Dialogo tra un sessantottino e il suo spirito critico
Pubblichiamo un estratto da "SESSANTOTTO: MITO E REALTA’", lo straordinario volume monografico sul ’68 allegato al numero 1/2008 di MicroMega (per acquistare numeri arretrati chiamare lo 02.69789447), con contributi di Pancho Pardi, Sergio Staino, Dario Fo, Lidia Ravera, Gad Lerner, Massimiliano Fuksas, Oliviero Toscani, don Andrea Gallo, Serena Dandini, Ascanio Celestini, don Enzo Mazzi, Claudio Bisio, Moni Ovadia, Carlo Petrini, mons. Vincenzo Paglia, Gianni Vattimo, Franco Cordero, Mohammed Yunus, ElleKappa, Dan Sperber, Daniel Mothé, Carlo Freccero, Alain Touraine, Stefano Petrucciani, Emilio Carnevali, Fabio Papalia
A – Anniversari. Sono quarant’anni dal ’68 e sessanta dalla Costituzione.
B – Ormai sono più vicini tra loro di quanto lo siano dal presente.
A- Un mio amico dice che per i giovani di oggi il ’68 è attuale come lo sbarco dei Mille.
B – Il ’68 è rimasto fermo lì, mentre la Costituzione è tornata in primo piano.
A – Invece nel ’68 della Costituzione nessuno si dava pensiero: era lo sfondo della scena repubblicana. Sembrava lontana, come la guerra.
B – Venti anni fra la Costituzione e il ’68; quasi venti anni tra la caduta del Muro di Berlino e oggi.
A – Eppure quei vent’anni mi sono sembrati interminabili, mentre la caduta del Muro di Berlino mi sembra ieri.
B – È l’effetto dell’età: il tempo scorre sempre più in fretta.
A – Sarà così. Ma la sensazione di rapidità potrebbe dipendere dal fatto che non è successo quasi nulla. Il tempo vuoto ti fa annoiare e ti pare lungo ma ripensato alla fine sembra accorciato.
B – Che vuol dire: non è successo quasi nulla?
A – Per esempio che nella prima metà del Novecento, anzi in soli trent’anni, ci sono state due guerre mondiali e due rivoluzioni continentali, mentre nella seconda metà solo chiacchiere.
B – Esagerato. Intanto nel resto del mondo le guerre sono continuate dappertutto, e poi non si può dire che nella seconda metà del secolo non è successo niente. L’Italia è passata in pochi decenni dal mondo rurale a quello postindustriale, e nelle città italiane la parte costruita dopo gli anni Sessanta è ovunque più vasta di tutto ciò che era stato costruito dalla loro fondazione fino a metà secolo.
A – Il che non è detto sia un miglioramento.
B – Però tutto è cambiato con grande rapidità e intensità.
A – Sì ma sono mutamenti materiali che non riescono ad attenuare la mia sensazione che la nostra vita è stata molto più insignificante di quella di chi ha vissuto nella prima metà.
B – E perché mai?
A – Fai il confronto. C’è chi ha visto nell’infanzia la prima guerra, è stato costretto a partecipare alla seconda e magari ha fatto la resistenza contro il fascismo. Chi ha vissuto dopo avrà avuto forse un’infanzia felice (e come dicono i romanzieri la felicità non ha storia) poi il ’68 o il ’77, la lunga durata della Democrazia cristiana, e poi Craxi e Berlusconi. Un mezzo secolo a dir poco mediocre.
B – Ma è un paradosso: nel primo mezzo secolo moltissimi non sono nemmeno riusciti a vivere.
A – Non ho detto che il nostro periodo è peggio; ho detto solo che è più insignificante. Pensa al cambio di velocità. In fondo il fascismo è durato solo vent’anni e il nazismo addirittura solo dodici. E in quei dodici anni ha scatenato l’inferno e ci si è bruciato dentro. Al confronto l’intervento occidentale nel Medio Oriente, a partire dalla guerra del Golfo, è durato già oggi cinque anni di più e non se ne vede la fine. Se poi pensi che dal primo governo Craxi ci sono voluti venticinque anni per trascinarci fin qui e avere ancora tra i piedi il suo frutto avvelenato: è il dominio della lentezza.
