Decaro: “Il futuro dell’Italia passa dalle città, non dalle regioni”

Daniele Nalbone

Dopo , MicroMega ha intervistato Antonio Decaro. Il sindaco di Bari e presidente dell’Associazione nazionale comuni italiani (ANCI) avverte il governo: «Se saltano i comuni salta l’Italia». La questione non è solo economica, ma politica: «Non possiamo e non vogliamo essere relegati a meri esecutori di decisioni prese altrove o, ancor peggio, a vicesceriffi». Per gestire l’emergenza sanitaria «abbiamo ceduto ogni potere allo stato. Di certo non ci aspettavamo che il governo ci sostituisse con i presidenti di regione».
intervista a Antonio Decaro

Lo stato d’emergenza ha compresso lo spazio decisionale: tutti i poteri sono nelle mani del governo, dei commissari straordinari e dei presidenti di regione. Così i comuni, primi enti di prossimità, si ritrovano senza liquidità e i sindaci sono stati, di fatto, esautorati. La loro funzione politica e di governance è stata annullata. In questa serie di interviste su MicroMega sei sindaci ragionano sul futuro delle amministrazioni locali e del ruolo dei comuni.

C’è una forte unione tra i sindaci, in questa fase, per chiedere risorse ma anche per recuperare i poteri che durante la «fase uno» avete consegnato al governo. Come presidente Anci qual è il suo giudizio sull’operato del premier Conte?

Il nostro primo obiettivo è ovviamente quello di recuperare le risorse perse in questi mesi. Oggi i comuni sono di fatto delle aziende che devono mantenere in equilibrio il proprio bilancio. Senza entrate, però, non possiamo continuare a spendere risorse, che non abbiamo, per garantire le funzioni fondamentali di un comune. In questo scenario dobbiamo poi fare i conti con la spesa per i servizi sociali che è letteralmente esplosa a causa della crisi sanitaria che, da subito, si è trasformata in una crisi economia e, appunto, sociale. Le casse di un comune sono «riempite» solo per il 30 per cento dai trasferimenti dello stato mentre il 70 per cento proviene dal pagamento delle varie imposte – imu, rifiuti, tassa di soggiorno – dalle multe o dalla biglietteria del trasporto pubblico. In questi quattro mesi, però, tutte queste voci segnano cifre vicine allo zero. Come sindaco, non posso chiedere alle attività commerciali, rimaste chiuse per settimane, di pagare la tari. E non è nemmeno questione di fare o meno degli «sconti»: io non voglio proprio farla pagare. In queste settimane, poi, abbiamo ridotto anche all’osso le multe per il codice della strada: ci volevano nel ruolo di agenti di pubblica sicurezza, ma abbiamo preferito lavorare sul controllo e non sulla sanzione. Non dimentichiamoci, poi, che i famosi 400 euro di multa in violazione ai comportamenti «anti-Covid» non sono andati ai comuni ma allo stato.

Messa così, possiamo affermare che i comuni sono sull’orlo della bancarotta?

Ai comuni mancano 600 milioni derivante dalle tasse di soggiorno. Dove li troviamo quei soldi? E questo è solo un esempio. Tra un mese, un mese e mezzo, i comuni andranno in default uno dopo l’altro. E se saltano i comuni, salta l’Italia. Noi offriamo servizi fondamentali per la vita dei nostri cittadini che né lo stato né le regioni possono garantire. Siamo la base per la «convivenza democratica».

In questo scenario, oltre ad aver perso entrate economiche fondamentali, avete perso anche i poteri che secondo la Costituzione spettano ai sindaci.

Questa è, forse, la cosa più grave. Non possiamo e non vogliamo essere relegati a meri esecutori di decisioni prese altrove o, ancor peggio, a vicesceriffi: il nostro ruolo non è quello di punire e sorvegliare i cittadini. Nella prima fase dell’emergenza sanitaria abbiamo mostrato un grande senso di responsabilità, quasi «rivoluzionaria». Abbiamo ceduto ogni potere allo stato, perfino quello di garantire la salute pubblica. Immaginate cosa sarebbe successo se ogni sindaco si fosse messo a emanare ordinanze «ad hoc» per il proprio comune: sarebbe stato il caos e, soprattutto, avremmo dato un messaggio sbagliato ai cittadini. Abbiamo quindi ritenuto che questa pandemia andasse affrontata da un unico centro decisionale. Di certo non ci aspettavamo che il governo ci sostituisse con i presidenti di regione.

Eppure, siete voi il «volto dello stato» nelle città. Siete voi ad aver gestito la «rabbia sociale» dovuta non solo alla crisi economica ma a un sistema che non ha funzionato.

