De Magistris: “C’è un disegno eversivo per concentrare tutti i poteri nelle mani di governo e regioni”

Daniele Nalbone

«Siamo stati lasciati in prima linea a contrastare, da soli, la disperazione della gente». Il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, intervistato da MicroMega critica l’operato del governo: «Nella prima fase dell’emergenza abbiamo mostrato una grande responsabilità, accettando un depotenziamento sostanziale e formale dei nostri poteri. Ma in quei mesi è accaduto qualcosa di gravissimo, un corto circuito istituzionale tra governi e regioni. La Costituzione è stata svuotata giorno dopo giorno, dietro lo schermo dell’emergenza sanitaria».

intervista a Luigi De Magistris

Lo stato d’emergenza ha compresso lo spazio decisionale: tutti i poteri sono nelle mani del governo, dei commissari straordinari e dei presidenti di regione. Così i comuni, primi enti di prossimità, si ritrovano senza liquidità e i sindaci sono stati, di fatto, esautorati. La loro funzione politica e di governance è stata annullata. In questa serie di interviste su MicroMega sei sindaci ragionano sul futuro delle amministrazioni locali e del ruolo dei comuni.

Non è solo una questione economica. Non si tratta – solo – di trovare o meno quei tre miliardi richiesti dai comuni per evitare il dissesto. La questione è pienamente politica e, soprattutto, «costituzionale». Lo stato di emergenza ha infatti compresso lo spazio decisionale dei sindaci: da ormai quattro mesi tutto è nelle mani del governo, dei commissari straordinari e dei presidenti di regione. Risultato: i comuni, senza liquidità e in molti casi con debiti pregressi, hanno perso la propria funzione di governance, ridotti alla stregua di un ufficio relazioni con il pubblico. O, per dirla con le parole del sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, che apre questo ciclo di interviste di MicroMega, a «un amministratore di condominio».

Sindaco, è troppo dire che siete stati ormai esautorati dei vostri poteri?

All’inizio ho molto apprezzato una frase del presidente Conte, quando in una delle prime conferenze stampa non appena esplosa l’emergenza, nel citare i sindaci ci definì «sentinelle del territorio». Il problema, dopo quattro mesi, è che se il generale non ascolta le proprie sentinelle, se le abbandona, rischia di perdere la guerra. I sindaci sono l’altoparlante delle proprie comunità, ne conoscono le preoccupazioni, le ansie, le felicità, i sogni. Siamo noi a garantire la coesione sociale. Nella prima fase dell’emergenza abbiamo mostrato una grande responsabilità, accettando un depotenziamento sostanziale e formale dei nostri poteri. Ma in questi mesi è accaduto qualcosa di gravissimo, un corto circuito istituzionale tra governo e regioni a colpi di dpcm (Decreti del presidente del Consiglio dei ministri, ndr) e ordinanze: siamo stati lasciati in prima linea a contrastare, da soli, senza mascherine e senza soldi, la disperazione della gente. E ora che siamo in fase due ci troviamo esautorati dei nostri poteri, con i presidenti di regione addirittura a gestire le nostre attività. È in corso un disegno eversivo dell’ordine costituzionale: il sindaco, eletto direttamente dal popolo, trattato – con tutto il rispetto – come un amministratore di condominio o, nella migliore delle ipotesi, un vicesceriffo del governatore. Dai sindaci, fino a oggi, non c’è stata una sola polemica. Ora, però, è arrivato il momento di suonare l’allarme: se non si riparte nella giusta direzione il paese è destinato a sbriciolarsi. E per ripartire serve restituire centralità ai sindaci: se i comuni cadranno come birilli non ci sarà nessuna ricostruzione.

Come titolo di questa serie di interviste abbiamo scelto «Più poteri ai sindaci!» con un punto esclamativo molto chiaro. Crediamo che in questa fase, ma anche nella normale gestione, i sindaci debbano avere più poteri anche a scapito delle regioni.