B – Ma al contrario gli anni Sessanta si erano presentati come l’epoca della velocità: dinamismo sociale, sviluppo economico, migrazioni interne, diffusione dei consumi, cambiamento degli stili di vita, libertà sessuale. Tutto rapido, tutto serrato. Però concentrarsi sulla percezione del tempo mi pare più psicologia che politica. Così tornando ai nostri anniversari, il tuo paradosso appiattisce tutto e rende mediocre insieme al resto anche il ’68. Invece ci sarebbe almeno un motivo polemico per considerarlo significativo e più attuale di quanto possa apparire ora.
A – Quale sarebbe?
B – Sarkozy ha messo tra i fondamenti della sua politica la cancellazione dello spirito del ’68. Dunque ci doveva essere della qualità nel ’68.
A – Certo. Ma Sarkozy è solo l’ultimo di una sfilza di benpensanti che hanno attribuito al ’68 scioperi, assenteismo, mancanza di civismo, ribellismo e alla fine il terrorismo del decennio successivo.
B – Sintesi estrema di questa retorica, la critica di Sarkozy al ’68 è triviale ma al tempo stesso rivelatrice. Per lui significa: giovani fannulloni protetti dallo Stato assistenziale. In un certo senso confonde il ’68 col risultato delle lotte sindacali…
A – … ma le lotte sindacali non hanno garantito ai giovani fannulloni la protezione dello Stato assistenziale. Magari lo pensa qualcuno in Confindustria ma non è vero.
B – Per fare una battuta mi sono spiegato male. Le lotte sindacali, quando ci riescono, attenuano la concorrenza interna al mondo del lavoro; e per Sarkozy la tara principale del ’68 è in fondo la lotta contro la competitività. Oggi il pensiero padronale…
A – … oggi non ci sono più padroni ma solo imprenditori…
B – … il pensiero imprenditoriale ha una sola parola chiave: competitività, concorrenza. Poi bisognerebbe vedere se in questa apologia c’è più finzione o realtà. La finzione c’è di sicuro. I capitalisti che contano sono sempre più abili a farsi aiutare dal sistema politico a fare profitti in ambiti di economia protetta. Il sistema perfeziona la privatizzazione degli utili e la socializzazione delle perdite. Nei settori strategici dell’economia la concorrenza esiste solo nei manuali della Bocconi.
A – Però c’è anche la realtà ed è dura: l’unica competizione reale che piace davvero ai capitalisti è quella dentro il mercato del lavoro. Con la globalizzazione della precarietà hanno rovesciato i rapporti. La loro aspirazione finale è: non più una collettività operaia davanti al capitalista, ma al contrario il singolo lavoratore precario solo di fronte alla classe dei capitalisti. Ora, Sarkozy riduce il ’68 a pacchia dei fannulloni perché gli piace individuarlo come nemico originario nella sua battaglia per una nuova spallata di liberismo allo Stato assistenziale, ma la ragione profonda è che col suo istinto padronale coglie nel ’68 una visione della società che rifiuta il principio della competizione che piace ai capitalisti.
B – Quindi mi dai ragione. A suo modo Sarkozy riattualizza il ’68. Allora forse vale pena di considerarne i caratteri originali.
A – Proviamoci. Ti confesso che ogni discorso sul ’68 mi sembra irrimediabilmente falso. Sembra che non si riesca mai a trovare il tono giusto per parlarne. Però se devo espormi mi pare che i caratteri che resistono meglio al passare del tempo sono proprio quelli di cui il suo ceto politico aveva cercato di liberarsi.
B – Chi? I gruppi extraparlamentari?
A – Sì. Il ’68 era nato come movimento spontaneo contro l’ordine costituito, votato alla critica, alla demistificazione
, all’insubordinazione. Mentre i gruppi extraparlamentari hanno in breve tempo riaffermato, o provato a riaffermare, il rifiuto dello spontaneismo, la disciplina dell’organizzazione, e alla fine si sono occupati solo di quella.
B – Ma non puoi negare che anche i gruppi extraparlamentari erano un prodotto del ’68. E anche la loro disciplina è presto andata all’aria.
A – Sì, però non prima di aver soffocato la spinta originaria del movimento.
B – Insomma vuoi fare del revisionismo sui gruppi extraparlamentari?
