Del craxismo e altre disgrazie

Rossella Guadagnini



Ho visto da poco il film del regista Gianni Amelio “Hammamet”, in mezzo a una platea silenziosa e attenta. Beninteso non ero in Tunisia, ma in una qualsiasi sala cinematografica romana. In principio mi ha un po’ colpito questo clima riverente e vagamente celebrativo di spettatori determinati, consapevoli dello spettacolo a cui avrebbero assistito, che sembravano venirsi ad abbeverare a una fonte di verità, meno coscienti invece di trovarsi di fronte a un lavoro cinematografico: un film, insomma, con i suoi pregi e difetti.

Persone, soprattutto, che – dai commenti sussurrati educatamente in platea – guardavano le immagini sullo schermo senza percepire, almeno in apparenza, le differenze sostanziali tra verità dei fatti e finzione cinematografica. Eppure il regista, malgrado l’ineludibile spinta agiografica, aveva disseminato qua e là segnali e indizi, quasi a voler testimoniare il proprio distacco (per quanto in extremis) dalla vicenda narrata, una foglia di fico. Così chi ruota intorno alla vita quotidiana di Craxi e alla sua routine, prima politica, poi di transfuga in nord Africa – ad esempio – non si chiama col suo vero nome. E gli eventi realmente avvenuti erano mostrati solo attraverso la ‘fessura’ del televisore di casa (il consueto trituratore domestico) che trasmetteva – in colta e sapiente successione – sia vecchi film americani degli anni ‘40 e ‘50, che brani di tg e servizi tv di allora, anche di spettacolo, tra cui uno, nel quale si riconosce la voce del giornalista Rai, Bruno Vespa, ulteriore omaggio a chi aveva seguito da vicino le cronache di Tangentopoli.

Tutto il resto era interpretazione soggettiva e pura invenzione filmica, suggestiva e a momenti troppo lenta, come si ritiene debba essere il passo solenne della storia, ben confezionata dalla regia, sullo sfondo di una tragedia personalissima che descrive la perdita del potere di un leader attraverso declino, malattia e morte nella polvere. Non però la narrazione di una fase politica precisa, di un momento storico del nostro Paese. Un destino scelto con tenacia, quello di Craxi, e perseguito da un uomo che ha visto il suo mondo cambiare, le proprie speranze divenire illusione. E il senso di colpa del capo partito dov’è finito – si chiedeva intanto lo spettatore di minoranza, agitandosi sulla poltrona durante la proiezione – il senso di responsabilità dell’uomo, l’etica del politico, il civismo verso il Paese e gli elettori, la decantata dimensione da statista? Scomparsi, immaginiamo, liquefatti sotto il sole invadente delle spiagge tunisine. Nulla di tutto ciò è apparso, solo l’uggiosa ostilità giudiziaria contro un innocente (confermata però da fior di sentenze di condanna), ossessioni e rancore. Fumus persecutionis, dunque, il consueto scaricabarile italiano, dove l’interpretazione prevale sulla realtà.

Gioca coi fanti ma lascia stare i santi

Che differenza rispetto al “Divo” di Sorrentino sulla figura di Giulio Andreotti! Una distanza siderale dalle immagini critiche, dall’attacco vigoroso, dal giudizio tagliente a una classe politica altrettanto arrogante e potentissima, assai più dei craxiani che, in materia, erano gli ultimi arrivati alla tavola imbandita della politica politicante e politicata. In questo senso Craxi – grande inventore di stilemi linguistici, secondo solo allo stesso Andreotti – è stato preso in effetti con le mani nella torta, fermato dopo 16 anni ai “preliminari dei preliminari” per dirla col linguaggio politico di allora, pesato e tuttavia già molto ambiguo, intriso di slogan e battute, zeppo di volgarità e insulti mascherati da goliardate. E’ rimasto sopra la superficie delle monete, come un Paperon de Paperoni che contempla il suo deposito dall’alto. Mentre altri, prima e dopo di lui, sono scesi interamente in quella profondità fumettistica e spaventosa, che ci ha portato ai margini del precipizio.

In questi giorni è successo che finzione e realtà si sono intrecciate fin quasi a sovrapporsi, culminando nella commemorazione estatica e triste di Hammamet, domenica scorsa 19 gennaio, a 20 anni dalla morte del leader socialista, definito dal figlio Bobo “vittima di una persecuzione senza pari, come disse il presidente della Repubblica 10 anni fa”, per la cronaca Silvio Berlusconi, successivo erede nonché perseguitato dalla giustizia. Davanti a una folla contenuta di riguardosi personaggi del mondo di allora: oltre ai familiari, c’erano giornalisti, nostalgici ed ex compagni di partito valorosi e no: da Ugo Intini a Claudio Martelli, da Claudio Signorile a Giulio Di Donato, figure apicali del tempo.

