DIARIO DELLE PRIMARIE / 1 – Il gioco delle primarie
Elisabetta Grande
Mentre l’attenzione della pubblica opinione pare ancora tutta concentrata sul processo di impeachment a Donald Trump, un’altra importantissima partita nell’avvicendamento alla carica presidenziale si sta aprendo sullo scenario politico statunitense. Mancano ormai, infatti, davvero pochi giorni all’inizio delle primarie del partito democratico negli States e la scelta del candidato da contrapporre all’incumbent Trump si presenta più che mai cruciale, giacché, com’è ovvio, il processo di impeachment non ha alcuna possibilità di chiudersi con una condanna dell’attuale Presidente e la sua conseguente rimozione dalla carica.
La più rosea delle speranze per i democratici è, infatti, che i senatori (che nel processo di impeachment sono contemporaneamente giurati e creatori delle regole del suo svolgimento) decidano di dar luogo a un vero dibattimento, ammettendo a processo gli elementi di prova che Trump ha impedito alla camera dei rappresentanti di conoscere durante le indagini. In tal caso, a fronte di possibili testimonianze e documenti particolarmente imbarazzanti, l’attesa è che almeno una parte degli americani perda fiducia in Trump negandogli a novembre il voto per la presidenza.
E’ per questo che la vera battaglia, nell’ottica di una possibile sconfitta di Donald Trump, passa necessariamente per l’individuazione del miglior candidato democratico alle presidenziali del 2020. Si tratta di una scelta che avviene attraverso una procedura che prende il nome di primarie, dietro cui sta l’esigenza di dare voce alle persone invece che ai vertici dei partiti, così da mobilitare l’interesse politico di un elettorato che stenta a partecipare alle elezioni nazionali.
Trasparenza, democrazia e capacità di far dialogare i candidati alle elezioni politiche con gli elettori, sono le qualità che fanno dello svolgimento delle primarie statunitensi (nate il secolo scorso durante la cosiddetta “progressive era”) un evento di grande rilevanza non soltanto per l’opinione pubblica statunitense.
È in verità un sistema complesso, che – così come per molti aspetti avviene per l’elezione nazionale a Presidente – non sempre rispetta il principio che il risultato finale debba coincidere con il voto popolare in termini di teste, o il pensiero per cui a tutti gli Stati debbano essere date pari opportunità di valutare i candidati, o, soprattutto, l’idea per cui la forza economica dei singoli candidati non dovrebbe costituire un fattore determinante della loro corsa e del conseguente esito. In ogni caso nell’immaginario collettivo la partecipazione popolare alla scelta del candidato presidenziale si identifica sempre e comunque con un vero e proprio bagno di democrazia, che attribuendo alle persone maggior potere decisionale le rende anche doppiamente responsabili del proprio futuro politico.
Così, con l’avvicinarsi del 3 febbraio, data di inizio della procedura di selezione dei candidati alla presidenza americana, l’attenzione nei confronti delle primarie statunitensi sta inevitabilmente crescendo. Come di consueto la procedura prende l’avvio con i caucuses dell’Iowa, per proseguire con le primarie del New Hampshire (l’11 febbraio), i caucuses del Nevada (il 22 febbraio) e infine le primarie del South Carolina (il 29 febbraio), prima che nel SuperTuesday del 3 marzo i candidati si diano appuntamento in ben 15 Stati. Si tratta questa volta di un super SuperTuesday, perché rispetto al 2016 quel giorno mancherà la Georgia, ma ci saranno quattro Stati che allora non c’erano, fra cui – oltre al North Carolina – la California con i suoi moltissimi delegati alla convention nazionale, che rappresentano circa il 10% del totale. Preceduta dalle primarie (o dai caucuses) nei restanti Stati, la convention si terrà infine fra il 13 e 16 luglio.
La peculiarità dell’odierna e cruciale scelta del candidato del partito democratico alla sfida presidenziale risiede nel numero eccezionalmente alto dei contendenti – ad oggi ben 12 – cui fanno da corollario le nuove regole stabilite nel 2016 in relazione alle procedure di voto alla convention nazionale. Nelle primarie o nei caucuses (questi ultimi sono procedure selettive più informali, caratterizzate dall’essere indette e gestite dal partito e non dallo stato, a differenza di quel che avviene nelle primarie vere e proprie) a ciascuno Stato viene attribuito un certo numero di delegati scelti attraverso il voto popolare: sono i così detti “pledged delegates”, ossia delegati “impegnati” a favore dei candidati votati dagli elettori. Per ciascuno stato ai delegati pledged si aggiunge un certo numero di delegati “unpledged” (corrispondenti circa al 18% dei primi), non scelti cioè attraverso il voto popolare bensì nominati dal partito, che sono liberi di decidere a chi attribuire il loro voto fino al momento della convention nazionale. Costoro sono noti come superdelegati. Per i candidati alle primarie (o ai caucuses) la soglia di sbarramento per l’attribuzione di delegati di scelta popolare, che avviene su base proporzionale, è del 15%. Il candidato che non raggiunga tale soglia nella competizione cui partecipa non potrà vedersi attribuito nessun delegato. Alla convention nazionale vince al primo turno chi ha ottenuto il 50% più uno di tutti i delegati, compresi i superdelegati. Affinchè i superdelegati non abbiano la possibilità di influenzare in prima battuta il risultato finale, le nuove regole stabiliscono però che essi non possano partecipare alla prima votazione né quando un candidato abbia, durante o alla fine di tutte le primarie o caucuses, ottenuto il 50% più uno dei delegati pledged, né quando nessuno dei candidati abbia ottenuto nello stesso periodo la maggioranza dei soli pledged o di tutti i delegati, compresi i superdelegati. In tali due ultime eventualità essi parteciperanno solo a partire dalla (eventuale) seconda votazione.
Lo scenario che oggi si prospetta – molto diverso rispetto al 2016 in cui i candidati principali erano pochissimi, presto ridotti solo a Hillary Clinton e Bernie Sanders – apre alla possibilità che non soltanto alcuni di essi si ritirino, lasciando liberi i propri delegati di scegliere alla convention nazionale fra i restanti candidati, ma anche all’ipotesi che alla convention più di due candidati si contendano la nomina a rappresentate del partito democratico alla sfida presidenziale.
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