Futuro del giornalismo e democrazia

Christian Ruggiero

* e Achilleas Karadimitriou**
Il giornalismo contemporaneo è ancora un fattore in grado di rafforzare la dinamica democratica? Se vogliamo attribuire una risposta positiva a questa domanda, dobbiamo fornirci di mezzi di monitoraggio “ad ampio spettro” dello stato di salute della professione, possibilmente in un’ottica comparativa. È la mission che si è dato il “Media for Democracy Monitor”, parte dell’Euromedia Research Group.
Si tratta di un programma cross-nazionale di studio dei maggiori media outlet di diciotto Paesi, europei ma non solo, che dal framework teorico di uno dei “padri” degli studi sulla comunicazione, Denis McQuail, trae tre dimensioni fondamentali di analisi, relative alla libertà d’informazione, alla funzione di controllo dei media, al loro ruolo nel promuovere la parità e la discussione. All’interno di ognuna di queste dimensioni, si agitano diversi fattori, dalla cui interazione è possibile leggere i maggiori trend che attraversano il mondo dell’informazione. Da soli, elementi quali il livello di professionalizzazione del giornalismo, l’entità delle risorse a disposizione delle redazioni, l’impatto della precarizzazione lavorativa sugli operatori dei media, restituiscono una fotografia di uno dei grandi temi che riguardano il giornalismo. Il complesso mosaico che si forma facendo un passo indietro e osservando l’insieme di questi elementi, il modo in cui interagiscono tra loro, le ricorrenze e le specificità di ciascun contesto nazionale, è assai più affascinante. In grado di offrire risposte più profonde sulla sostenibilità della funzione di controllo esercitata dai media, e in ultima analisi della stessa professione giornalistica.
Sostenibilità e professionalità giornalistica: Due facce della stessa medaglia
Nei sistemi mediatici di tutto il mondo la sostenibilità e la professionalità giornalistica si sono rivelate due questioni strettamente correlate. L’importanza di questa interconnessione è diventata più che mai evidente nell’ultimo decennio, dal momento che il giornalismo in molte parti del mondo ha dovuto affrontare sfide senza precedenti: da un lato l’emergere di una cultura partecipativa dei media all’interno di un mercato altamente frammentato, afflitto da crisi economiche prolungate e radicate, dall’altro il calo di credibilità del pubblico nei confronti dell’industria dei media e dei suoi rappresentanti.
All’interno di un contesto comunicativo fluido e precario, il mondo dell’informazione sta attraversando una crisi strutturale o esistenziale, in cui il giornalismo di alta qualità è l’eccezione piuttosto che la regola. Ciò si riflette principalmente nell’apparente indebolimento della cultura giornalistica d’inchiesta tra i principali media d’informazione di diversi paesi. Dai dati dell’edizione 2020 del Media for Democracy Monitor (MDM 2020), emerge un quadro nel quale i professionisti dei media sembrano aver dimenticato che il giornalismo dall’inizio della rivoluzione digitale è diventato molto più che fornire notizie ai cittadini.
La radice del problema sta nella diminuzione delle risorse finanziarie della maggior parte delle principali organizzazioni mediali, unita al crescente carico di lavoro imposto ai giornalisti, che lavorano in tempi soffocanti all’interno di redazioni con poco personale. All’interno di questa triste realtà, emergono interessanti eccezioni di paesi che rivendicano il ruolo di controllo svolto dal giornalismo (Svezia, Danimarca, Regno Unito), o più semplicemente rappresentano efficienti “sacche di resistenza” del giornalismo investigativo, sostenuto attraverso risorse ad hoc (Islanda, Paesi Bassi, Austria) o attraverso l’istituzione di speciali politiche di sovvenzione (Fiandre, Paesi Bassi). Un modello alternativa di resistenza viene poi dall’altra parte dell’Atlantico, e in particolare dal Cile, dove il giornalismo investigativo è realizzabile grazie a freelancer o a società impegnate nella realizzazione di inchieste, prodotti che dimostrano di avere un mercato presso quelle stesse organizzazioni mediatiche che non riescono ad avere risorse dedicate.    
In questo contesto volubile, la più grande sfida del giornalismo moderno sembra essere la capacità di riposta a un diffuso trend di de-professionalizzazione. La resistenza alle tendenze al declino della professionalità giornalistica è però un compito molto impegnativo: i giornalisti, da soli, dovrebbero essere attivamente impegnati a contrastare efficacemente diversi fattori interni ed esterni che rappresentano altrettanti ostacoli alla qualità delle loro pratiche professionali. I fattori interni, associati a una tendenza all’autovalutazione del ruolo giornalistico da parte dei giornalisti stessi, richiedono una riflessione degli operatori dell’informazione sul valore sociale del proprio lavoro quale forza trainante che li spingerà a rafforzare il loro impegno per una rinata identità professionale. Allo stesso tempo, i giornalisti devono resistere alle pressioni, derivate dagli appetiti finanziari degli imprenditori dei media e da un’industria della comunicazione deregolamentata, al servizio del modello di convergenza tecnologica.
Date le attuali inevitabili difficoltà finanziarie delle principali organizzazioni mediatiche mondiali, i giornalisti possono salvaguardare la qualità del loro lavoro solo arricchendo la loro formazione, con particolare attenzione alla dimensione etica, e riducendo l’intensità del carico di lavoro (secondo la logica dello slow journalism). L’implementazione del giornalismo di qualità, compresa la sostenibilità di una capacità investigativa della professione ad alta intensità di risorse, dipende dalla capacità dei giornalisti di perseguire nuove competenze e da una maggiore flessibilità nella produzione di notizie. Nell’ambiente dei media partecipativi del giornalismo del XXI secolo la professione giornalistica ha urgente bisogno di un nuovo tipo di gatekeeper (a differenza dei “quasi-gatekeepers” emersi nel mondo dei social media), caratterizzato da competenze multitasking, da un alto livello di alfabetizzazione mediatica, dal rispetto dei principi tradizionali del giornalismo ma anche da una chiara disposizione a rivendicare una forte rigenerazione della propria cultura professionale.
   
