DIARIO DELLE PRIMARIE / 10 – Reversal of Fortune: cosa c’è dietro il successo di Biden?
Elisabetta Grande
Le primarie democratiche statunitensi, tramite le quali entro la fine di luglio verrà individuato lo sfidante di Donald Trump nelle elezioni generali di novembre 2020, stanno certamente riservando non poche sorprese ai suoi osservatori.
Dopo le pesanti sconfitte nei primi tre Stati in cui le elezioni popolari si sono svolte (Iowa, New Hampshire e Nevada), che sembravano averne decretato la morte politica, con la strepitosa vittoria in South Carolina di sabato scorso Joe Biden è risorto e tutto è rapidamente cambiato. Nel giro di 48 ore l’ex vice presidente di Barack Obama si è ritrovato front-runner dell’ala moderata del partito, dopo che i due centristi che fino alle primarie del South Carolina avevano assunto visibilità e delegati, Pete Buttigieg e Amy Klobucher, avevano abbandonato la corsa ed espresso il loro sostegno per lui. Partiti in 12, i candidati alla nomination per le presidenziali già prima del Super Tuesday si erano così ridotti a 5, di cui una -Tulsi Gabbard- è praticamente sempre stata assente, mentre l’altra donna oggi in campo -Elizabeth Warren-, esponente dell’ala di sinistra insieme a Bernie Sanders, nonostante i sondaggi largamente positivi prima dell’inizio della gara e due battaglieri debates giocati contro il multimiliardario Bloomberg e contro Sanders (immaginato come nemico prossimo), ha preso una sonora bastonata nel Super Tuesday. Sconfitta addirittura a casa sua, in Massachusetts, e non a favore di Bernie Sanders, bensì di Joe Biden, le chances della Warren di rimanere in partita appaiono oggi drasticamente ridotte.
A contrastare la notevolissima rimonta dell’ormai dato per morto Joe Biden che, grazie all’abbrivio del South Carolina, ha fatto incetta di delegati nel super martedì appena conclusosi (in cui hanno avuto luogo ben 16 fra primarie e caucuses), non resta più ora neppure Mike Bloomberg. Il supermiliardario, ex sindaco di New York, ha infatti scontato tanto la rischiosa scelta di saltare le prime quattro primarie per investire tutto (e soprattutto quasi mezzo miliardo di dollari di tasca propria) nel super martedì e nelle successive primarie, quanto la sua politica discriminatoria nei confronti dei giovani neri, messa in atto con un selettivo “stop and frisk” (quella che da noi si chiama in gergo “fogna”, ossia la perquisizione in strada da parte della polizia) quando era sindaco. Il multimiliardario rimarrà però in partita come finanziatore della campagna democratica contro l’odiato Trump, nei confronti del quale sembra per la verità sempre stato mosso più da un astio tutto personale che da un sincero contrasto politico.
Bloomberg, peraltro, non solo prima di cambiare casacca era repubblicano, ma a suo tempo aveva anche sostenuto George W. Bush alla presidenza e ciò con ogni probabilità non lo ha reso un candidato sufficientemente credibile nelle attuali primarie. Se da un lato la sua sconfitta al super martedì consola chi temeva che la democrazia americana fosse troppo palesemente in vendita (quanto peraltro lo sia nei fatti è chiarito dall’esistenza dei Superpac’s e delle dark money ), la sua débacle preoccupa d’altro lato i democratici di sinistra che fanno il tifo per Bernie Sanders. La rinuncia di Bloomberg finisce, infatti, per aiutare Joe Biden in due modi. Direttamente, poiché non solo i suoi voti, ma anche il corposo finanziamento promesso a favore dei democratici per sconfiggere Trump andrà al già endorsed front-runner moderato, data l’ostilità più volte dichiarata dall’ex sindaco di New York nei confronti di Sanders “il socialista”. Il suo ritiro aiuta poi anche indirettamente Biden, in quanto riduce, a danno di un’eventuale pole position di Sanders in qualche Stato, l’effetto maggioritario che la regola della soglia di accesso ai delegati del 15% dei voti produce.
Se dunque questo è il quadro, nello scontro che da qualche ora pare contrapporre nitidamente Joe Biden, il moderato, a Bernie Sanders, il democratico socialista, quest’ultimo – dopo aver assaporato il gusto della volata verso un’impossibile cattura da parte degli avversari- appare per la prima volta in seria difficoltà.
