 315-319.
(10 febbraio 2020)
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