I CLASSICI DI MICROMEGA: ‘Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo’ di Galileo Galilei presentato da Telmo Pievani
Telmo Pievani
È il libro della maturità di Galileo, che si mette in pericolo perché era diventato sempre più difficile per lui considerare l’eliocentrismo “una pura ipotesi matematica”. E sappiamo come andò a finire: con la messa all’Indice, il processo, l’abiura e il confino di fatto nella villa di Arcetri. Ma il ‘Dialogo’ è anche e prima di tutto un’opera che obbedisce a un principio etico di condivisione delle conoscenze, quanto mai attuale anche quattro secoli dopo.
Si tratta quindi del libro della maturità di Galileo, che si mette in pericolo perché era diventato sempre più difficile considerare l’eliocentrismo, intuito da Aristarco di Samo nell’antichità e poi formalmente teorizzato da Copernico, solo «una pura ipotesi matematica». Il Dialogo è la sua dichiarazione di indipendenza, l’opera compiutamente cosmologica del grande scienziato, irreversibilmente in rotta di collisione con il geocentrismo dottrinario. Non che nelle altre inquiete regioni del cristianesimo si navigasse nel mare della tolleranza: «Lo stolto, vuol rovesciare tutta quanta l’astronomia», aveva tuonato Martin Lutero nel 1539 (quattro anni prima dell’uscita, a Norimberga, del De revolutionibus orbium cœlestium di Copernico).
Galileo aveva aderito a quel copernicanesimo di sicuro (se non prima) già alla metà degli anni Novanta del Cinquecento – quando era a Padova, dove trascorse i 18 migliori anni della sua vita in un clima di grande libertà di ricerca – anche se per la prima manifestazione pubblica del suo pensiero al riguardo bisognerà attendere il 1610. Da allora inizierà a pensare al Dialogo sui massimi sistemi e ai Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica ed i movimenti locali, stampato a Leida soltanto nel 1638.
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Il Dialogo è soprattutto un’opera in volgare che obbedisce a un principio etico di condivisione delle conoscenze, quanto mai attuale anche quattro secoli dopo: le evidenze nuove della scienza, raggiunte grazie alla libertà incoercibile della ricerca, devono essere comunicate a tutti e contribuire al progresso dell’intera società. La chiarezza dello stile diretto, l’assenza di fronzoli, la lucidità e la capacità di sintesi fanno di questo testo, al contempo, una voluta rottura contro la scrittura paludata dei dotti del tempo e un imperituro capolavoro di prosa scientifica, impregnato com’è di esemplificazioni concrete, di racconti di esperienze reali, di nitide argomentazioni.
La lingua di Galileo, modello di quella leopardiana, fece dire a Italo Calvino nel 1967 che «il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo, Galileo, appena si mette a parlare della luna innalza la sua prosa ad un grado di precisione e di evidenza ed insieme di rarefazione lirica prodigiose». E in risposta a chi lo criticava per aver messo Galileo in cima agli scrittori italiani di prosa, appena dopo Machiavelli, Calvino aggiungeva: «Galileo usa il linguaggio non come uno strumento neutro, ma con una coscienza letteraria, con una continua partecipazione espressiva, immaginativa, addirittura lirica».
La sua non era infatti soltanto una questione di stile. Per contrapporsi alle autorità accademiche ed ecclesiastiche, Galileo mise in atto una vera e propria strategia di politica culturale. Non usò il latino perché non scriveva per loro. Scriveva per tutti gli altri, scriveva per tutti quelli sufficientemente curiosi da aprirsi alla nuova visione del cosmo, e magari capaci di emozionarsi per il dischiudersi di un universo aperto e di una mappa del mondo in gran parte ancora da esplorare. Il Dialogo mette in scena il teatro della scienza, le idee della nuova astronomia che diventano racconto teatrale e dibattito pubblico.