A – Non voglio cacciarmi in un ginepraio. Vorrei solo rilevare che sia nel ’68 che nel ’77 dal largo crogiuolo del movimento nascono forze più o meno organizzate che con le loro fissazioni contribuiscono a togliere vitalità al movimento da cui provengono.
B – Non è un po’ troppo manichea la distinzione? Nel ’68 c’era una molteplicità di esperienze a cui partecipavano tutti. C’era molta varietà nelle componenti e dinamiche interne: l’allegria contagiosa del movimento, le occupazioni contro la riforma universitaria, le manifestazioni contro la guerra nel Vietnam, il situazionismo (chi si ricorda più cos’era?), il terzomondismo, la scoperta dei dannati della terra, la Scuola di Francoforte, il rapporto tra studenti e operai; la scoperta dello sfruttamento e del pensiero operaio, i volantinaggi davanti alle fabbriche. E le riviste che erano già storiche allora: Classe operaia, Quaderni rossi. E c’erano anche i dogmatici marxismi leninismi (al plurale perché più d’uno e ridicolmente rivali tra loro). E l’inizio del femminismo che esploderà poi negli anni successivi.
A – Ma questa grande molteplicità era tutta tenuta insieme dall’influenza dell’idea di rivoluzione. Prima si era parecchio affievolita ma col ’68 riprende energia. Ma non l’hanno mica inventata i sessantottini. Il Pci era di fatto socialdemocratico però non voleva ammetterlo (grande cruccio di Amendola). Voleva le riforme di struttura ma non aveva il coraggio di ripudiare apertamente la rivoluzione. Peggio ancora: identificava la rivoluzione con il socialismo reale.
B – Però l’idea di rivoluzione presente nel movimento era molto diversa dall’idea tradizionale: sciopero generale, insurrezione e presa del potere. Nel ’68 il rifiuto della guerra nel Vietnam si accompagnava a una profonda solidarietà verso il mouvement americano, e molto americani erano i costumi del ’68: beat generation e più ancora Bob Dylan.
A – Infatti il ’68 è un inedito prodotto della combinazione tra costumi americani alternativi e un’idea ottimistica di rivoluzione. E questa fiducia forse spiega perché, impegnato a demistificare tutto, il ’68 non abbia demistificato la rivoluzione..
B – Facile dirlo ora. Ma allora quelli che preferivano le riforme alla rivoluzione erano visti come ragazzi giudiziosi precocemente invecchiati.
A – È vero. Però bisogna ammettere che era assurdo ritenere che dopo ben due guerre mondiali in trent’anni si potesse considerare realistica la prospettiva di una rivoluzione subito dopo la fatica immensa della ricostruzione. Come potevano le masse volere una nuova fase di grande confusione sotto il cielo? Eppure leggendo Haffner scopri che in Germania la fortuna del nazismo si è poggiata sui giovani che erano stati bambini piccoli durante la prima guerra mondiale. Sarebbe come dire: dopo una guerra c’è sempre una generazione cui prudono le mani.
B – Però così confondi la rivoluzione con la reazione: i ragazzi di Haffner volevano la rivincita dopo la sconfitta nella prima guerra mondiale. E poi nel nostro movimento non c’è solo prurito. C’è anche il determinismo marxista: dopo la rivoluzione borghese la rivoluzione proletaria. E, anche se in un solo paese (in realtà in due, ma la Cina era lontana), la guerra imperialista era stata rovesciata in rivoluzione proletaria. E poi c’è anche il mito: la presa del Palazzo d’inverno, i Dieci giorni che sconvolsero il mondo, la Lunga marcia, il Vietnam, il Che.
A – Va bene, il mito. Ma il Sessantotto demitizzava. E non è che mancassero gli argomenti per guardare in controluce quelle cose là. Dalla rivolta degli operai di Berlino nel ’53, prima ancora di Budapest ’56, appariva chiaro che la dittatura del proletariato era una fregatura. Nel ’68 la critica sul socialismo sovietico era già stata messa a punto e gli intellettuali a sinistra del Pci smisero ben presto di nutrire illusioni.
B – Anche una parte di quelli nel Pci ma si autocensuravano. E alla fine anche gli operai con la Seicento e la lavatrice hanno presto dimenticato Stalin.