Siamo responsabili della salute pubblica dei nostri cittadini ma non abbiamo i poteri per poterla garantire. Siamo responsabili della tenuta sociale della collettività ma siamo stati esautorati. Si fa tanto parlare di stanziamenti per i comuni, cosa ovviamente necessaria, ma il primo problema è proprio la filiera del denaro pubblico che si perde nel lunghissimo viaggio che inizia a Bruxelles, passa per Roma, quindi per le varie regioni per poi finire ai singoli comuni. Per questo da un lato stiamo chiedendo un piano di risorse straordinarie per iniettare liquidità nelle casse comunali, ma dall’altra che ci vengano riconsegnati i nostri poteri. Poteri che sono una responsabilità perché a differenza di un premier, di un ministro o di un presidente di regione, il cittadino sa dove abita Luigi de Magistris. Nel caso di Napoli in quattro mesi di emergenza sanitaria abbiamo perso 250 milioni di euro e, stando così le cose, dal «decreto rilancio» ci torneranno indietro 12 milioni come acconto e una cinquantina come saldo ad agosto. Il segno meno registrato è mostruoso per qualsiasi amministrazione, figuratevi per Napoli che è una città in predissesto, che ha un debito storico derivante dalle varie gestioni commissariali per il terremoto dell’Ottanta o la questione rifiuti. Un debito di cui siamo «vittime» e per il quale, invece, ogni napoletano deve pagare degli interessi allo stato. Vorrei che il premier Conte si rendesse conto che se non abbiamo interrotto la raccolta dei rifiuti, il trasporto pubblico o i servizi è un miracolo laico. O le cose cambieranno rapidamente, o proclameremo la «Repubblica». A questo punto la sfida dell’autonomia la lanciamo noi.

Il premier però ha fatto promesse, a parole, importanti su ulteriori stanziamenti ai comuni.

Conte mi fa sorridere: fa le battaglie contro i vincoli europei ma «in casa» sta assumendo rigidità anche maggiori: ci sta ingabbiando. Serve liquidità, certo, ma chiediamo anche di poter riavere i poteri che, con grande senso di responsabilità, gli abbiamo consegnato per tutelare la salute degli italiani. Ma, per come stanno oggi le cose, di fatto hanno consegnato i nostri poteri ai presidenti di regione. Eppure, dovrebbe essere chiaro che la chiave per ripartire è in mano alle città. Noi siamo pronti a far riempire le strade, a tornare a vivere la città: abbiamo in mente – con le dovute precauzioni – di organizzare iniziative in ogni quartiere. Vogliamo portare artisti in ogni angolo della città, organizzare matrimoni in spiaggia, aprire i parchi, «consegnare» le strade alle librerie, agli artigiani, ai musicisti, perfino ai barbieri e ai ristoratori. Sarebbe un’immagine importante, che farebbe il giro del mondo: territorio e umanità contro il virus. E invece, nell’Italia dello stato di eccezione, il mio compito è misurare la distanza tra un tavolino e l’altro. Ma se è così, sono pronto a togliermi la fascia tricolore e a indossare quella napoletana.

È una minaccia al governo?

No. Sto analizzando la situazione e sto traendo le dovute conseguenze per non far morire Napoli e i napoletani. E, ve lo assicuro, tanti colleghi da nord a sud la pensano come me. Abbiamo davanti tre mostri da combattere: la pandemia sanitaria, la crisi economica e il dramma sociale. Tre fattori che stanno rafforzando il nostro primo nemico, la criminalità. Fino a oggi siamo riusciti a contenere la disperazione sociale, ma bisogna fare attenzione: le organizzazioni criminali hanno liquidità, conoscono il territorio, vogliono riacquistare – come diceva Borsellino – «consenso politico». Forse è già troppo tardi – spero di no – ma se fuori da casa il cittadino non troverà lo stato, state certi che troverà l’usuraio pronto a dargli i soldi per portare a casa il cibo per la propria famiglia. E un sindaco non può accettare passivamente un simile scenario. Tra un governo che affama il popolo e il popolo affamato, il sindaco di Napoli starà sempre dalla parte del popolo affamato.