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Formalmente, si presenta come un dialogo in stile classico, una «controversia» nella quale le diverse posizioni vengono analizzate, soppesate e confrontate. Ma la neutralità dell’autore non esiste. Il peripatetico Simplicio, citazione di Simplicio di Cilicia, commentatore di Aristotele del VI secolo, è il personaggio fittizio che metterà più nei guai Galileo, visto che una volta pubblicata l’opera apparve a tutti chiaro che le sue posizioni tolemaiche da filosofo tradizionale venivano demolite una dopo l’altra nel corso della conversazione. Riletto oggi, Simplicio più che una caricatura dell’avversario (o un riferimento polemico a qualche collega aristotelico del tempo) appare come una splendida mossa retorica per mettersi nei panni dell’altro: provate a immaginare di essere un tolemaico e guardate a quali conseguenze assurde giungerete. Anche Charles Darwin due secoli dopo userà la tecnica di immedesimarsi nelle obiezioni di chi la pensava all’opposto di lui.
Si contrappone a Simplicio il sostenitore dell’eliocentrismo, l’astronomo fiorentino Filippo Salviati, amico di Galileo morto precocemente nel 1614. Il paziente, ironico e razionale Salviati, convinto del valore persino semidivino del linguaggio matematico in cui è scritto il mondo (pp. 128-129) 1, assume spesso un atteggiamento maieutico, quello di chi fa nascere le idee nell’altro, le fa sgorgare senza imporle, il che svela apertamente le simpatie a suo favore dell’autore. Alla fine, Salviati demolisce tutte le confutazioni al copernicanesimo.
L’ospite è il nobile e colto veneziano Giovan Francesco Sagredo, ben disposto al nuovo ma non addentro alla materia, che fa la parte di quello che ne sa meno, chiede chiarimenti, tiene l’ordine del giorno e il filo dei ragionamenti tra i due contendenti. È anche il lettore ideale dell’opera. Con un’altra mossa geniale, Galileo gli mette spesso in bocca dubbi e incertezze, facendogli quindi impersonare dialogicamente il carattere controintuitivo del copernicanesimo, verso il quale tuttavia simpatizza fin da subito preferendolo alle asserzioni dogmatiche di Simplicio che si arrampica sui vetri parlando di «illusioni del cannocchiale» (p. 66).
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Il Dialogo si svolge in quattro giornate, la prima delle quali contiene la pars destruens dell’opera, cioè una serrata critica della fisica e della cosmologia aristoteliche per come presentate nei primi due libri del De caelo. I tre gentiluomini discorrono cordialmente, disegnando figure per farsi capire (soprattutto Salviati) e interrompendosi raramente (qualche volta quando Simplicio vede troppo maltrattato il suo Aristotele). L’ammiccamento di Galileo al lettore è continuo. I temi principali di partenza sono due: 1) non ha senso distinguere i corpi in pesanti e leggeri, come se fosse una dicotomia: leggerezza e pesantezza sono qualità relative, da intendersi in un continuum; 2) i corpi celesti non sono perfetti. Le osservazioni galileiane al cannocchiale avevano mostrato che Luna e Sole non sono corpi inalterabili: ha crateri, pianure e gibbosità la prima; macchie il secondo. Mondo terreno e mondo celeste fanno parte della stessa fisica.
La penultima traccia di perfezione dei corpi celesti, la loro rotondità, doveva essere imputata alla gravitazione, cioè non a un’essenza metafisica apriori, ma a una sorta di qualità intrinseca e di inclinazione che tiene insieme le parti di un tutto, un concetto già di Copernico che Galileo riprende. Contro la tradizione accademica verbosa e astratta, artificiosa e illusoria, la prosa di Galileo esalta le osservazioni, le sensate esperienze e le argomentazioni. È tempo di volgere lo sguardo dagli scaffali delle biblioteche medioevali al «gran libro della natura» scritto in lingua matematica. Tra le righe c’è un mondo che muore, quello delle accademie tradizionali rinascimentali, e un mondo che sorge, quello dell’esperienza, della tecnica, del lavoro concreto e utile dei «vili meccanici».
