De-radicalizzare un jihadista: un percorso possibile?

Elettra Santori

Radicali e ultraradicali

È possibile de-radicalizzare un jihadista? Ricondurre nell’alveo democratico chi ha sposato la causa del terrorismo islamista? E magari stuprato, ucciso, decapitato nel nome di Allah?

Impensabile rispondere a queste domande senza prima capire cosa si intende col termine “de-radicalizzazione”, e, prima ancora, senza comprendere a monte i significati molteplici e stratificati del suo inverso, e cioè il concetto di “radicalizzazione”.

Chi è il musulmano “radicalizzato”? È l’integralista che sottopone al controllo totalitario della religione non solo i suoi comportamenti sessuali e alimentari, il modo di vestire, i ritmi delle sue giornate, ma la sua intera esistenza interiore ed esteriore? È l’islamista che aderisce ad un progetto politico, oltre che religioso, di trasformazione radicale della società in senso teocratico? O il jihadista che punta a realizzare quella stessa trasformazione sociale, ma ricorrendo a tattiche e metodologie terroristiche? L’ambiguità del termine “radicalizzazione” è tale che esso può con buona ragione venire utilizzato in ognuna di queste occasioni. Nell’uso linguistico, infatti, il termine “radicale” può designare non solo l’islamista che mira all’instaurazione della sharia con metodi più o meno violenti, ma anche il semplice credente ‒ non solo musulmano ‒ che fa una scelta di fede intransigente e senza compromessi col “mondo” e la modernità. Quando la religione diventa il focus della vita di un individuo, impregnandone il pensiero, il linguaggio, il comportamento e le scelte di vita, è legittimo parlare di radicalismo anche se esso non sfocia in una militanza violenta.

La ricerca empirica ha dimostrato che l’adesione all’islam radicale non conduce automaticamente ad azioni terroristiche, e che anzi, tra i fondamentalisti, sono minoritari quelli che finiscono con l’imbracciare le armi contro il nemico miscredente. Il coinvolgimento nel terrorismo è infatti un processo multifattoriale che si origina alla convergenza dei condizionamenti socio-ambientali, dell’assetto psicologico soggettivo, del background personale, e anche del riconoscimento sociale attribuito in certi ambienti alla figura del terrorista/“martire”.

Meglio tenere presente, allora, la differenza tra radicalizzazione genericamente intesa e radicalizzazione violenta, o ultra-radicalizzazione, che identifica specificamente la militanza aggressiva, di tipo estremistico/terroristico. Questa distinzione è indispensabile (seppure non sempre chiara né sufficientemente sottolineata nel dibattito mediatico e nel linguaggio politico), perché confondere chi aderisce ad un islam integralista con un potenziale terrorista può appesantire e fuorviare il lavoro di prevenzione della minaccia terroristica, inducendo le forze dell’ordine a cadere nella trappola dei “falsi positivi”. Inoltre, accuse infondate di coinvolgimento nel terrorismo possono indurre frustrazione, senso di umiliazione e risentimento, che funzionano spesso come precursori dell’opzione jihadista.

Ciò non toglie che anche la radicalizzazione non violenta possa rappresentare un problema per la tenuta democratica della società. Pensiamo soltanto a quanto duramente il fondamentalismo mette alla prova il principio imprescindibile della laicità dello Stato e a quanto l’uso del velo islamico, soprattutto se integrale, incrina il principio dell’uguaglianza di genere sancito dai nostri sistemi democratici. Inoltre, non si può escludere che l’integralismo islamico possa rappresentare un terreno di coltura o di implicito consenso per il terrorismo, benché il passaggio dal fondamentalismo al jihadismo non sia per nulla automatico. Come confrontarsi allora con le istanze identitarie e settarie di un certo islam? O con quei movimenti islamisti che, pur senza sposare la causa jihadista o la metodologia terroristica, promuovono più o meno apertamente l’instaurazione della sharia?

