Derek Rocco Barnabei, venti anni dopo
Alessandro Zaffanella
Il 14 settembre di venti anni fa, al termine di un controverso procedimento penale, veniva sottoposto a iniezione letale Derek Rocco Barnabei, cittadino americano di origini senesi.
I fatti: a Norfolk (Virginia), il tardo pomeriggio del 22 settembre 1993 le acque del fiume Lafayette restituivano il corpo di Sarah Wisnosky, studentessa 17enne iscritta al primo anno della Old Dominion University. La ragazza aveva una relazione con il 26enne Barnabei, alloggiato in una fraternity house con altri quattro ragazzi (alcuni a loro volta universitari). Domicilio che aveva improvvisamente lasciato poco prima del ritrovamento del cadavere. Ai compagni aveva detto che si sarebbe assentato per qualche giorno per andare a trovare la famiglia nel New Jersey (proprio il 22 settembre ricorreva il compleanno della madre). Tuttavia non avrebbe più fatto ritorno a Norfolk. L’autopsia aveva nel frattempo stabilito che la vittima era stata colpita mediante un corpo contundente ignoto, e che nelle parti intime erano presenti lo sperma del suo ragazzo e segni di un rapporto sessuale violento. Elementi che uniti alle testimonianze dei coinquilini di Barnabei circa la presenza della ragazza nella sua stanza la sera prima (luogo del delitto secondo gli investigatori e l’accusa), dei suoi comportamenti sospetti nelle ore successive, nonché della sua improvvisa partenza, spinsero le indagini della polizia verso un’unica direzione: il partner stupratore e omicida, tralasciando altre piste. Il presunto killer venne arrestato con l’accusa di violenza sessuale e omicidio (capital murder, assassinio aggravato comportante la pena capitale) e condannato a morte nel 1995.
Nel corso del processo di primo grado, con riferimento alle tracce di liquido seminale, l’imputato ammise di aver consumato con la vittima un rapporto sessuale, ma che lo stesso era stato consenziente. Furono sentiti testimoni che dovevano aiutare a ricostruire il profilo di Barnabei, ma le deposizioni furono contrastanti. L’ex moglie e un’altra precedente partner asserirono di essere state vittime di abusi. Altre due donne che gli erano state legate sentimentalmente lo descrissero al contrario come un uomo dolce, pacato e rispettoso.
Molte le contestazioni da parte della difesa. In particolare, si denunciò che le piste alternative emerse (tra cui tracce ematiche attribuibili a un soggetto non identificato presenti sulle unghie della ragazza) non erano state sottoposte ad alcuna valutazione. Fu inoltre adombrata una possibile responsabilità di tre dei coinquilini di Barnabei: profittando dell’assenza (per alcune ore) del fidanzato dall’abitazione, avrebbero rivolto delle avances sessuali a Wisnosky, e il doppio crimine sarebbe stato causato dal rifiuto. Ipotesi influenzate dal fatto che la polizia non aveva compiuto alcun accertamento sugli altri membri della casa, ma che tuttavia non furono mai dimostrate.
La difesa ottenne infine, poche settimane prima dell’esecuzione, un nuovo test del DNA, concesso tuttavia solo relativamente ad alcuni frammenti. I risultati scomparvero misteriosamente per quattro giorni: l’esito confermava l’appartenenza del DNA al condannato, ma il mistero della momentanea sparizione faceva sorgere il sospetto di un inquinamento probatorio. Gli ultimi estremi tentativi di bloccare l’esecuzione non sortirono effetto. Il Governatore della Virginia James Gilmore rifiutò la concessione della grazia e la Corte Suprema rigettò i ricorsi presentati.
Avrebbe potuto trattarsi di una storia di cronaca nera americana come tante altre, ma non lo fu per i risvolti mediatici che circondarono la vicenda in Italia. Nell’estate del 2000 i telegiornali nostrani mandarono in onda svariati servizi sulla corsa contro il tempo per salvare il condannato dal patibolo. Molti politici si espressero contro la condanna all’esecuzione capitale: in prima linea fu impegnato il parlamentare DS Fabrizio Vigni, che tenne molti contatti con la famiglia dell’imputato.
