Democrazia, diritto alla vita e potere di morte. Quel che hanno in comune il caso Regeni e la pandemia
Fabio Armao
La politica è ancora, sempre, un problema di vita o di morte.
Le autocrazie laiche o religiose ne sono consapevoli al punto da continuare a esercitare il loro potere di morte senza scrupoli e senza limiti, giustiziando ancora in questi giorni chiunque ostacoli il loro cammino.
Le democrazie sempre più di rado rivendicano con orgoglio e arroganza questa prerogativa: ci voleva Donald Trump, negli Stati Uniti, per riprendere dopo 17 anni le esecuzioni federali nei bracci della morte (quelle dei singoli stati non si sono mai fermate) e in violazione di una regola, in vigore da 130 anni, che prevede la loro sospensione durante la transizione presidenziale. Nello stile che l’ha contraddistinto per tutto il suo mandato, ambisce a stabilire un nuovo record: essere il presidente con il maggior numero di esecuzioni da più di un secolo (due condannati sono stati uccisi con un’iniezione letale la scorsa settimana e altri tre sono in lista d’attesa di qui al 20 gennaio).
Ma tant’è. La “democrazia” statunitense, secondo Amnesty International, nel 2019 si è classificata al sesto posto per ricorso alla pena di morte (con 22 condanne eseguite) dopo la Cina (per la quale mancano dati ufficiali, ma siamo nell’ordine delle migliaia all’anno), Iran (251+), l’Arabia Saudita (184), Iraq (100+) e l’Egitto (32+) e prima di Pakistan (14+), Somalia (12+), Sud Sudan (11+) e Yemen (7). Una compagnia di tutto rispetto! Senza contare che gli Usa sono anche il paese con il più alto numero di carcerati al mondo (oltre 2 milioni, contro gli 1,7 della Cina) e, tra i paesi Ocse, anche in rapporto alla popolazione (655 carcerati su 100.000 abitanti, il doppio della Turchia, seconda classificata).
Lasciando da parte gli Stati Uniti, che non sembrano essere mai guariti dalla sindrome della frontiera, le democrazie europee dimostrano di avere un rapporto molto più complesso con il potere di morte. Se ne servono, certo, in maniera occulta e persino illegale, a volte, quando abusano delle proprie prerogative nell’esercizio della forza. Ma, per lo più, rimuovono (utilitaristicamente) il problema.
L’Italia ha trascorsi tragici per quanto riguarda gli abusi di potere: dalle stragi di stato, al G20 di Genova del luglio 2001. Ma ciò su cui voglio porre l’accento adesso è come il governo in carica abbia dato prova, in queste ultime settimane, di una totale incapacità di rapportarsi con il problema della morte che consegue direttamente o indirettamente dall’esercizio del potere politico, apparentemente ignaro che in democrazia quel potere di morte, implicito nell’idea stessa di sovranità, va comunque bilanciato dalla salvaguardia del diritto alla vita e all’incolumità degli individui.
Mi riferisco, in primo luogo, alla tortura e all’uccisione di Giulio Regeni da parte dei servizi segreti del governo egiziano. Da un punto di vista politico, prima ancora che etico, è drammaticamente ridicolo un dittatore che teme uno studente di dottorato al punto da condannarlo a morte. Ma è drammaticamente patetica una democrazia che, pur non avendo alcuna responsabilità nell’omicidio, ha paura di rivendicare la condanna di chi l’ha commesso (lasciando soli i familiari e i magistrati inquirenti nel loro tentativo di ottenere giustizia, come tante volte hanno fatto in passato con le vittime di mafia). Il governo italiano si è dimostrato, nei fatti, ancora più debole del regime di Al Sisi; del tutto incapace di perseguire una linea coerente e decisa nei suoi confronti (se non nella vendita a quello stesso dittatore di due navi militari, che è andata a buon fine senza alcun intoppo). E la storia si sta ripetendo con il caso di un altro studente, Patrick Zaki, la cui cittadinanza egiziana non lo rende certo meno degno di essere protetto dagli abusi di uno stato autoritario.
