Di pandemie, Briatore e migrazioni
Francesco Filippi
Il web è un luogo fantastico. Un enorme supermercato di senso in cui si possono trovare chicche davvero gustose. Sui social ad esempio gira un meme, molto condiviso, che si intitola “Tragedy World Map” e divide il mondo secondo il criterio “How terrible it is for the World a tragedy happens in…”.
Il globo risulta così spartito in cinque macroaree:
– WHAT A TERRIBLE TRAGEDY! / CHE TERRIBILE TRAGEDIA (Europa occidentale, Israele, Nord America Alaska esclusa, Giappone, Australia)
– “THAT’S SAD!” / CHE TRISTEZZA (Europa orientale, Messico, Sud America, Egitto, Sud Africa, India, Corea del Sud, Nuova Zelanda)
– “WELL, LIFE IS LIKE THIS” / BEH, È LA VITA (Russia, Cina, Medio Oriente, Centro America)
– “WAIT, DOES THIS COUNTRY EXIST? / ASPETTA, ESISTE QUESTO PAESE? (Mongolia, Asia Centrale, e Sudorientale)
– “WHO CARES?” / A CHI INTERESSA? (Corea del Nord e continente africano).
– “THAT’S SAD!” / CHE TRISTEZZA (Europa orientale, Messico, Sud America, Egitto, Sud Africa, India, Corea del Sud, Nuova Zelanda)
– “WELL, LIFE IS LIKE THIS” / BEH, È LA VITA (Russia, Cina, Medio Oriente, Centro America)
– “WAIT, DOES THIS COUNTRY EXIST? / ASPETTA, ESISTE QUESTO PAESE? (Mongolia, Asia Centrale, e Sudorientale)
– “WHO CARES?” / A CHI INTERESSA? (Corea del Nord e continente africano).
Il ruvido sarcasmo di questa ricostruzione, peraltro realistica, racconta molto di quanto siano ancora solidi i confini dell’universo eurocentrico che proiettò se stesso sulle mappe a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Un’eredità che non sembra scomparire anche oggi che il declino politico ed economico del cosiddetto occidente apre nuovi scenari di crescita imperiale in altre zone del pianeta.
Questa cartina racconta anche dello scalino di “importanza mediatica” rappresentato dal Mediterraneo. Una vera e propria faglia tettonica in cui accanto al cuore della zona “what a terrible tragedy!” giace l’immenso territorio incognito di “who cares?”, del “che ce frega?”.
Ultimo esempio in ordine di tempo di questa discrasia apparentemente insanabile sono le reazioni alle vicende di salute di un imprenditore di origine cuneese e il grande rumore che attorno a esse è stato fatto. La storia è nota: dopo aver sostenuto le ragioni dell’economia contro quelle della salute e aver minimizzato la portata della pandemia, lo stesso imprenditore è stato contagiato dal virus. Internet non perdona, si sa, e una valanga di commenti, spesso caustici, hanno saturato il web. Si è parlato di karma, di legge del contrappasso e di giustizia divina, addirittura. Altrettanto scontata la levata di scudi di chi, all’opposto, invoca il rispetto della vita umana, la pietà nei confronti di chi soffre, la sospensione del giudizio di fronte alla tragedia della malattia.
Un intero paese si è sentito in dovere di commentare lo stato di salute di un individuo divenuto il simbolo, probabilmente suo malgrado, del limite fragile davanti a cui ci si dovrebbe fermare per rispettare una vita. La cosa più curiosa di questo scambio è che molti media hanno scritto articoli per parlare della mancanza di rispetto di fronte a una tragedia intima: un pensiero nobile, condivisibile, giusto. È consolante rilevare come una parte consistente degli organi di informazione dimostri tanta “umanità”.
Sconsolante è invece il fatto che in pochissimi notino il paradosso di testate che, difendendo giustamente la dignità di un singolo, non vedano quanto questo nobile intento sia lontano dai titoli con cui di solito accompagnano le notizie sulle tragedie quotidiane legate alle migrazioni. Morti raccontate un tanto al chilo, decine, centinaia, migliaia di cadaveri che, secondo la frase attribuita ad Adolf Eichmann, da tragedia si trasformano facilmente in statistica. Questi morti non hanno diritto all’intimità e al rispetto ma si ammucchiano nel novero dell’orda che invade. Anche per quanto riguarda l’emergenza pandemica, la stessa di cui è vittima l’imprenditore, chi arriva a sbarcare nella zona “What a tragedy!” viene velocemente declassato da malato a “contagiato/contagioso”, e all’umana pietà di fronte alla malattia si sostituisce l’odio per l’untore, presunto o reale (a proposito di untori, ad oggi pare che nel locale dell’imprenditore i positivi, solo tra i dipendenti, siano più di cinquanta).
Ecco, perché in pochi notano questa contraddizione?
Probabilmente perché, come ci insegna la mappa di cui sopra, la faglia tra il “noi” che merita l’appellativo di tragedia e il “loro” di cui non ci importa un fico passa proprio da questo mare stretto, che un secolo e mezzo di narrazione imperiale e coloniale ha mutato da “nostrum” a “incognitum”. Il paradosso non si vede semplicemente perché, oggi, siamo incapaci di riconoscere nell’altro che uscendo dal cono d’ombra dell’informazione internazionale entra nelle nostre vite qualcuno di simile a noi. Qualcuno, banalmente, che ha il diritto di essere malato ma non per questo colpevole.
Il web è un luogo fantastico, dicevamo, anche perché spesso riesce a diventare un magazzino di memoria. Per questo motivo sarà importante, alla prossima tragedia del mare, ricordare a chi oggi difende la dignità della vita di un uomo ammalatosi perché non credeva alla profilassi il fatto evidentemente non scontato che anche la vita di chi si sposta per vivere ha dignità, valore, e merita rispetto.
(28 agosto 2020)
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