Sono passati tre mesi, quasi quattro, e i lavoratori non hanno ricevuto un euro dalla cassa integrazione. Ci rendiamo conto? Quando sono esplose le prime tensione sociali nelle città il governo ha chiesto a noi di gestire il problema: ricordate le file dei cittadini davanti ai supermercati che volevano prendere – senza pagare – generi alimentari di prima necessità? Se la situazione non è esplosa è stato solo per il nostro lavoro e il nostro impegno. Ora, in una fase che deve essere di ripresa, rivogliamo il nostro ruolo «di prospettiva». Siamo noi a essere eletti direttamente dal popolo, siamo noi l’istituzione più prossima ai cittadini, siamo noi, come ha ripetuto più volte il presidente Mattarella, il terminale più esposto dello stato. Noi, non i presidenti di regione. Loro possono decidere «quando» riaprire, ma non «come». Come si gestisce una piazza, una spiaggia, un mercato, un cimitero lo sappiamo noi.

Il sindaco de Magistris ha parlato di un «disegno eversivo» e di continue violazioni della Costituzione. Qual è la sua posizione?

Lo stato di emergenza ha dato vita a uno stato di eccezione che ha compresso lo spazio decisionale accentrando ogni potere nelle mani del governo, dei commissari straordinari e dei presidenti di regione. Indirettamente – perché non voglio credere a un disegno studiato – stiamo assistendo al tentativo di delegittimazione istituzionale del ruolo dei sindaci. Noi abbiamo fatto «solo» un passo indietro sulla programmazione e sulla gestione, nella prima fase, per senso di responsabilità e per la tutela dei cittadini. Oggi vogliamo indietro il nostro ruolo. Il futuro dell’Italia passa, inevitabilmente, dalle città. Non dalle regioni.

Non è azzardato dire che siete stati esautorati. Le chiedo – «oltre» la pandemia – non è arrivato il momento di rimettere in discussione i livelli di potere?

Le regioni si dovrebbero occupare della pianificazione generale, invece stanno occupando il nostro campo, gestendo attività proprie dei comuni. È già accaduto in passato con il reddito di cittadinanza: senza la mobilitazione che c’è stata, a partire dalla presa di posizione del delegato al Welfare dell’Anci, il sindaco di Reggio Emilia Luca Vecchi, noi avremmo avuto il ruolo di un semplice «sportello». Per fortuna le cose sono poi andate diversamente, pur con tutte le problematiche del caso. Lo stesso accade ormai da tempo sul fronte della gestione dei rifiuti: le regioni dovrebbero limitarsi ai piani generali, invece tentano di gestire l’intera filiera, fino alla raccolta e allo smaltimento. Noi, a differenza dei presidenti di regioni, ci guardiamo bene dal travalicare i nostri ruoli e lo abbiamo dimostrato in questa drammatica situazione: abbiamo ceduto i poteri di ordinanza allo stato e non ci siamo permessi, mai, di giudicare il ruolo dei governatori, anche quando si sono divertiti a giocare a colpi di ordinanze sulla vita delle nostre città. Perché non hanno fatto lo stesso anche loro? Perché non hanno ceduto il loro potere di ordinanza allo stato e, invece, in molti casi ne hanno addirittura abusato? I comuni sono l’autonomia per eccellenza, non i vicesceriffi di qualcuno o i meri esecutori di decisioni prese a Roma.

Nelle settimane del lockdown lei ha girato tutta la città cercando di non rivestire, appunto, il ruolo di sceriffo: ha scelto una strada particolare, molto «social», e soprattutto ha cercato un continuo dialogo con i cittadini di Bari.

Io ho un rapporto molto stretto con la gente di Bari, non dimentichiamo che un anno fa sono stato rieletto al primo turno con il 60 per cento dei consensi. La gente mi chiama «Antonio», non sindaco. Ho girato tutta la città per cercare di mantenere il più possibile il rapporto con la «mia» comunità, un rapporto fraterno e non da sceriffo. Ho festeggiato con i baresi, tramite i social, la Pasqua e la Pasquetta. Se trovavo qualcuno in strada, da fratello maggiore e non da pubblica autorità, chiedevo alle persone di tornare a
casa. Sono state settimane difficili che speriamo siano alle spalle.


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Da dove si deve ripartire?

Lo stato e tutte le istituzioni devono ascoltare le nostre richieste, perché siamo noi a parlare con le famiglie. E lo facciamo faccia a faccia, tutti i giorni. Il primo problema, oggi, si chiama criminalità: sono decine i casi in cui piccoli imprenditori in difficoltà si sono trovati fuori dalla porta del proprio negozio degli usurai. Fino a oggi ci siamo mossi come fece Ulisse con i suoi marinari, tappando le orecchie per non far sentire il canto ammaliante delle sirene. Ma non possiamo continuare così a lungo o la barca finirà contro gli scogli. Dobbiamo rilanciare, mostrare la nostra visione di futuro: chiediamo risorse ma soprattutto che ci vengano restituiti i nostri poteri. Vogliamo semplificare le procedure ed evitare di sanare il buco di bilancio chiedendo soldi ai cittadini. Sappiamo come far riprendere la nostra economia: il problema è che non abbiamo il potere, più che il denaro, per farlo.

(3 giugno 2020)




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