Democratizzare il lavoro: tre proposte a 50 anni dallo Statuto dei Lavoratori
Domenico Tambasco
Che differenza corre tra Selvina, giovane immigrata pakistana che in piena pandemia pulisce gli sterminati spazi di un supermercato esponendo sé – e i familiari che la attendono a casa – al rischio di contrarre il letale Covid 19 e il suo capo, Maurizio, che gestisce gli appalti e i servizi a distanza, al chiuso del suo comodo ufficio?
Chi rischia di più tra Massimiliano, dipendente di una società di servizi sanitari a contatto quotidiano con il personale e i pazienti di numerosi ospedali lombardi e Agostino, amministratore unico il quale, tra le quattro mura della sede sociale, non fa altro che lamentarsi del blocco dei licenziamenti decretato dal governo fino ad agosto?
La scontata risposta mette a nudo la falsità del lessico neoliberista, la cui brutale dottrina giustifica lo strapotere proprietario degli azionisti e degli amministratori in quanto “investitori di capitale”.
La realtà degli ultimi drammatici mesi ha evidenziato che non è proprio così.
Chi rischia davvero, chi nelle aziende ha messo e mette frequentemente a rischio la propria vita sono i lavoratori, veri e propri “investitori di lavoro”: uomini e donne che da alcuni mesi a questa parte, ancor più di prima, hanno messo a repentaglio l’incolumità loro e dei loro cari investendo il proprio capitale, ovvero la forza lavoro, nelle aziende per cui sono assunti.
Questa nuova consapevolezza e soprattutto questa diversa sintassi viene ripresa da un innovativo e importante manifesto internazionale (“Democratizing work”), pubblicato pochi giorni fa in contemporanea da numerose testate giornalistiche di tutto il mondo, sottoscritto da molti accademici di rilievo tra cui Thomas Piketty, Saskia Sassen, Nadia Urbinati e James Galbraith.
“Chi lavora è molto più che una semplice risorsa. Questa è una delle lezioni principali che dobbiamo imparare dalla crisi in corso”.
Lo capiamo bene, pensando alle cassiere dei supermercati, agli addetti alla logistica, agli autotrasportatori, agli operai addetti alle industrie alimentari che hanno affrontato in questi mesi con coraggiosa noncuranza il rischio di contagio, pur di garantirci il regolare approvvigionamento dei beni essenziali.
Ad essi tuttavia mal si attaglia l’etichetta di eroi; sono, più propriamente, investitori del loro lavoro, persone che si assumono in proprio il rischio derivante dallo svolgimento di un’attività lavorativa in contesti tutt’altro che sicuri, come testimonia peraltro il quotidiano bollettino delle vittime sui luoghi di lavoro.
“Senza persone che vogliano investire il proprio lavoro non ci sarebbero produzione né servizi… sono la dimostrazione, giorno e notte, che i lavoratori non sono solo una delle tante parti in gioco all’interno delle aziende; nonostante ciò, sono esclusi dalla partecipazione nella gestione dei luoghi di lavoro. Un diritto, quest’ultimo, monopolizzato dagli investitori di capitale”.
Il giusto riconoscimento è una parola che, al contempo, rappresenta sia un valore sia il punto di partenza di una nuova riorganizzazione economico-sociale: la democrazia.
Il che vuol dire, nel sudore e nel sangue pulsante della vita lavorativa quotidiana, il riconoscimento del valore dell’investimento del lavoro all’interno delle stesse imprese, attraverso i Consigli di Lavoro, organi cui deve essere integralmente devoluto un ruolo di effettiva cogestione aziendale.