Nella sua bella autobiografia, “Radical. Il mio viaggio dal fondamentalismo islamico alla democrazia”[1], l’anglo-pakistano Maajid Nawaz racconta il suo personale percorso di de-radicalizzazione che lo ha portato dall’essere un ideologo acclamato del movimento islamista Hizb al-Tahrir ad assumere posizioni convintamente liberali e democratiche. Gli obiettivi ‒ non sempre apertamente dichiarati ‒ di Hizb al-Tahrir sono ben illustrati da Nawaz: raggiungere il potere senza ricorrere al terrorismo, ma infiltrando le forze militari, la classe dirigente e il sistema politico, per poi realizzare un colpo di Stato e unificare i paesi a maggioranza musulmana sotto un unico “Stato islamico”, che imporrà «una politica aggressiva di invasione e espansione all’estero, la pena di morte per gli apostati, i “ribelli” e gli omosessuali e un codice di abbigliamento obbligatorio per le donne», oltre che l’amputazione delle mani per i ladri e la lapidazione per le donne adultere. Oggi che la sua vita è interamente votata alle campagne contro l’estremismo, Nawaz promuove un nuovo movimento sociale che sostenga la cultura democratica presso la base dei musulmani, un’«intimidazione civico-democratica», uguale e contraria a quella teocratica dei movimenti islamisti. Non auspica la messa al bando di movimenti come Hizb al-Tahrir (poiché ‒ sostiene ‒ essi ne ricaverebbero solo ulteriore pubblicità e nuovo vigore), ma ritiene che sia meglio creare delle condizioni per cui l’adesione ad organizzazioni del genere diventi un «tabù sociale», come quello che pesa, ad esempio, sul razzismo nominalmente non violento, o sull’omofobia. Isolare l’islamismo affrontandolo sul piano delle battaglie civili, piuttosto che con strumenti repressivi e giudiziari, è la soluzione proposta da Nawaz. Che rischia però di sembrare troppo blanda, di fronte a certi fenomeni di islamizzazione che si registrano in Gran Bretagna, Danimarca, Svezia, ecc: pensiamo alle corti islamiche o alle sharia-zone presenti in alcuni quartieri, dove vige la legge islamica come unica fonte riconosciuta del diritto.

Per quanto concerne la vera e propria radicalizzazione violenta che utilizza tattiche e metodologie terroristiche, la normativa italiana ha ereditato la “legislazione d’emergenza” emanata negli anni Settanta per il contrasto del terrorismo interno, e ha messo a punto nel corso degli anni una serie di leggi che stabiliscono la punibilità: per associazione con finalità di terrorismo internazionale; per chi arruola, e per chi viene arruolato, con finalità di terrorismo internazionale; per chi addestra ad attività terroristiche, come anche per chi viene addestrato o si autoaddestra compiendo atti finalizzati ad azioni terroristiche; per chi organizza viaggi all’estero a scopo terroristico[2]. In particolare, il Decreto Antiterrorismo del 2015 inasprisce le pene se il reato di terrorismo è compiuto attraverso strumenti informatici: questo perché il web conferisce ai reati una portata diffusiva amplissima e potenzialmente incontrollabile.

Per quanto riguarda poi i reati di istigazione e apologia, la normativa italiana prevede un inasprimento della pena se i reati riguardano delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità (con un’ulteriore aggravante se i reati sono commessi attraverso il web); ma perché scatti il reato di
istigazione o di apologia del terrorismo, è necessario dimostrare in entrambi i casi la concretezza del pericolo, e cioè che la condotta istigatrice o apologetica siano effettivamente idonee a turbare l’ordine pubblico e incitare altri a violare la legge penale.