A- Piuttosto è curioso che non sia stata formulata in quegli anni una visione altrettanto critica della Rivoluzione culturale cinese. Cosa sarà stato? La voglia di avere una rivoluzione buona da contrapporre a una malriuscita? Nessuno dei gruppuscoli post ’68 si sarebbe sognato di ammirare la Russia di Brez?nev, che ha sempre ispirato un salutare ribrezzo, e invece c’era chi non aveva occhi che per la Cina.
B – Che era quanto di più lontano dallo spirito antiautoritario del ’68. È anche vero che era una Cina tutta idealizzata. Ricordi che qualcuno arrivava perfino ad apprezzare il tetro comunismo albanese.
A – Non bisogna neanche esagerare il peso di queste cose. Alla Cina poteva guardare solo una parte, abbastanza minoritaria, dei militanti politici, e questi erano una minoranza dentro la massa coinvolta nel ’68.
B – Appunto, con la Cina e dintorni siamo ben lontani dal mito. In realtà l’unico vero mito è quello del Che. Il mito della ribellione continua, per andare oltre la rivoluzione cubana ormai troppo influenzata dall’Urss. Operazioni fallimentari, insurrezioni contadine fantasticate, braccato nella foresta pluviale con un pugno di uomini, l’asma e Régis Debray (e basterebbe quello…). Avventuroso, bello e impossibile: attributi che fondano il mito ma negano il realismo della rivoluzione.
A – Ecco, qui hai toccato il punto: l’idea di rivoluzione nel ’68 era del tutto irrealistica. Non solo nel contesto terzomondista e contadino, ma anche nel capitalismo sviluppato e con una classe operaia matura. Non c’era progetto che andasse oltre il momento della rottura. Ci si rifugiava nella solita tiritera «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo», ma in realtà la rivoluzione nessuno sapeva come farla e nessuno sapeva cosa fare dopo. Lenin e i suoi avevano avuto idee molto più precise su entrambi gli argomenti.
B – Il che non depone a favore dei risultati: una transizione faticosa, durata quasi un secolo, per passare da un sistema feudale a un capitalismo neofeudale. La rivoluzione leninista per ritrovarsi con Putin. Che tristezza.
A – Restiamo per un momento alla rivoluzione irrealistica. La difficoltà di esprimere un progetto era fronteggiata con l’uso improprio del vecchio armamentario hegeliano: è il farsi stesso del processo che traccia la strada del suo superamento. Artificio dialettico che poteva prendere anche la forma più elementare: la nostra lotta è già di per sé rivoluzione. Scorciatoia consolatoria che eliminava perfino la necessità di immaginare il futuro.
B – Ora però esageri: finisci per dare ragione ai vecchi barbosi che criticavano il movimento come nichilista. Così arriverai a sostenere anche la vulgata sulla deriva verso la violenza.
A – No, questo no. La prima responsabilità della violenza è dello Stato.
B – Eppure lo Stato democratico deve avere il monopolio della violenza.
A – Bisogna vedere come lo usa. L
a Celere di Scelba non ha mai avuto la mano leggera e ha disseminato l’Italia di morti. E a Roma aveva accanto, come mostrano celebri foto, i picchiatori fascisti di Almirante. Che razza di monopolio era quello?
B – Che lo Stato non era neutrale si dava per scontato. Ma la tradizione del movimento operaio stabiliva che non bisognava cadere nelle provocazioni. In breve: ti picchiavano, e magari potevano ammazzarti, ma per non mettere in pericolo la collettività non dovevi rispondere. La non violenza era la risposta più saggia per l’inerme.
A – Sotto tutti i cieli è raro che i giovani siano saggi. Venti anni di Celere hanno prodotto la risposta di Valle Giulia. Un caso poi ingigantito dalla poesia di Pasolini: gli studenti piccolo borghesi viziati dal consumismo contro i poliziotti figli del popolo.
B – Dal punto di vista sociologico era una quasi verità.
A – Ma fermarsi alla quasi verità sociologica falsa l’interpretazione politica. Non erano figli del popolo anche quelli che avevano ammazzato gli operai di Reggio Emilia? Questo forse li giustificava? Comunque non è Valle Giulia il punto chiave nella scoperta della violenza. Un fatto di cui ormai si serba scarsa memoria.