Dato ormai vincente dopo il Nevada, primo Stato multietnico in cui aveva ottenuto una vittoria schiacciante, è stata proprio la multietnicità, e in particolare il popolo nero, a tradirlo, esprimendo la preferenza per Biden, tanto in South Carolina -dove quest’ultimo ha raccolto il 64% dei voti neri (rappresentanti la stragrande maggioranza dell’elettorato di quello Stato) contro un 15% andato a Sanders-, quanto in tutti gli Stati del Sud nel super martedì: dalla Virginia, all’Alabama, al North Carolina, dove gli exit poll gli danno il voto nero al 19% contro un 56% andato all’avversario Biden.
Perfino in Texas, con i suoi molti latinos con i quali Bernie e la sua tentacolare organizzazione di giovani e appassionati sostenitori ha certamente instaurato un legame importante, ha vinto Biden! E ciò non perché non vi stata la grande affluenza al voto in cui Sanders aveva tanto sperato. In Texas, per esempio, ci sono stati circa un milione e mezzo di votanti in più rispetto alle primarie democratiche del 2016. Sono i risultati che sono stati opposti rispetto a quelli immaginati da Bernie, il quale si è aggiudicato una percentuale di voti perfino inferiore rispetto a quattro anni fa: il 30% di oggi contro il 33% di allora. Gli elettori “nuovi”, vogliosi di partecipare, non sono stati infatti i giovani e i latinos su cui Sanders puntava, ma i laureati suburbani e i neri, che hanno dato la loro preferenza a Biden.
L’analisi sulle preferenze accordate dalle minoranze etniche ai candidati dem -che per quanto riguarda quella dei latinos costituiva in questo SuperTuesday un terzo di tutti i voti fra Texas e California- deve ancora essere approfondita. L’apparente abbandono da parte dei più deboli nei confronti di chi, come Bernie Sanders, si presenta con un programma politico volto alla loro difesa è tuttavia certamente contro intuitivo.
A differenza di Joe Biden, che manifesta continuità rispetto alla tradizione democratica da Clinton a Obama, Bernie Sanders propone una sanità pubblica per tutti (così detta Medicare for All), in un paese in cui quasi trenta milioni di persone povere oggi non sono assicurate (d’altronde anche quando assicurati gli americani si ritrovano spesso a dover pagare cifre esorbitanti per i così detti surprise bills o per le ambulanze il cui trasporto non è compreso nelle polizze assicurative); propone asili nido e per l’infanzia gratuiti, così come offre la gratuità degli studi universitari ai giovani che oggi pagano cifre inimmaginabili per la loro istruzione e sono destinati a fare tutta la vita i conti con un fardello di debiti pesantissimi; propone la dissoluzione dell’Immigration and Custom Enforcement Agency, che si occupa del respingimento e della detenzione dei migranti ai confini con gli Stati Uniti (oggi responsabile materialmente delle tante crudeli separazioni di bimbi migranti dai loro genitori) e una ristrutturazione della politica migratoria in senso più umano; propone un aiuto ai troppi working poor (oggi la bellezza di 53 milioni secondo recenti studi) che derivi non dall’inutile guerra dei dazi à la Trump, ma da una politica interna che restituisca dignità al lavoro; propone infine di alzare le tasse a ricchi e corporation, diminuendo l’esagerata disuguaglianza sociale foriera di quella povertà di strada che in molti stati americani costituisce ormai un’emergenza nazionale.
Si tratta di un programma cui proprio le fasce più deboli della popolazione dovrebbero aderire con convinzione, ma evidentemente ciò non è. Neri e latinos paiono indifferenti o attratti dalla vecchia politica conservatrice del partito, che tuttavia non ha mai saputo sollevarli dalla situazione di difficoltà in cui la maggioranza di loro si trova.
A muoverli sarà forse l’interiorizzazione dell’idea del “salto della corsia”, che vuole che tutti coloro che viaggiano nella corsia che va molto lenta non pensino di spostarsi in massa nella corsia che va velocissima, ma immaginano invece di poter un giorno saltarvi dentro da soli, per modo da avvantaggiarsi della gran velocità dei pochi che vi corrono?
A muoverli sarà forse l’interiorizzazione dell’idea del “salto della corsia”, che vuole che tutti coloro che viaggiano nella corsia che va molto lenta non pensino di spostarsi in massa nella corsia che va velocissima, ma immaginano invece di poter un giorno saltarvi dentro da soli, per modo da avvantaggiarsi della gran velocità dei pochi che vi corrono?
Se così fosse e fossero in molti a pensarla a questo modo, le speranze per Bernie Sanders di ottenere la nomination, insieme al suo sogno di una società statunitense più equa e giusta, si spegnerebbero per sempre.
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