La giurisprudenza italiana si mostra generalmente prudente nel non reprimere le mere posizioni ideologiche di adesione al terrorismo, in un’ottica di salvaguardia della libertà di pensiero e di espressione. Ma è saggio distinguere astrattamente tra il consenso puramente ideologico (non punibile) e la prassi (punibile) finalizzata al terrorismo, quando si parla di jihadismo? E cioè di un’ideologia intrinsecamente violenta, superomistica (non meno di quella nazifascista)[3], che divide il mondo tra puri e impuri, e per la quale l’Occidente è l’arcinemico da combattere seminando il terrore? Diversamente dall’integralismo islamico e dall’islamismo radicale, il jihadismo ‒ in particolare quello che connota gli aderenti allo Stato islamico o ad al-Qaeda ‒ non presenta versioni o configurazioni che non siano sanguinarie e aggressive nei confronti dell’Occidente. Bisognerà riflettere allora su un probabile vuoto normativo della legislazione antiterrorismo, che le Autorità tendono a compensare mediante il ricorso allo strumento delle espulsioni per motivi di ordine pubblico e di sicurezza dello Stato. Dinanzi ai casi di adesione ideologica al terrorismo (mediante tweet, download di video, hate speech, possesso di materiale propagandistico, coinvolgimento diretto nella propaganda, ecc.), si preferisce reagire, piuttosto che col processo penale, mediante l’espulsione amministrativa del cittadino straniero, strumento incisivo e immediato che consente di intervenire anche in presenza di semplici sospetti e di pericolo generico, sfuggente o remoto[4]. Secondo fonti del Viminale, dal primo gennaio 2015 ad oggi sono state eseguite 247 espulsioni di cittadini stranieri sospettati di adesione all’ideologia jihadista. Tra questi, Gafurr Dibrani, kosovaro ventiquattrenne residente nel bresciano che postava video del figlioletto vestito da mujahed col sottofondo di canti inneggianti al martirio, si dichiarava vicino a numerosi terroristi collegati all’ISIS e metteva i like a vessilli e contenuti emblematici dello Stato Islamico. Tutto ciò non è bastato al Tribunale del riesame di Brescia per configurare il reato di apologia del terrorismo, e alla fine Dibrani è stato scarcerato. Ma gli indizi che la Giustizia ha ritenuto insufficienti per condannare il kosovaro sono stati invece ritenuti più che sufficienti dal Ministero dell’Interno per decretarne l’espulsione dal territorio nazionale[5], avvenuta il 30 novembre 2016.

De-radicalizzazione, disindottrinamento, de-reclutamento

Come la “radicalizzazione”, anche la “de-radicalizzazione” è un termine “multilevel”. Indica infatti un processo di reversione dal radicalismo violento che può verificarsi su vari livelli: un individuo può abbandonare sia l’ideologia che la prassi terroristica in favore di una visione del mondo più democratica e pluralistica, o comunque meno conflittuale; oppure può abbandonare la prassi ma non l’ideologia terroristica ‒ e in questo caso è più opportuno parlare di “disengagement”, disimpegno dal coinvolgimento terroristico, piuttosto che di de-radicalizzazione tout court. Il “disimpegno” può avvenire a seguito di esperienze deludenti (leader corrotti, disaccordi sulle priorità tattiche, ecc.) o di cambiamenti intervenuti nella condizione personale del terrorista (carcerazione, formazione di una famiglia). Può anche accadere che l’individuo, pur continuando ad aderire all’ideologia terroristica, smetta di impegnarsi in operazioni terroristiche effettive, e fornisca solo una qualche forma di “supporto” materiale e logistico all’organizzazione. Infine, può anche accadere che sia la stessa organizzazione terroristica a smantellare l’ala militare del movimento, per motivi politici o per il venir meno delle risorse, ecc.

Dunque, come si vede, la de-radicalizzazione e il disengagement possono essere il frutto di percorsi biografici personali e di scelte individuali, come anche di iniziative dall’alto. In quest’ultimo caso rientrano anche quegli “exit program” concepiti dalle Istituzioni governative per favorire l’abbandono dell’ideologia o della prassi terroristica da parte di jihadisti o aspiranti tali. Iniziative che in passato venivano rivolte ad un altro tipo di terrorismo ‒ quello delle Farc, dell’Ira, delle Brigate Rosse (a cui la normativa italiana ha offerto la possibilità di dissociarsi e ottenere riduzioni di pena) ‒ e che da qualche anno conoscono una nuova risonanza in riferimento al terrorismo islamista.

Dalla Francia al Canada, dalla Danimarca allo Yemen e all’Arabia Saudita, sono molti i paesi che hanno studiato e attuato programmi di de-radicalizzazione. E anche qui è necessario fare dei distinguo, perché gli exit program non solo variano da paese a paese, ma anche in base agli obiettivi che si propongono. Se puntano a modificare o sopprimere l’ideologia religiosa che ha condotto un soggetto a imbracciare le armi, allora si parla di “disindottrinamento”. Se invece, più modestamente, puntano a mettere un soggetto in condizioni di non nuocere alla società, inducendolo a rifiutare l’azione violenta senza pretendere la rinuncia ad un’ideologia, allora si parla di “disimpegno” o “de-reclutamento”.