“In Europa, la rappresentanza dei lavoratori sul luogo di lavoro esiste già a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, attraverso i Consigli di Lavoro. Ma questi organi rappresentativi, nel migliore dei casi, hanno scarsa voce in capitolo nella gestione delle imprese, dove sono sempre subordinati alle decisioni dei direttori esecutivi scelti dagli azionisti… Questi organi dovrebbero avere diritti simili ai Consigli di Amministrazione e i dirigenti aziendali dovrebbero avere l’obbligo di ottenere sempre un doppio consenso: sia da parte degli organi che rappresentano i lavoratori che da quelli che rappresentano gli azionisti… Questioni come la scelta di un amministratore delegato, le strategie principali e la distribuzione dei profitti sono troppo importanti per essere lasciate interamente nelle mani degli azionisti. Chi investe il proprio lavoro – ovvero, la propria mente e il proprio corpo, la propria salute o anche la propria vita – deve godere del diritto collettivo di appoggiare o respingere queste decisioni”.
Del resto, la pretesa degli investitori del proprio lavoro di cogestire l’azienda in cui sono impiegati è una richiesta che trova un chiaro e inequivoco referente anche nella norma cardine del codice civile italiano, l’art. 2094 c.c., che definisce il lavoro subordinato come rapporto di collaborazione nell’impresa, ove l’espressione “collaborare” è significativa sia della parità sia della mutualità dei contributi di lavoro e di capitale apportati nell’azienda.
Ma vi è di più. Per riprendere le parole di un indimenticato giuslavorista, il contratto di lavoro non è uno strumento per l’esplicazione della signoria da uomo a uomo, né la mera fornitura di energie psicofisiche, né una generica messa a disposizione nella sfera giuridica altrui affinché questi eserciti un ruolo di comando[1]. E’ al contrario, un rapporto in cui si esprime la personalità del lavoratore, in cui è coinvolto il nucleo primo della persona umana: la sua dignità.
Il lavoro, dunque, non è né può essere considerato una merce, men che meno low cost[2].
“Certamente bisogna ridurre le enormi diseguaglianze salariali e assicurare che aumentino i redditi più bassi……….Questa crisi ci insegna anche che è sbagliato trattare il lavoro come mera merce e lasciare le scelte che incidono più profondamente sulle nostre comunità in mano interamente ai meccanismi di mercato….La de-mercificazione del lavoro significa proteggere alcuni settori dalla legge del cosiddetto <<libero mercato>>; significa inoltre assicurare che tutti abbiano accesso al lavoro e alla dignità che conferisce. Una possibile maniera per realizzare questo obbiettivo è la creazione di una Garanzia di Impiego. L’articolo 23 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani afferma che ogni persona ha diritto al lavoro”.
Aggiungeremmo che, considerata la crescente disoccupazione involontaria, l’impossibilità della garanzia di impiego dovrebbe avere almeno quale alternativa la garanzia di un reddito minimo universale di base, come peraltro statuito dallo stesso art. 38 della Costituzione, secondo cui “I lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di….disoccupazione involontaria”.
L’improcrastinabile necessità di cogestione delle aziende non è un mero esercizio di potere né un anacronistico ritorno alla lotta di classe; risponde, al contrario, al vitale bisogno di determinare i fini e gli obbiettivi dell’attività
di impresa in senso ecologicamente sostenibile.
“Imprese governate democraticamente all’interno delle quali avrà uguale peso, nelle decisioni strategiche, la voce di chi investe il suo lavoro e di chi investe capitale saranno capaci di guidare la transizione dalla distruzione al risanamento e rigenerazione ambientali”.
Si tratta di un radicale mutamento di paradigma, parte integrante del Green New Deal, unica via d’uscita rimasta alle imminenti catastrofi preannunciate dalla recente pandemia: quando sei uscito fuori strada di molto, le soluzioni moderate sono infatti la via per una veloce caduta nel baratro[3].
Democratizzazione, demercificazione e risanamento ambientale: sono le tre parole chiave di questo manifesto globale che, a cinquant’anni dall’approvazione dello Statuto che ha introdotto elementi di democrazia aziendale in Italia, meriterebbe di essere raccolto come nuovo punto di partenza per un’autentica rinascita delle politiche del lavoro, per la costruzione di un Ordine Nuovo.
[2] Per un’acuta e appassionata analisi critica del dilagante “lavoro povero”, si rimanda al saggio di Marta e Simone Fana, Basta salari da fame, 2019, Roma-Bari, Laterza.
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