DIARIO DELLE PRIMARIE / 11 – Il Michigan della Rust Belt, ultima spiaggia per Bernie Sanders?
Elisabetta Grande
Le primarie di martedì 10 marzo, che si terranno in 6 Stati e in cui verranno attribuiti 352 delegati pledged (corrispondenti a poco meno del 10 per cento del totale) sono alle porte, mentre il numero preciso dei delegati assegnati ai due contendenti rimasti in gara dopo il Super Tuesday -ossia Joe Biden e Bernie Sanders- è ancora in via di definizione.
Il vantaggio di Joe Biden su Bernie Sanders dopo lo scorso super martedì, che ha assegnato al primo la vittoria in 10 Stati su 14 (escluse le American Samoa andate a Bloomberg, che si è ritirato, e le primarie all’estero che sono ancora in corso di svolgimento), è a oggi di circa un centinaio di delegati: la partita è dunque assolutamente aperta e in buona misura verrà giocata in Michigan. Non soltanto perché, fra i 6 Stati in cui si svolgeranno le primarie di domani, il Michigan è quello in cui sono in palio il maggior numero di delegati pledged (125), ma anche perché si tratta dello Stato in cui, oltre a una possibile conferma dell’affezione del voto nero per Biden, Bernie Sanders potrà verificare il suo appeal presso la working class impoverita, che nelle elezioni generali del 2016 ha consegnato la vittoria a Trump.
Furono, infatti, i 46 grandi elettori provenienti da tre stati della così detta Rust Belt (cintura di ruggine) -Michigan, Wisconsin e Pennsylvania-, vinti da Trump con un margine su Hillary Clinton di meno dell’uno per cento, a sospingere l’attuale presidente verso il trionfo. Era la prima volta, da una generazione a quella parte, che in ciascuno di quegli Stati prevaleva un candidato repubblicano alla presidenza e le ragioni di quel mutamento di rotta furono individuate nel forte disappunto degli elettori -soprattutto bianchi- della working class per i trattati internazionali di libero scambio, che Donald Trump prometteva di cancellare.
La corsa verso il basso (la race to the bottom) nelle garanzie e nello sfruttamento dei lavoratori più poveri, messi in competizione fra di loro su un piano globale dalla liberalizzazione dei mercati prodotta dal WTO (Organizzazione mondiale del commercio), dal NAFTA o dai tanti trattati bilaterali siglati dagli Stati Uniti nel tempo, ha infatti prostrato i lavoratori della Rust Belt, schiacciati nella morsa della forte delocalizzazione delle industrie da un lato e del conseguente abbassamento dei salari dall’altro.
Fra il 1979 e oggi negli Stati Uniti, a fronte di un aumento della popolazione di quasi il 50%, alla perdita di 7 milioni e mezzo di posti di lavoro nel settore manifatturiero, pagati dignitosamente, ha fatto da contrappunto un abbassamento dei salari dei lavoratori più poveri, tale per cui ancora oggi il salario mediano di un lavoratore maschio è più basso -a parità di potere di acquisto- rispetto al 1973. Se la delocalizzazione effettiva delle industrie ha costretto i colletti blu a passare ad un terziario con stipendi da fame, la delocalizzazione minacciata li ha obbligati ad accettare condizioni economiche in fabbrica sempre peggiori, in termini non solo di salario, ma anche di ferie e permessi pagati o di benefici assicurativi e pensionistici. Né la politica di Trump -fatta di cancellazione degli accordi per il TTIP (trattato di libero scambio USA-EU) o per il TPP (che coinvolgeva invece i paesi del pacifico), di una guerra dei dazi volta a ricondurre in patria il lavoro perso, o della celebrazione del carbone (e delle sue miniere) quale ottima fonte di energia nazionale- pare aver risollevato le sorti di quei lavoratori o ex lavoratori. In base a un recente studio di Anne Case e del premio Nobel per l’economia Angus Deaton (Deaths of Despair and the Future of Capitalism, Princeton University Press, 2020), sono così proprio loro, gli adulti bianchi di mezza età e senza laurea degli Stati sofferenti della Rust Belt, a morire di disperazione. Dagli anni ’90, racconta lo studio, in quella fascia di popolazione il tasso di mortalità per suicidio, abuso di alcol o di droga, è cresciuto del 25%, contro una diminuzione del 30% in Francia, Inghilterra o Svezia nel medesimo gruppo di riferimento.
Il Michigan, con la sua capitale dell’automobile di una volta (Detroit), è forse più di ogni altro lo Stato emblema degli ex lavoratori delle fabbriche, bianchi e sofferenti fin dai tempi in cui, nel 1979, a testimonianza della fuga della gente da quella città abbandonata dalle fabbriche, un bumper sticker appiccicato sul retro delle vetture recitava: “L’ultimo che se ne va dal Michigan spenga la luce”.
Il quadro di Milwaukee, Wisconsin, in cui si voterà il 7 aprile -e in cui si svolgerà la convention nazionale per la nomination in luglio- non è d’altronde differente. Matthew Desmond, in un bellissimo libro tradotto anche in italiano (Sfrattati. Miseria e profitti nelle città americane, La nave di Teseo 2018) così racconta:
“Fra il 1979 e il 1983, il settore manifatturiero di Milwaukee perse più lavori che durante la Grande Depressione, all’incirca 56.000. La città in cui, negli anni del dopo guerra, praticamente tutti avevano un lavoro, vide il tasso di disoccupazione schizzare a due cifre. Coloro che trovavano nuovi impieghi nel settore emergente dei servizi avevano avuto una riduzione dello stipendio. Come osservava uno storico: «I macchinisti nel vecchio stabilimento della Allis-Chalmers guadagnavano almeno 11,60 dollari all’ora; gli impiegati dei centri commerciali che presero in gran parte il posto di quello stabilimento nel 1987 ne guadagnavano 5,23”.
E’ questo il contesto in cui Bernie Sanders e Joe Biden si misureranno domani.
In Michigan, nel 2016, Donald Trump la spuntò su Hillary Clinton per circa 10.000 voti, mentre 75.000 elettori, pur votando per il Senato e la Camera, non accordarono a nessuno la preferenza per la presidenza. D’altronde quasi 3 milioni di potenziali elettori non si preoccuparono neppure di andare a votare. Michael Moore, il famosissimo regista nato a Flint, Michigan, è convinto che se avesse ottenuto la nomination molti di quei voti sarebbero andati a Bernie Sanders che, a differenza di Hillary Clinton e soprattutto di Joe Biden, i trattati internazionali della liberalizzazione selvaggia dei mercati non li ha mai sostenuti, ma al contrario li ha sempre osteggiati con veemenza.
I risultati della votazione di domani ci diranno se Michael Moore ha ragione.
(9 marzo 2020)
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