In Arabia Saudita, ad esempio, la riabilitazione dei terroristi passa per un programma di disindottrinamento che mira a ricondurli ad un islam non estremista. I corsi di “rieducazione religiosa” sono tenuti da salafiti pietisti, che perseguono la re-islamizzazione delle società musulmane attraverso una predicazione non violenta, che respinge il concetto di jihad. Ai jihadisti, ritenuti “devianti” rispetto al dettato teologico ufficiale, viene offerta assistenza psicologica, oltre che religiosa, e, alla fine del “trattamento”, anche un aiuto economico per reinserirsi nella società. Le percentuali di riuscita della riabilitazione rilasciate dai responsabili sembrerebbero incoraggianti, ma non tutti i jihadisti sono disposti ad aderire all’exit program, perché considerano gli ulema sauditi inaffidabili, perché al soldo del potere corrotto.

L’approccio comportamentale, invece, sperimentato in alcuni paesi musulmani dell’Asia, mira a modificare soltanto i comportamenti nocivi mediante una serie di contromisure (ricompense/sanzioni) che puntano a neutralizzare la facoltà di nuocere alla società. Non mancano infine i sistemi “misti”, che combinano il lavoro sulle credenze estremiste e il trattamento dei comportamenti sociali aggressivi.

In Francia, il primo centro sperimentale per la de-radicalizzazione ha aperto nel settembre 2016, nel Castello di Pontourny, nella regione della Loira, ma si è rivelato, dopo solo un anno, un’esperienza fallimentare e ha chiuso per mancanza di partecipanti. Il programma di de-radicalizzazione era rivolto a soggetti tra i 18 e i 30 anni in fase di radicalizzazione, disposti su base volontaria a sottoporsi al trattamento, della durata di dieci mesi, e ad incontrare psicologi, psichiatri, educatori speciali e imam per correggere il proprio modo di pensare e di comportarsi. I partecipanti, vestiti in uniforme, dovevano discutere di filosofia, storia, religione e Internet, p
rendere parte ad attività fisiche ed esercitazioni militari, e cantare la Marsigliese: un tipo di rigida routine quotidiana normalmente utilizzato in Francia nei centri di recupero per young offenders. Il centro di Pontourny non ha funzionato, come spiega il criminologo Michael Dantinne, perché «cercare di contro-radicalizzare questi individui esclusivamente attraverso il confronto frontale con i valori democratici è inefficace. Quello che dobbiamo fare, credo, è intervenire alle fonti del problema e sugli sforzi di prevenzione». Inoltre, Dantinne ritiene improbabile che un giovane che respinge la nazione in cui vive presterà ascolto a un imam assunto dallo Stato e ritenuto emissario di un islam-canaglia. Altro limite di Pontourny, è stata la concentrazione di individui vulnerabili in fase di radicalizzazione, che ha sortito un risultato opposto a quello voluto, creando un effetto di “Accademia della jihad”[6].

Al momento, il modello di de-radicalizzazione più apprezzato è quello danese, anche se l’efficacia e la durevolezza dei suoi risultati sono ancora da dimostrare.

Elaborato dall’Università di Aarhus in sinergia con altri attori del territorio (forze di polizia, comunità islamiche, psicologi, strutture scolastiche, mediatori culturali, ecc.), il modello danese[7] si rivolge a persone già radicalizzate, che hanno intenzioni e capacità di commettere crimini violenti e azioni terroristiche, e ai foreign fighters (la Danimarca ne ha esportati 150) che, ritornando in patria, si dimostrano seriamente intenzionati ad abbandonare le traiettorie violente e reintegrarsi nella società.