In queste settimane stiamo assistendo a un continuo scontro tra sindaci e governatori. Non c’è giorno in cui sui giornali non ci sia un botta e risposta tra lei e il presidente della Campania, Vincenzo De Luca. Le chiedo: quale dovrebbe essere – oggi – il ruolo delle regioni?

Il governo sta attuando nel peggiore dei modi il tanto dibattuto «regionalismo differenziato». Usando lo schermo dell’emergenza sanitaria «qualcuno» ha dato vita a un patto – implicito o esplicito – tra stato e regioni. Il premier Conte ha proclamato l’emergenza ma non ha consegnato i poteri
necessari per affrontarla al ministero della Salute, lasciando tutto in mano alle regioni, le stesse regioni che negli ultimi venti anni hanno distrutto il sistema sanitario. Dall’altra parte le regioni hanno mantenuto i poteri scaricando però le responsabilità sulla struttura commissariale. Un gioco delle parti diabolico in cui, nel mezzo, c’è stato il paese, ci sono stati i morti per il virus, i contagiati. Con la fase due non è cambiato niente, anzi, i presidenti di regione hanno addirittura il potere di decidere a che ora devono chiudere i parchi, i cimiteri, i negozi. Stanno sopprimendo i comuni. Eppure, le regioni e il loro potere centralizzato sono i luoghi dove, storicamente, c’è stato il più alto livello di malaffare e corruzione. Anziché rafforzare le autonomie del paese, questo governo sta annichilendo la democrazia partecipativa grazie a un perenne «stato di eccezione» che, con campagne mediatiche, sta facendo ricadere ogni responsabilità di futuri contagi sui cittadini, prima i «runner», ora i «giovani» e la «movida».

Prima ha parlato di «disegno eversivo» in atto. È un’accusa pesante.

Sono i fatti a dimostrarlo. La Costituzione è stata svuotata con Dpcm e ordinanze regionali, una torsione autoritaria. Noi sindaci siamo pronti a immaginare un nuovo paese, ma siamo in gabbia. C’è un disegno dall’alto che non ha niente a che vedere con l’emergenza sanitaria. La domanda che ne consegue è: non è che ci si sta approfittando della situazione per organizzare le campagne regionali a qualcuno?

Chiedendo a sei sindaci queste interviste c’è stata, da tutti, massima disponibilità. Per chi non fa questo mestiere, diciamo che non è una cosa che accade tutti i giorni. Evidentemente abbiamo toccato un problema molto sentito e, soprattutto, più «reale» che «politico».

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Sabato (23 maggio, ndr) c’è stata una conference call alla quale hanno partecipato sindaci di Palermo, Catania, Reggio Calabria, Napoli, Bari, Roma, Firenze, Bologna – anche se Merola all’ultimo non è riuscito a collegarsi – Genova, Venezia, Milano, Torino. In quella conference call c’era il paese. Ebbene, c’è stata assoluta convergenza sul fatto di chiedere al governo di emanare immediatamente una serie di norme per garantire la sopravvivenza ai comuni, cosa di cui tutti i giornali hanno parlato, ma soprattutto di ristabilire l’equilibrio ordinamentale. La nostra prima richiesta non riguarda i fondi ma di ripristinare la democrazia. Nella fase uno l’Anci ha mostrato un grande livello di responsabilità firmando una delega in bianco al governo: mai ci saremmo aspettati che il governo usasse quella delega per sub-delegare i nostri poteri alle regioni. Ora siamo nella fase due. E la fase due deve essere gestita dai sindaci. Lo ripeto: qui qualcuno sta giocando con la democrazia.
(1 giugno 2020)




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