B – Però a Valle Giulia fu evidente l’orgoglio del movimento di aver saputo rispondere per la prima volta sulla piazza alla polizia.
A – Se è per questo, la cosa era già accaduta a Genova nella rivolta contro il governo Tambroni, e in modo molto più dispiegato. E a Torino, a piazza Statuto, nel ’62 con i ragazzi dalle magliette a strisce che avevano ingigantito l’assedio alla Uil collaborazionista della Fiat.
B – È vero, però a Genova la violenza era solo operaia e aveva una giustificazione nazionalpopolare: Tambroni aveva accettato il sostegno del voto dei fascisti. Tanto è vero che il governo cadde subito. Insomma i fatti di Genova avevano una motivazione quasi istituzionale che mancava del tutto a Valle Giulia.
A – Sì, ma questo non basta a fare di Valle Giulia il momento chiave.
B – E allora quale sarebbe?
A – Non fare l’ingenuo. È perfino banale: è la strage di piazza Fontana, che noi giustamente insistiamo a chiamare Strage di Stato. Il 12 dicembre del ’69 finiva l’età dell’innocenza. Non solo per la strage in sé, ma per l’uso che lo Stato ne ha fatto. Ha distorto le indagini, ha evitato di cercare i colpevoli, ha coperto le ingerenze della Cia, ha accusato e incarcerato gli innocenti, ha spostato il processo da Milano a Catanzaro, e alla fine è riuscito a vanificare la storia giudiziaria di quella vicenda.
B – In realtà che le istituzioni traballavano lo si sapeva già dal ’64, quando il rumor di sciabole dei Carabinieri del generale De Lorenzo ridusse a miti consigli i socialisti nel primo centro-sinistra.
A – È vero, da questo punto di vista la strage di Stato è una seconda tappa. Ma la prima avvenne tutta dietro le quinte e si seppe qualcosa solo dopo che l’omertà fu violata da inchieste giornalistiche indipendenti. La strage di Milano invece mette la violenza al centro della scena pubblica e la attribuisce allo schieramento che ne è invece la vittima. Da quel momento in poi come fidarsi dello Stato? Tanto più che con Milano lo stragismo inizia soltanto e poi ritma tutti gli anni successivi. È perfino difficile ricordarle tutte: l’Italicus tra Firenze e Bologna, piazza della Loggia a Brescia, di nuovo Milano alla questura col finto anarchico Bertoli, e poi la stazione di Bologna. Il terrorismo di Stato ha preceduto il terrorismo antagonista. I benpensanti che addossano al ’68 tutte le responsabilità questo lo dimenticano.
B – Non giustificherai per questo l’approdo dei militanti al terrorismo?
A – Me ne guardo bene. Anzi, loro non hanno fatto che perfezionare la malattia, e alla fine l’hanno riconosciuto essi stessi. No, rilevo solo che tutti i movimenti di quegli anni sono nati e cresciuti nella diffidenza, non hanno mai potuto avere fiducia nelle istituzioni perché queste si erano svelate inquinate e inaffidabili. Quando si attribuisce ad Andreotti la qualifica di statista bisognerebbe andare a rileggere le sue deposizioni reticenti al processo di Catanzaro a vantaggio del generale Maletti, del capitano La Bruna e dell’agente segreto Giannettini che avevano inquinato alla radice, non da soli, le indagini su piazza Fontana. E quello non era che l’inizio. In quale altro parlamento europeo esiste una commissione Stragi? E le stragi pesano ancora oggi. Il centro-sinistra non ha fatto e non farà mai chiarezza perché non può permettersi di affermare ufficialmente le pesanti responsabilità Usa. E gli eredi del Pci sapevano benissimo che le stragi servivano soprattutto a impedire al Pci stesso di andare al governo ma si guardano bene, per opportunità diplomatica, dal pronunciare parola.
B – Insomma tu sostieni che senza le stragi e la complicità dello Stato nelle stragi tutta la nostra storia avrebbe potuto essere diversa?
A – Sì, molto diversa. Avrebbe potuto prevalere lo spirito positivo del movimento. Sarebbe mancata la molla che faceva scattare le attitudini guerresche dei gruppuscoli.
B – Che indirizzo avrebbe potuto prendere il movimento?