È importante sottolineare, a scanso di equivoci, che l’exit program non si rivolge a foreign fighters di ritorno che hanno compiuto atti criminali (in tal caso, essi vengono perseguiti in base alla legge danese)[8]. Per partecipare al programma, il radicalizzato viene sottoposto a screening e valutato come non pericoloso dal punto di vista dei rischi per la sicurezza. Inoltre, per evitare che il programma venga usato come una sorta di “nascondiglio” da soggetti intenzionati a compiere atti terroristici, vengono prese severe misure preventive.

I potenziali partecipanti al programma vengono spesso segnalati dalle loro stesse famiglie ad una Infohouse dedicata. Vengono poi contattati personalmente dalla Polizia e, attraverso un dialogo paziente ed accorto, invitati a prendere parte al programma[9]. Una volta aderito al trattamento, al radicalizzato viene assegnato un “mentor”, che dovrà rappresentare al “mentee” le insidie, i pericoli e l’illegalità del percorso radicale violento, aiutandolo a trovare percorsi di inclusione (relativamente agli ambiti famiglia, lavoro, istruzione, tempo libero), e comportandosi come un compagno di allenamento con cui discutere le questioni della vita quotidiana, esistenziali, politiche e religiose.

Oltre al supporto del mentor, al radicalizzato vengono offerti alloggio, consulenza psicologica/terapia e assistenza medica, in vista della reintegrazione nella società, e un aiuto dal punto di vista dell’occupazione/istruzione. Ed è questo uno dei punti più dibattuti del modello danese e che urta maggiormente la sensibilità collettiva: è giusto offrire aiuto, strumenti e risorse economiche a chi è partito (o era intenzionato a partire) per combattere contro gli interessi del proprio paese? Sono, questi, gli inconvenienti della legislazione “premiale”, e cioè di quella normativa d’emergenza con cui gli Stati mirano a incentivare comportamenti socialmente o politicamente utili anche a costo di rinunciare parzialmente all’esercizio della potestà punitiva. Ne è un esempio la cosiddetta “legge sui pentiti” promulgata in Italia nel 1982, che concedeva sconti di pena e benefici processuali a chi si dissociava dalla lotta armata, fornendo informazioni utili agli investigatori, confessando i delitti commessi o adoperandosi per impedirne altri. La differenza tra la nostra “legge sui pentiti” (che in realtà non contiene da nessuna parte le parole “pentiti” e “pentimento”) e l’exit program danese, e che lo Stato italiano, pragmaticamente, non richiedeva il sincero ravvedimento del terrorista che usciva dal gruppo o che collaborava, l’importante era che il suo comportamento esteriore di fattiva collaborazione consentisse di vincere la lotta al terrorismo; mentre invece il “modello danese” sembra entrare nella testa del jihadista per sondarne le reali motivazioni e l’effettiva volontà di reintegrazione sociale: un esempio di rigore civile o una incarnazione dello Stato etico che pretende di verificare (e con quale attendibilità, poi?) le coscienze dei suoi cittadini?

D’altra parte, che fare dei jihadisti di ritorno che non si possono incriminare? Quelli di cui non si può dimostrare la partecipazione a crimini violenti? Non è sempre facile sapere cosa i returnee abbiano compiuto nei teatri di guerra per cui sono partiti. La scelta, secondo i responsabili del modello danese, è tra monitorare il returnee a vita, senza mai avere la certezza che non commetta crimini e non ordisca attentati, oppure farsene carico, investendo risorse materiali, professionali e morali nel tentativo di reintegrarlo nella società.

Prime esperienze di de-radicalizzazione in Italia

A oggi, i foreign fighters partiti dall’Italia sono 129, di cui 117 uomini e 12 donne. I cittadini italiani (o con doppia nazionalità) sono 24. Su 129 gli investigatori sono certi della morte di 42 soggetti. Quelli ritornati in Europa sono 23, di cui 11 tornati in Italia, in gran parte siriani catalogati come oppositori al regime di Bashar al-Assad. Quattro degli 11 ritornati in Italia sono attualmente in carcere[10].