Mentre illustra dialogicamente i princìpi della nuova dinamica (la legge dell’accelerazione di caduta dei gravi; la proporzionalità dell’accelerazione rispetto al te
mpo; la sua indipendenza da altri moti), Galileo fa enunciare a Sagredo (pp. 73-74) un concetto cruciale. Non è nobile solo ciò che è impassibile e perfetto, ovvero ciò che persiste in una morta assolutezza metafisica (come pensano i tolemaici dei corpi celesti), vi è molta più nobiltà in una Terra che muta, che prende parte al sistema dell’universo come attrice fra i molti, un «globo mondano» che si rigenera nella sua imperfezione, quasi fosse «animal vivo». Sui diamanti e sull’oro non cresce nulla.
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La seconda giornata di amabili conversazioni nel palazzo sul Canal Grande di Sagredo è incentrata sulle argomentazioni in positivo per mostrare la plausibilità razionale della rotazione terrestre. Due le maggiori: 1) il moto diurno degli astri è apparente, è l’immagine negativa di una rotazione in 24 ore da est a ovest: ciò che accade realmente è una rotazione di 24 ore della Terra da ovest a est; 2) la Terra quindi gira su se stessa ma noi non ce ne accorgiamo. La gittata di un cannone non cambia se spariamo verso oriente o verso occidente. Perché?
La forza centrifuga non si percepisce perché la rotazione è troppo lenta e la velocità angolare insufficiente. Quindi il moto della Terra, rispetto alla sensibilità di un essere umano, è indistinguibile da un moto rettilineo uniforme. Inoltre, poiché all’interno di un sistema non si può stabilire se il sistema stesso sia in quiete o in moto rettilineo uniforme, un osservatore collocato sulla Terra non ne percepisce il movimento di rotazione. È il celebre principio della relatività cinematica galileiano: per un osservatore posto sulla Terra, tutti gli oggetti partecipano dello stesso moto e dunque accadono come se la Terra fosse immobile. Qui Galileo si cimenta in una delle pagine più belle della letteratura scientifica.
Immaginate – dice il «copernichista» Salviati – un «gran navilio» in movimento (l’esempio traspare già in Giordano Bruno, il cui rogo del 1600 era ancora caldo nella memoria): andate sottocoperta e osservate cosa succede. Le mosche volano come se l’imbarcazione fosse ferma! Si può giocare a palla o nuotare in una piscina come se nulla accadesse all’esterno, sempre che il moto della nave sia uniforme e il mare calmo. Allo stesso modo, gli oggetti sulla Terra, che siano a essa ancorati oppure no – come nuvole, proiettili, uccelli e umani – non si spostano in senso inverso al suo moto.
Sottocoperta è tutto normale, come se la nave non fosse per mare, perché il suo moto si trasmette a tutto ciò che essa contiene, senza variare gli stati di moto o di quiete al suo interno. Ciò implica che non esiste un sistema di riferimento assoluto, perché noi viaggiamo sulla nave-Terra e non ci accorgiamo dei suoi moti come invece farebbe un osservatore neutrale posto al di fuori di essa. E dunque, implicitamente, la Terra non può essere il centro unico e assoluto dell’universo: è un mondo in mezzo a tanti altri mondi.
La nave di Galileo (pp. 227-229) è giustamente diventata un esempio paradigmatico di esperimento mentale, utilissimo strumento del metodo scientifico. La descrizione è dettagliata, coinvolgente, persuasiva. In un altro passo, immagina che cosa succederebbe se all’improvviso la Terra smettesse di ruotare sul proprio asse. Come faranno poi molti suoi illustri successori, Galileo immagina un esperimento non effettivamente realizzato, ma esperibile in un altro momento (il prossimo viaggio in nave) o comunque plausibile benché irrealizzabile a causa di limiti fisici (come sarà per gli esperimenti mentali di Einstein). Nel costruire l’esperimento mentale Galileo, proprio come fa nei suoi esperimenti reali, definisce i parametri essenziali per la sua riuscita, i fattori di disturbo da eliminare per quanto possibile per cogliere le qualità primarie oggettive del fenomeno studiato, la legge matematica sottesa, le sue implicazioni teoriche (nel caso del naviglio, il principio di inerzia, cioè il principio secondo cui un corpo persiste nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme se non interviene una forza a modificarne lo stato).
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