Il governo italiano, certo, non è il solo a seguire questa linea. Il presidente Macron ha saputo fare di peggio, addirittura concedendo una legion d’onore al presidente egiziano (e per che cosa, per i meriti acquisiti nell’opera di repressione di ogni forma di opposizione?). Mentre l’Europa, come sempre, ha preferito mantenere un basso profilo. Come del resto l’università di Cambridge, di cui Regeni era studente, il cui comportamento omertoso, inspiegabile per un’istituzione culturale di quel livello, è reso ancora più grave dal rifiuto di qualunque collaborazione con i magistrati romani che indagano sul caso.
Conosco tutti gli argomenti “realisti” che vengono addotti per obiettare agli ingenui come me: dall’impossibilità di “violare” la sovranità di un altro stato (almeno in punta di diritto, perché la storia ci insegna che con le armi gli europei, per non parlare degli Usa, hanno saputo far scempio del principio inalienabile della sovranità in più occasioni, ancora nel corso del Novecento), all’opportunità di tenersi buono un dittatore che funge da argine al fondamentalismo islamico (davvero una lotta tra titani!), alle convenienze economiche (anche per le democrazie è bene che il denaro non puzzi, se vogliono sopravvivere alla globalizzazione).
Nonostante ciò, continuo a trovare incomprensibile l’incapacità delle democrazie di farsi davvero forza di ciò che vantano, spesso con arroganza e protervia, nei confronti dei propri cittadini e, soprattutto, del resto del mondo: la propria superiorità giuridica. Per combattere gli autoritarismi, non dovrebbero servire le minacce di ritorsione, né tantomeno il ricorso alle lusinghe (o l’aperta corruzione). Dovrebbe bastare saper rivendicare e comunicare i vantaggi dello stato di diritto, anche in prospettiva economica oltre che politica.
Insomma, esattamente quello che ancora una volta non ha fatto l’Unione europea nella vicenda legata alla distribuzione dei fondi del Next Generation EU, raggiungendo con Polonia e Ungheria un compromesso che salva il bilancio, ma rinvia di fatto proprio l’applicazione della clausola dello stato di diritto. Peggio di così perché, come ha scritto Vladimiro Zagrebelsky, il testo dell’accordo sancisce in realtà un vero e proprio capovolgimento di senso: “Stato di diritto, democrazia, diritti e libertà fondamentali sono valori fondanti dell’Unione, ma solo se la loro violazione confligge con la protezione dei suoi interessi finanziari” (“La Stampa”, 14/12/2020).
Siamo passati, così, ad affrontare il secondo caso di rimozione del potere di morte della politica, riguardante proprio la gestione della pandemia da Covid-19. Come si è letto anche in alcuni commenti sui quotidiani, nella seconda ondata che stiamo vivendo in queste settimane, l’attenzione sulle vittime è andata scemando, nonostante le cifre non siano da meno di quelle della prima ondata. La “consapevole rimozione” di questo dato da parte di quella componente significativa di cittadini che sciama per le strade e per i negozi, gioiosamente ignara dei rischi per gli altri ben più che per se stessi, è una rinnovata espressione del mai sopito “edonismo reganiano” – fuor di metafora, di un senso civico alquanto compromesso, ormai incapace persino di un calcolo razionale di come un sacrificio individuale attuale possa garantire un bene collettivo futuro. Ancora più grave, tuttavia, è la rimozione da parte della classe politica, nella migliore delle ipotesi una dimostrazione di pusillanimità, di paura di scegliere, con il rischio di dover poi pagare le conseguenze elettorali d
ei propri errori. In realtà, il più delle volte è la conseguenza di un’intenzionale strategia propagandistica diretta a sviare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle conseguenze ormai inevitabili degli errori che si sa di aver già commesso, cui si somma l’intenzione di perseverare nel perseguirli.