Intervistato dalla Fondazione Icsa sulla presenza di foreign fighters di ritorno sul suolo italiano e sul trattamento di cui sono fatti oggetto da parte delle istituzioni, Lamberto Giannini, Direttore centrale della polizia di prevenzione, ha così risposto[11]: «Ne abbiamo arrestati alcuni che ora sono detenuti, altri sono oggetto di monitoraggio. Altri ancora non hanno fatto parte di formazioni jhadiste, ma è un fenomeno che viene comunque monitorato». Arresto, monitoraggio ed espulsione sono le risposte che l’Italia sta dando al fenomeno jihadista. Di fronte al numero contenuto di foreign fighters e di foreign fighters di ritorno nel nostro Paese, e alla scarsa presenza sul suolo italiano di organizzazioni militanti islamiste (che in altri paesi europei si sono comportate come efficienti hub di radicalizzazione e reclutamento per la jihad), l’Italia non ha ancora sentito l’urgenza di darsi una normativa in materia di de-radicalizzazione. Esiste una proposta di legge a firma del magistrato Stefano Dambruoso et al. in materia di prevenzione della radicalizzazione, approvata dalla Camera ma bloccata dalla conclusione della precedente legislatura, la cui finalità è quella di promuovere e sviluppare, attraverso un piano strategico nazionale, le misure, gli interventi ed i programmi diretti a prevenire fenomeni di radicalizzazione e di diffusione dell’estremismo violento di matrice jihadista, oltre che favorire il recupero e il reinserimento sociale dei soggetti coinvolti.

Concettualmente in Italia siamo ancora agli albori della elaborazione di strategie di de-radicalizzazione, e non esiste ancora un “modello italiano” di exit program compiutamente delineato a livello politico. Vi sono per&ograve
; alcuni casi sperimentali di interventi di de-radicalizzazione: uno riguarda un minore di origine algerina, fermato nell’aprile 2018 al termine di una complessa attività di indagine coordinata dalla Procura per i minori di Trieste, il quale, utilizzando l’applicazione di messaggistica istantanea Telegram, amministrava due gruppi chiusi e diversi canali di propaganda a favore dell’Isis, istigando altri utenti a commettere reati di terrorismo. Nel percorso di de-radicalizzazione, il ragazzo verrà affiancato da un imam perché apprenda una visione più ampia dell’islam.

L’altro ha per protagonista Alfredo Santamato, quarantaduenne camionista di Turi, convertito all’islam e radicalizzatosi a partire dal 2016. Santamato aveva aderito all’islam hanbalita (corrente ultrarigorista dell’islam sunnita) e alla Sharia, e aveva stretto amicizia virtuale con alcuni sospetti jihadisti e altri individui sottoposti a sorveglianza speciale per terrorismo, aveva costretto la moglie a indossare il niqab e aveva rivelato la sua intenzione di far infibulare le figlie. Aveva inoltre commentato l’attentato di Berlino al mercatino di Natale nel 2016 come «un semplice incidente stradale», si era dichiarato d’accordo con la distruzione delle chiese e aveva preconizzato che l’islam moderato sarebbe «finito nel fuoco». Questi elementi sarebbero stati etichettati come “mere posizioni ideologiche” non punibili, se Santamato non avesse anche pubblicato una foto su facebook che lo ritraeva alla guida del suo Tir preannunciando il proprio sacrificio da martire dell’islam. A questo punto, convinti della sua concreta pericolosità, gli inquirenti hanno chiesto al Tribunale per le Misure di Prevenzione l’applicazione dell’obbligo di soggiorno, il ritiro del passaporto e il divieto di connessione internet. Tra le misure di sorveglianza, infine, per il camionista di Turi è stato anche previsto un percorso di de-radicalizzazione con un mediatore individuato dalla Procura, in vista di una sua rieducazione civica. Il percorso prevede lezioni quindicinali sui temi dei diritti costituzionali, dell’uguaglianza dei cittadini nella diversità culturale e religiosa, della condizione della donna e del suo abbigliamento[12]. «Questo è stato un primo incontro – ha detto Santamato alla fine della prima lezione – Abbiamo tirato le linee guida di questo percorso, quindi non posso dire ancora niente sui contenuti. Però credo che sia una cosa positiva perché mi servirà per capire». Nei mesi a venire sapremo se il percorso di de-radicalizzazione produrrà degli effetti positivi nel camionista di Turi. Ma un certo cambiamento, forse opportunistico, si era notato in lui già durante il processo, a cui Santamato si era presentato con la barba da integralista tagliata, dichiarando di aver commesso degli errori e condannando l’Isis e gli attentati terroristici[13].