A – Rudi Dutschke aveva decisamente scartato l’idea tradizionale di rivoluzione e aveva parlato di Lunga marcia attraverso le istituzioni. Ma sono pronto ad ammettere che in Italia si era poco ricettivi a un discorso del genere.
B – In realtà non abbiamo mai saputo che cosa potesse essere.
A – È vero ma, qualsiasi cosa fosse, in Italia non abbiamo avuto nemmeno la possibilità di inventarcene una nostra versione per il motivo elementare che le istituzioni non erano credibili. I ministri dell’Interno erano pronti a usare senza risparmio l’infinita potenza dello Stato solo contro i manifestanti, ma si guardavano bene dall’usarla contro le trame nere.
B – È pur vero che anche a Rudi Dutschke piantarono presto un proiettile in testa e non ebbe molte opportunità di praticare quell’intuizione.
A – Comunque non è impossibile immaginare quale fosse il senso di quell’idea: un riformismo radicale. Un movimento di massa consapevole, critico, irriverente può modificare la realtà per passi successivi entrando nei meccanismi di gestione della società e non negandosi l’uso appropriato della rappresentanza politica.
B – Invece i movimenti nati dal ’68 hanno a lungo rifiutato questa prospettiva. Anche a voler considerarlo un errore indotto non si può negare una loro diretta responsabilità nella rinuncia all’uso dei mezzi offerti dalla democrazia.
A – In effetti si è perso tempo e molte occasioni. Se la cosiddetta autonomia del politico ha finito per generare la casta dipende anche dal fatto che al momento opportuno non si è stati capaci di introdurre nella politica gli opportuni anticorpi. È anche vero che la politica ha opposto strenua resistenza all’ingresso degli estranei. Come ha detto un reazionario talvolta sincero: in Italia non può fare politica chi non è ricattabile.
B – E così, dicono i benpensanti, dopo aver rovinato per sempre la meritocrazia, i sessantottini hanno riempito cattedre universitarie e saturato redazioni dei giornali.
A – Se è vero, meglio così. T’immagini se ci arrivavano solo gli ubbidienti? Certo c’è stato un periodo vuoto di azione collettiva. Ma alla fine c’è almeno una cosa che mi fa pensare a un ricongiungimento con l’intuizione di Dutschke. I movimenti recenti hanno ritrovato un rapporto positivo se non con le istituzioni reali almeno con un’idea positiva delle istituzioni. Molto più
; dei partiti, il protagonismo civile si è battuto contro l’anomalia italiana e alla fine è riuscito a salvare la Costituzione dal disegno eversivo del centro-destra. E ora può lavorare per un’attuazione più incisiva dei suoi princìpi progressivi.
B – Ma siccome la storia è ironica, ora il protagonismo civile deve fronteggiare il nuovo tentativo di rovinare la Costituzione promosso dal centro-sinistra. La riduzione del numero dei parlamentari è il modo più astuto, ma anche il meno efficace, per assecondare la spinta popolare alla riduzione dei costi della politica. L’attribuzione alla sola Camera dei poteri legislativi generali rende più rapida l’azione legislativa, ma siccome il disegno culmina nell’attribuzione al presidente del Consiglio di poteri maggiori, il risultato finale sarà un predominio del potere esecutivo sul legislativo. E resta poi da chiedersi nelle mani di chi cadrà quel potere. Anzi il centro-sinistra vuole il premio di maggioranza in modo che Berlusconi, se vincerà, possa stare tranquillo.
A – Sono d’accordo con te. Ma siccome abbiamo mescolato allegramente la storia con la politica, ci potranno dire che parliamo così perché non abbiamo la giusta prospettiva, la distanza che lo storico deve prendere dagli avvenimenti.
B – Questa storia della distanza non l’ho mai capita. In La strana disfatta Marc Bloch ha scritto a breve distanza di tempo una sintesi lucidissima sulla sconfitta dell’esercito francese di fronte all’offensiva tedesca all’inizio della seconda guerra mondiale, da lui vissuta proprio dall’interno dello Stato maggiore. Una cosa dura da digerire: la democrazia abbattuta dalla dittatura. E nell’incipit ricorda con un accenno di sorvegliata ironia l’esclamazione di un generale francese incredulo: la storia ci ha forse tradito?
(da MicroMega 01/2008)
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