Paolo Flores d’Arcais, su queste colonne, Mani Pulite. Ma non erano due sinonimi dello stesso evento? No, in effetti, no: erano due prospettive completamente diverse. Forse non ce ne siamo accorti, però in questa divaricazione (terminologica e concreta) è contenuto il senso della sconfitta di allora e della vittoria del craxismo di ora. L’occasione persa di potere raccontare la nostra storia recente, quella di un Paese che ha vissuto mezzo secolo pericolosamente: dalla crescita arrembante e ingorda degli anni Ottanta, sintetizzata dalla “Milano da bere” – prima del crollo della Prima Repubblica con Mani Pulite e la discesa in campo di Berlusconi nel 1994 – alla crisi economica e politica che ha comportato la forte stagnazione di quest’ultimo decennio. Una temperie che richiama in causa usi e costumi di allora, valutandoli positivi e validi per l’oggi, senza capire che sta proprio lì (seppure non solo lì) l’inizio della fine: nello snodo politico rappresentato dalla figura di Craxi e dal craxismo sono contenuti i prodromi della tragedia collettiva che ne è seguita. Il dramma di un intero Paese, non di un solo uomo ambizioso.

Per una politica senza padri

In 50 anni sono stati prodotti – in gran numero – continui abbellimenti, manipolazioni, distorsioni, revisioni di quanto è avvenuto nel corso del tempo: per alcuni episodi si tratta di palesi falsificazioni, con una pressoché completa mancanza di fedeltà agli avvenimenti. Il tutto infiocchettato come un prodotto appetibile e digeribile per ognuno. In questo modo sono state raccontate, fino adesso, le vicende della Repubblica italiana, dove i giudizi storici si attenuano fino alla benevolenza e le riflessioni nei confronti dei morti divengono ecumenicamente ‘buoni pensieri’. Tanto non costa niente e a chi non c’è più si porta rispetto. La prospettiva storica è distorta, scorretta, interpretata a proprio piacimento, strumentalizzata, gonfiata o sgonfiata dalle alleanze politiche, tanto che il padre padano Bossi diventa per un attimo il genio verde della lampada, Maria Elena Boschi la madrina della Costituzione (che si apprestava ad azzoppare), Renzi un enfant prodige dei compagni massoni e il fratellastro di poco maggiore Salvini un futuro difensore della Patria. Dalla tragedia alla farsa.

L’operazione di Amelio appartiene di diritto al filone tanto in voga della legittimazione a ogni costo: ossia il voler sostituire ad abitudini e comportamenti illegali, caotici e disordinati, una bella, semplice e tranquillizzante finzione. Ormai è accettab
ile – per i più – parlare di Craxi nei termini di un grande statista, non in quelli (giudiziari) di un ladro di Stato. E se Craxi si può fregiare di questo ambito titolo ad Aldo Moro quale attribuire allora? Del resto, gli attuali schieramenti, sempre più incerti, sono tutti alla ricerca di padri fondatori, non nei costituenti – ahimè – rigorosi e sobri, troppo lontani ormai nel tempo, dinosauri della preistoria politica. Visto poi che Craxi è stato così ‘grande’, la sua discussa eredità è stata colta al volo da un altro ‘grande’ unto del Signore, il cavaliere disarcionato. Anch’egli di recente è in fregola di statista; nell’intento di essere ricordato in eterno, si richiama addirittura a De Gasperi e si vanta nella caverna parlamentare di aver sdoganato lui l’intera destra italiana, da Salò alla Fiamma, a quella odierna estremista, xenofoba e fascista. In vecchiaia poi re Berlusconi ha passato il testimone al suo giovane saltimbanco di corte, il rottamatore rottamato. Il quale, nella cena delle beffe se l’è fatto sfilare da un altro Matteone, barbuto stavolta e più tosto fisicamente, colui che combatte eroicamente barbari e migranti, forse nell’intento frustrato di perdere peso, non le elezioni.

E gli altri nel mezzo, chiederete voi? Intralci politici e superflui, burattini dondolanti appesi al filo della misericordia di chiunque, comprimari di una scena politica eterodiretta dall’esterno del teatro, probabilmente in alcuni casi anche dall’esterno del Paese. Ma devo essermi suggestionata e me ne scuso: ho visto un film, ho solo visto un altro film. Tutto qui.

(24 gennaio 2020)





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