I programmi di deradicalizzazione implementati già da anni in alcuni paesi, pur necessari nell’ottica di un approccio integrato e non puramente giudiziario all’islamizzazione violenta, non hanno dato ancora risultati certi e misurabili e lasciano aperte alcune questioni importanti, soprattutto nel nostro Paese, dove non è stato ancora elaborato un protocollo di de-radicalizzazione né esiste un ampio dibattito scientifico sull’argomento. La prima questione riguarda i destinatari dei programmi di exit: “il modello danese”, al momento il più accreditato, si applica ai radicalizzati potenzialmente capaci di compiere azioni terroristiche, ma non ai terroristi responsabili di crimini o atrocità, per i quali la pena detentiva è inevitabile. Ciò non toglie che anche il carcere possa essere una sede di sperimentazione e implementazione di programmi di exit su detenuti colpevoli di reati legati al terrorismo jihadista, come già accade in alcuni paesi del mondo, come ad esempio Paesi Bassi, Gran Bretagna, Indonesia, ecc.[14].

Esiste poi un problema di “comunicazione sociale” dei programmi di exit: fino a che punto è opportuno espandere le misure welfaristiche di incentivo alla de-radicalizzazione (assistenza psicologica, mediazione culturale, interazione con un mentor e sostegno economico alla reintegrazione in società) perché la società non le giudichi ingiustamente “premiali” nei confronti di chi ha sposato la radicalizzazione violenta?

Infine, quali tipologie di soggetti sono predisposte ad un’azione di de-radicalizzazione che abbia effettive chance di successo? Non si può sapere né stabilire a priori se un soggetto ultra-radicalizzato o in fase di radicalizzazione violenta reagirà positivamente ad un percorso di riabilitazione finché non gli venga offerta la possibilità di sottoporsi al trattamento, ma nella messa a punto di un programma di exit le aspettative vanno dimensionate alla realtà e alla complessità dei fenomeni di radicalizzazione. Un soggetto come Alfredo Santamato, presumibilmente un esibizionista in cerca di visibilità nell’ambiente angusto di una cittadina di provincia, si è avviato alla de-radicalizzazione ben prima di cominciare il programma di exit, prendendo ufficialmente le distanze dal radicalismo violento già durante l’iter processuale, una volta posto dinanzi alla gravità di un processo penale e ottenuta l’attenzione dell’opinione pubblica. Ma è difficile pensare che il jihadista fanatico, o il leader carismatico che fa proselitismo in carcere o in moschea siano abbordabili da un programma di riabilitazione. La storia esemplare di de-radicalizzazione di Maajid Nawaz ci dimostra che è possibile lasciarsi alle spalle l’islamismo radicale e approdare, nel suo caso attraverso la dolorosa esperienza delle carceri egiziane e la “riconnessione con l’umanità” prodotta dall’incontro con Amnesty International, ad una compiuta adesione ai principi democratici. Ma Nawaz non è mai stato un jihadista, o un estremista violento, e inoltre aveva alle spalle il background di una famiglia pakistana colta, di orientamento non radicale (persino progressista, nel caso di sua madre), i cui insegnamenti, rinnegati per anni, hanno potuto riaffiorare nella sua coscienza e sollecitarlo a riappropriarsi di un islam pacifico.

Si può ipotizzare una distinzione tra livelli di radicalizzazione violenta ancora reversibile e recuperabile (come ad esempio i casi in cui l’ultra-radicalizzazione è il frutto di deprivazione socio-economica, depressione da inferiorità, ferite narcisistiche, vuoto identitario e di appartenenza, ricerca di esperienze eccitanti o avventurose, o anche slancio altruistico verso popoli considerati oppressi, ecc.) e altri, superiori livelli di coinvolgimento in cui il fanatismo e la presa ideologico-religiosa totalitaria possono impedire l’apertura di finestre di dialogo e di recupero. In attesa di risultati misurabili e incontrovertibili dei modelli di de-radicalizzazione implementati a livello internazionale, sarà bene accompagnare la sperimentazione sugli exit program con interventi di prevenzione della radicalizzazione, unanimemente considerati la risposta prioritaria al contagio della violenza islamista.