Imprevisti e probabilità della flessibilità lavorativa
Sin dai tardi anni Novanta, a sociologi accorti come Manuel Castells è chiaro che l’imporsi della “network economy” rappresenta un punto di svolta per le imprese e i consumatori, ma anche per i lavoratori. Le possibilità offerte dal nuovo panorama economico e sociale, nel quale le tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno un ruolo di primo piano, avrebbero richiesto la formazione di lavoratori creativi, flessibili e autonomi.
A vent’anni di distanza, il principale portato di questa rivoluzione resta la flessibilizzazione dell’impiego più che del lavoro. Un set alquanto definito di status occupazionali (part-time, a tempo, autonomo, subappalto) è stato assorbito dal mercato del lavoro dei singoli paesi in modi anche molto differenti, traducendosi alternativamente nel motore per la ripartenza di un segmento del mercato del lavoro o in un alimentatore delle più tradizionali diseguaglianze lavorative.
Il settore dell’informazione è un terreno di studi estremamente fertile per verificare i trend sopra riassunti. Uno studio condotto in Germania, Svezia e Regno Unito, che provocatoriamente si propone di rispondere alla domanda: “I giornalisti sono i minatori di carbone di oggi?” evidenzia la contraddizione tra l’immagine di una nuova generazione di giornalisti motivata, flessibile e tecnologicamente preparata e la richiesta, da parte di questi stessi soggetti, di un equilibrio tra tempo di vita e tempo di lavoro e una prospettiva di carriera solo in parte compatibili con i ritmi e i carichi di lavoro richiesti da redazioni ormai operative ventiquattr’ore al giorno, sette giorni su sette.
Si tratta di elementi che emergono con grande chiarezza dall’analisi del Media for Democracy Monitor: la formula del giornalista freelance, per esempio, segue traiettorie di sviluppo e modelli di sostenibilità molto differenti. Rappresenta una parte importante del media system tedesco, olandese e svedese, ma anche di quello italiano, greco e di paesi extra-europei per la prima volta mappati dal progetto, come Australia, Canada e Cile. Non risulta essere la norma dal punto di vista contrattuale in Austria, Finlandia e Islanda, mentre il Regno Unito sembra persino “riscoprire” il valore dei contratti a lungo termine. La variabile della “job security” è tuttavia trasversale a questa geografia: a fronte delle fiere battaglie condotte nei Paesi Bassi per l’adeguamento dei compensi dei freelancer, nel bouquet contrattuale italiano questo tipo di status lavorativo è seguito dappresso dalla forma del co.co.co., che ha generato quella che uno degli intervistati ha definito “una generazione di rider dell’informazione”. Dall’altro lato del confine, tra i paesi che fanno un moderato uso della figura professionale del freelance, compaiono tanto l’alto tasso di job security registrato dall’Austria, vera “best practice” in questo campo, quanto la situazione di limitata protezione del giornalista a fronte di risoluzione del contratto in relazione a cambiamenti di proprietà o all’orientamento politico del mezzo di comunicazione che caratterizza il caso islandese.
Un quadro estremamente variegato, che rimanda alla necessità di un’analisi multidimensionale del fenomeno, irriducibile a qualsiasi tentativo di porre solidi confini a un oggetto di studio quantomai liquido.

* Professore Associato, Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale, Sapienza Università di Roma
* Professore Aggregato, Facoltà di Scienze della Comunicazione e dei Media, Università Nazionale e Capodistriana di Atene
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(16 dicembre 2020)



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