È facile accorgersi del carattere propagandistico di certe dichiarazioni quando denotano un distacco dalla realtà che dovremmo semplicemente liquidare come patologico – il repertorio di attacchi ai migranti da parte di Salvini e della Meloni a pandemia in corso ne è un ottimo esempio (si veda, da ultimo, l’articolo di Roberto Saviano su “L’Espresso” del 13 dicembre 2020). Non mancano, poi, esempi di autentico surrealismo, come quando il commissario straordinario Arcuri ci tiene a comunicare che le postazioni per le vaccinazioni di massa avranno la forma del primo fiore primaverile, la primula (denotando una maestria senza confronti al mondo nel vendere un contenitore ancora privo dei contenuti, un messaggio di “mission accomplished” prima ancora che la vaccinazione abbia inizio: non abbiamo ancora iniettato la prima dose, e già dobbiamo immaginarci tutti definitivamente immuni).
Ben più difficile è ritrovare una strategia comunicativa coerente nella cacofonia del dibattito politico che da mesi, ormai, si sta svolgendo nelle diverse sedi istituzionali: dalla Presidenza del Consiglio, al Parlamento, alle Regioni e ai Comuni (da ultimo, anche alle resuscitate Province). In molti hanno correttamente osservato che tale cacofonia non può che alimentare le insicurezze dei cittadini (che, come si è accennato, già da parte loro non sembrano brillare per consapevolezza). Soprattutto i balletti di ordinanze nazionali-regionali-municipali che, dall’esterno (da un pulpito quale quello della signora Merkel, per dire), devono apparire come un’ulteriore dimostrazione dell’Italian way of life.
Ma c’è qualcosa di ben più tragico: tutto ciò denota l’incapacità della classe politica italiana di assumersi la responsabilità del potere che detiene e che, in ultima istanza, rimane quello “sovrano” di decidere chi debba vivere e chi, invece, morire. Il fatto che il Presidente del Consiglio Conte nel corso della conferenza stampa del 3 dicembre scorso non abbia fatto alcun riferimento alle 993 vittime di quella giornata, che coincide con il picco assoluto della pandemia, non può essere liquidato come semplice mancanza di sensibilità. La sua “distrazione”, come quella dei presidenti delle regioni che chiedono regole allo stato per poi violarle il giorno dopo, anch’essi del tutti pervicacemente ignari delle proprie colpe, è intenzionale e, per questo, non può che essere foriera di ulteriori disastri.
Non si tratta soltanto di saper chiedere scusa, come da più parti lecitamente si è chiesto; bensì di assumersi la responsabilità dei morti, perché soltanto in questo modo potremo evitare che la catastrofe si ripeta. E si tratta di passare dalle faide tra clan cui stiamo assistendo da settimane tra (e all’interno di) quelli che un tempo chiamavamo partiti, e che rischia di generare un cupio dissolvi collettivo, a un’analisi ragionata dei limiti attuali della democrazia, a partire da quella italiana, nel tentativo di trovarvi rimedio.
La pandemia ha posto i regimi democratici – non, lo ripeto, le autocrazie, che possono farsi beffe del computo delle vittime (almeno fin quando non vengano minacciate da movimenti di piazza) – di fronte all’evidenza che il primo e basilare principio del loro agire politico è la salvaguardia della vita umana e, per una volta, non la difesa dei confini nazionali dall’aggressione di una potenza nemica. Per questa ragione, come ho avuto modo di sostenere anche in un , evocare la guerra non ha alcun senso e dimostra, semmai, l’incapacità di rivendicare un diritto alla vita.
Ciò vuol dire anche che le democrazie devono riappropriarsi di una serie di funzioni che, proprio dai tempi di Reagan e della Thatcher, hanno preferito subappaltare ad attori privati. Da allora, abbiamo imparato a comprendere che la crescente privatizzazione di una serie di servizi e funzioni prima di pertinenza della sfera pubblica può avere conseguenze nefaste, ad esempio, nel campo della guerra, con la proliferazione fuori controllo degli attori non statali della violenza (mercenari, paramilitari, terroristi, mafiosi). Adesso ne vediamo le conseguenze nel campo della riduzione del welfare o della sanità. E, questa volta, non soltanto nei paesi in via di sviluppo, vittime predestinate della .