NOTE

[1] Carbonio Editore, Milano, 2018. L’autobiografia di Nawaz racconta la sua vita dall’infanzia a Southend all’adolescenza vessata dal razzismo ambientale e istituzionale, fino all’adesione reattiva all’islamismo radicale, abbandonato dopo la devastante esperienza detentiva nelle carceri egiziane e l’incontro con Amnesty International.

[2] Per una ricognizione completa della normativa antiterrorismo, cfr. S. Dambruoso, Jihad. La risposta italiana al terrorismo: le sanzioni e le inchieste giudiziarie, DIKE Giuridica Editrice, Roma, 2018.

[3] Non a caso Fethi Benslama, psicanalista che si occupa di de-radicalizzazione, parla del jihadista come di un aspirante “supermusulmano”. Cfr. Un furioso desiderio di sacrificio. Il supermusulmano, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2017.

[4] Secondo alcuni autori, lo strumento amministrativistico dell’espulsione dello straniero, che nelle attuali strategie di contenimento della “minaccia verbale” terroristica surclassa lo strumento penalistico dei reati d’opinione, rischierebbe di comprimere la libertà di espressione dei cittadini stranieri. Cfr. E. Mazzanti, “L’adesione ideologica al terrorismo islamista tra giustizia penale e diritto dell’immigrazione”, in Diritto penale contemporaneo,1/2017.

[5] S. Dambruoso, op.cit.

[6] S. Fillion, What we can learn from France’s failed deradicalization center, lastampa.it, 2 settembre 2017, http://www.lastampa.it/2017/09/02/esteri/what-we-can-learn-from-frances-failed-deradicalization-center-s126MYkCYw329OcwUd1UcJ/pagina.html

[7] P. Bertelsen, “Danish Preventive Measures and De-radicalization Strategies: The Aarhus Model”, in Panorama: Insights into Asian and European Affairs, 1/2015, Konrad Adenauer Stiftung.

[8] Ibid.

[9] E. Williams, J. Tozer, Hug a jihadi, SBS Dateline, 8 agosto 2017, https://www.youtube.com/watch?v=8kcgwcdqEQw

[10] S. Vespa, Chi sono i foreign fighter in Italia, formiche.net, http://formiche.net/2018/01/chi-sono-i-foreign-fighter-in-italia/

[11] http://www.icsanotraffick.com/intervista-a-lamberto-giannini/

[12] Bari, un corso di de-radicalizzazione per il 42enne italiano accusato di terrorismo islamico, Repubblica.it, 26 ottobre 2017, http://bari.repubblica.it/cronaca/2017/10/26/news/bari_un_corso_di_de-radicalizzazione_all_universita_per_il_42enne_italiano_arrestato_per_terrorismo_islamico-179423030/?ref=search

[13]Terrorismo, il camionista barese indagato si taglia la barba e sconfessa l’Isis: "Ho esagerato", Repubblica.it, 3 aprile 2017, http://bari.repubblica.it/cronaca/2017/04/03/news/terrorismo_il_camionista_barese_si_taglia_bara_e_sconfessa_l_isis_-162111593//

[14] A. Silke, T. Veldhuis, “Countering Violent Extremism in Prisons: A Review of Key Recent Research and Critical Research Gaps”, in Perspectives on terrorism, vol. 11, n.5, 2017; L. Clutterbuck, Deradicalization Programs and Counterterrorism: A Perspective on the Challenges and Benefits, www.mei.edu/sites/default/files/Clutterbuck.pdf. In Italia, diversi progetti sono realizzati, a seguito delle linee di indirizzo fornite dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (D.A.P.), dalle varie direzioni degli istituti penitenziari attraverso programmi di riabilitazione dei detenuti a rischio di radicalizzazione violenta. L’area “giuridico-pedagogica, cosiddetta “trattamentale”, in servizio presso le strutture detentive, è sollecitata alla presa in carico del soggetto per la individuazione dell’intervento ritenuto più idoneo nello specifico caso trattato.

(7 giugno 2018)








MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.