Prese di posizione furono espresse da Walter Veltroni, Lamberto Dini e Alfredo Biondi. In una nota presidenziale, Carlo Azeglio Ciampi incoraggiò “ogni iniziativa volta a ricercare una soluzione positiva”, mentre il Presidente della Camera Luciano Violante rivolse un appello (insieme ai presidenti dell’Assemblea Nazionale francese e del Bundestag) al Governatore Gilmore. Vi furono poi le voci di intellettuali, sportivi, ecclesiastici, tra cui Papa Giovanni Paolo II. Poche ore prima dell’esecuzione si tennero fiaccolate popolari, da Milano alla Sicilia, passando per la Capitale (“Barnabei, l’Italia scende in piazza”, titolava La Repubblica). Una partecipazione emotiva che probabilmente era influenzata dalle lontane origini italiane del detenuto: una sorta di automatica empatia per un compatriota alla lontana, che catalizzò l’attenzione sul caso in un Paese dove pure l’eco di altre condanne a morte nel mondo giunge normalmente soffocato e inascoltato. Ciò che se da un lato garantiva visibilità internazionale alla vicenda, dall’altro implicava un’adesione acritica da parte di molte persone, il che non contribuiva a porre l’accento su una questione che trascendeva peraltro il destino dello stesso Barnabei: è giusto condannare a morte un essere umano?
La domanda, potrebbe in fondo essere capovolta. Perché mai si dovrebbe essere contrari alla pena di morte? Chiunque commetta un atroce delitto lo merita. Punire è bello, punire duramente ancor di più (non è forse la logica che guida anche la tendenza al panpenalismo del legislatore italiano?). La pena retributiva trasfigurata nella legge del taglione, occhio per occhio, dente per dente. La vendetta in nome della vittima che sconfigge la “giustizia delle Eumenidi”, quella sfrontata che osa tutelare le garanzie individuali del delinquente e sbarrare la porta all’inumanità della punizione. E tuttavia, proprio dinnanzi alla condanna capitale le ragioni per dire “no” sono molteplici. Potrebbe ricordarsi che qualsiasi condanna, privando un essere umano della propria libertà, dovrebbe essere il frutto di una decisione ponderata. Ma è proprio nei processi in cui viene sentenziata la pena di morte che la soglia dell’oltre ogni ragionevole dubbio viene difficilmente superata. Indagini frequentemente condotte frettolosamente per trovare un colpevole, verdetti legati a sensazioni personali. Se nessuno si sognerebbe mai di considerare moralmente accettabile l’omicidio, è etico che uno Stato decreti l’uccisione di un potenziale innocente? E di un colpevole? Si affianca poi la diseguaglianza nell’applicazione: persone condannate sulla base di apparati probatori deboli, assassini conclamati risparmiati. Quale il senso? Pesa il portafoglio: i poveri quasi mai possono permettersi legali bravi e competenti, e l’esito drammatico di una difesa inadeguata è scontato (il tema fu messo al centro della 15esima Giornata mondiale contro la pena di morte nel 2017). Talora sono punite persone con disabilità mentali e intellettive, non in grado di comprendere il significato di una simile condanna: quale utilità?
E ancora: il non funzionamento della pena come deterrente (si riscontrano spesso delitti più efferati nei Paesi che la contemplano). I costi elevati: l’isolamento, la durata dei processi, gli attori coinvolti (medici, psichiatri, investigatori), gli ulteriori esborsi che il singolo Stato deve sobbarcarsi per garantire una parvenza di giusto processo per i meno abbienti (spese di difesa, eventuali appelli, tempo passato nel braccio della morte): alla faccia di chi sostiene che “eliminando l’assassino si risparmia”.
Da ultimo, il problema delle iniezioni letali, fino allo scorso anno effettuate con la somministrazione progressiv
a di tre farmaci: frequenti le paralisi e le coscienti agonie tra i vari “step” della morte, sebbene l’Ottavo emendamento vieti “l’inflizione di pene crudeli”.
Sono le principali obiezioni che da sempre si oppongono al supplizio del patibolo. Semplici chiacchiere da “buonisti”? Eppure nella Virginia che condannò Barnabei qualcosa pare esser cambiato. Nel braccio della morte sono oggi presenti solamente due persone. Non vi sono esecuzioni in calendario e non ne avvengono dal 2011. Solo l’emergenza sanitaria ha dettato il rinvio al 2021 dell’esame del DDL SB 449 da parte della Commissione Giustizia del Senato: un disegno di legge abolizionista. Lo scorso febbraio ventuno procuratori hanno sottoscritto una lettera per sollecitare l’abrogazione dell’esecuzione capitale, definita “un programma governativo fallito”, sia per l’applicazione geograficamente arbitraria (è di fatto disapplicata nella maggior parte delle contee), sia per la crescente riluttanza delle giurie nel pronunciarla. È giusto che chi faccia del male ne paghi le conseguenze: ma si può assicurare in un altro modo la certezza della pena e il rispetto del dolore dei parenti delle vittime (oltre del senso di giustizia per chi è stato barbaramente ucciso). Questo il sunto del pensiero di chi ha avuto a che fare per anni con il doppio orrore, quello del crimine atroce e quello della sua tremenda punizione. Un dato significativo: i promotori della missiva sono di diverso orientamento politico. Primi firmatari l’ex procuratore generale Mark L. Earley Sr., repubblicano, e il procuratore generale William G. Broaddus, democratico.
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(11 settembre 2020)
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