I morti della pandemia sono anche la conseguenza di uno stato che, accettando di privatizzare i propri servizi essenziali, cede parte della propria legittima sovranità, cioè del proprio potere di decidere chi possa continuare a vivere e chi sia invece destinato a morire. Ne offre un’esemplificazione impressionante, nella sua lucidità oltre che nella drammaticità dei dati, il libro di un medico ed epidemiologo americano, David A. Ansell, pubblicato in epoca pre-Covid e che, pure, dice moltissimo sulla tragedia in corso (The Death Gap. How Inequality Kills, The University of Chicago Press, Chicago 2017). La sua ricerca riguarda il sistema sanitario americano e, in particolare, la città di Chicago, dove le ricerche già condotte sulla pandemia confermano i suoi risultati: la mappa urbana dei quartieri – distinti per fasce di reddito, qualità dei servizi e razza degli abitanti – ricalca alla perfezione i dati sulla diffusione del contagio e sulla mortalità, di gran lunga maggiori nei ghetti impoveriti, tra i neri e gli ispanici (si veda anche il video reportage di “Al Jazeera”, The Great Divide: Covid-19 and race in Chicago, 18 novembre 2020).
In estrema sintesi, la sua ricerca indaga e misura il death gap della popolazione a partire dalla violenza strutturale, la combinazione corrosiva di povertà e razzismo, che si scarica sul territorio e si intreccia con le strutture ospedaliere pubbliche e private, persino con le dinamiche dei rendimenti immobiliari dei diversi quartieri, inferendone che per il ricco il luogo in cui vive non ha alcun impatto sulla sua longevità, per il povero segna il suo destino. Ciò che Ansell constata a Chicago, dove nell’arco di cinque miglia si registrano differenze di longevità che arrivano a 25 anni tra bianchi e neri, scendendo per i secondi a livelli inferiori persino a molti paesi in via di sviluppo, rischia oggi di riprodursi – seppure non con la stessa magnitudo – in ogni altro paese come conseguenza della pandemia, mettendo alla prova i rispettivi sistemi sanitari, che andrebbero valutati per le loro prestazioni e non sulla base di posizioni ideologiche come avviene qui da noi.
Oggi più che mai, una democrazia dovrebbe anzitutto assumersi la responsabilità di ridurre quanto più possibile il death gap, l’ineguaglianza di fronte alla morte. Ma per poterlo fare deve prima acquisire la consapevolezza che qualunque scelta di governo va valutata anche in relazione al potere di morte.
Uno stato democratico esercita il potere di morte quando no
n è in grado di garantire le cure, pur avendone la possibilità, o quando abbandona i migranti in mare aperto; e così pure sacrifica il diritto alla vita quando liquida pavidamente ogni possibile riforma del prelievo fiscale che, sola, consentirebbe di riequilibrare le iniquità crescenti tra ricchi (individui e corporation multinazionali) e poveri. Anche in questo caso, il governo Conte si è distinto per la rapidità con la quale ha saputo rimuovere dal dibattito nostrano l’idea appena accennata di una tassa patrimoniale. La democrazia nega il diritto alla vita ogniqualvolta arretra di fronte ai delitti compiuti da un qualunque tiranno.
La morte di Giulio Regeni (e la detenzione di Patrick Zaki) non sono questioni private che possano essere risolte attraverso un faccia a faccia tra leader: sono questioni pubbliche. L’autoritarismo criminale di Al Sisi lo si combatte rivendicando a piena voce l’incompatibilità di quei comportamenti con i princìpi democratici dei governi europei e dei suoi cittadini (che, oltretutto, come imprenditori, consumatori, turisti avrebbero tutto da guadagnare da un processo di democratizzazione dell’Egitto). Lo si sconfigge riaffermando una volta di più l’inalienabilità dello stato di diritto, una pratica discorsiva che, magari, renderebbe più difficile agli stessi partner europei violarne i princìpi.
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