DIARIO DELLE PRIMARIE / 18 – L’Alaska, sleepy Joe e il gigante dormiente

Elisabetta Grande


Le primarie democratiche proseguono mestamente, in un clima ormai segnato non soltanto dal coronavirus, ma anche dal ritiro dalla sfida elettorale del vecchio leone progressista anti-establishment Bernie Sanders, il quale ha dichiarato, però, di voler rimanere candidato -sia pur a livello puramente simbolico- per poter continuare a diffondere il suo messaggio politico.
Il voto in Alaska, svoltosi tutto e solo per posta venerdì 10 aprile, ha consegnato la vittoria a Joe Biden a cui è andato il 55% dei consensi, contro il 45% ottenuto da Bernie Sanders. Nel 2016, quando la competizione lo aveva contrapposto a Hillary Clinton e l’elezione si era svolta attraverso caucuses -una modalità di voto certamente a lui più congeniale- Bernie aveva surclassato la sua avversaria di quasi 60 punti percentuali.
Un risultato dunque -quello dell’Alaska- che, per quanto poco pesante in termini di delegati alla convention (sono soltanto 15), sembra tuttavia confermare la bontà della scelta del senatore del Vermont di ritirarsi dalla competizione.
La sconfitta di Sanders, contro un Joe Biden, che non solo era partito malissimo, ma che rispetto a Bernie ha sempre goduto di un sostegno popolare nettamente inferiore, in termini sia di finanziamenti che di coinvolgimento diretto della gente nella sua campagna elettorale, pone almeno due interrogativi.
Perché il grassroots movement di Bernie non ha prodotto i risultati sperati? E poi, cosa significa la débacle dei movimenti dal basso in termini di previsioni per l’elezione presidenziale di novembre?
La campagna elettorale di Sanders era partita dal presupposto che il suo movimento di supporto, fatto di giovani e giovanissimi sostenitori desiderosi di un vero cambiamento in termini di giustizia sociale, avrebbe convinto molte più persone ad andare a votare rispetto a quel che normalmente avviene. I progressisti di Sanders contavano, perciò, su un’alta affluenza alle urne, che in base ai loro calcoli li avrebbe avvantaggiati contro i moderati di Biden.
Quei calcoli, tuttavia, si sono rivelati sbagliati. E ciò non perché una forte affluenza alle urne non vi sia stata: al contrario, quasi ovunque, la partecipazione elettorale alle primarie del 2020 è stata più alta, spesso in maniera consistente, rispetto al 2016. Anche in Alaska è andata così!
Il fatto è che coloro che si sono recati numerosi alle urne delle primarie non sono stati i giovani e i lavoratori precari dell’economia del capitalismo avanzato e digitale, su cui il movimento del senatore del Vermont contava: studenti, infermieri, segretarie, commessi, lavoratori di Uber, di Amazon o di Lyft.
La partecipazione è invece stata particolarmente alta fra gli abitanti dei sobborghi delle grandi città, mossi dal desiderio di contrastare Sanders “il socialista”, oppure dall’intenzione di abbandonare i repubblicani, perché strenuamente anti-Trump. Si tratta di elettori moderati o conservatori, istruiti, ultracinquantenni, appartenenti alla classe media – che stanno cioè fra il 50mo e il 90mo percentile nella scala della ricchezza nazionale-, in particolare donne: quelle che a Torino chiamerebbero le “madamin”.
La forza numerica di una simile constituency è risultata palese, per esempio, dai dati dell’affluenza alle urne nei sobborghi della Virginia e del Texas il giorno del giro di boa a favore di Biden, ossia il super martedì del 3 marzo: rispettivamente il 74 e l’87 per cento in più rispetto a quattro anni fa. Lo stesso vale per tanti altri sobborghi di tante città in altrettanti Stati, come il South Carolina, il Missouri, il Minnesota o il Michigan (per questi ultimi dati cfr. qui).
Perché dunque, nonostante gli enormi sforzi che i numerosissimi sostenitori di Bernie Sanders hanno messo in campo -che pur hanno prodotto un finanziamento della campagna a livello di piccoli donatori che non ha precedenti- il risultato ottenuto non è stato quello sperato? In fondo la piattaforma del senatore del Vermont consisteva in una serie di riforme minimali, necessarie alla sopravvivenza di almeno metà delle famiglie statunitensi. Erano altrettante, infatti, quelle che già prima del coronavirus facevano fatica ad arrivare a fine mese e il 40 % di loro non poteva permettersi neppure una spesa improvvisa di 400 dollari.
Com’è possibile che chi non può curarsi, o non lo può fare come dovrebbe, non vada a votare perché ciò diventi possibile per lui o lei e per i suoi figli? O che con Sanders non cerchi di modificare le regole di un sistema che ha portato gli studi superiori a raggiungere costi talmente proibitivi da escluderli dalla possibilità di ricevere un’istruzione universitaria, a meno di non sovraccaricarsi di un pesantissimo debito per il resto della loro vita? O ancora che non voglia insieme a Sanders ottenere un salario minimo garantito di almeno 15 dollari l’ora, senza il quale non è possibile far fronte alle esigenze minime di sopravvivenza? Com’è insomma possibile che il 50% più povero della popolazione statunitense, quello che un recente rapporto della Federal Reserve ci dice negli ultimi trent’anni -dal 1989 al 2018- aver perso complessivamente 900 miliardi, mentre nello stesso periodo la ricchezza del’1% degli americani è cresciuta di 21 trilioni, non cerchi con Bernie di invertire una rotta così drammaticamente foriera di diseguaglianza e sofferenza per gli ultimi?

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L’incapacità di Sanders di mobilitare una tale naturale base elettorale sembra avere una sola spiegazione: la metà della popolazione americana è stata impoverita non solo finanziariamente, ma anche e soprattutto dal punto di vista degli orizzonti di speranza. Oppressi, repressi, concentrati solo sui loro enormi problemi quotidiani di povertà, gli americani meno abbienti sono stati deprivati anche della loro cittadinanza attiva. La campagna di Bernie non è riuscita, insomma, a risvegliare lo “sleeping giant”, formato da quel 40% di persone che non votano mai, di cui i tre quarti aveva nel 2016 un reddito familiare inferiore ai 75.000 dollari annui. Pare questa l’amara verità!

Una seconda domanda però, allora, si pone con forza: basteranno a Joe Biden i voti delle “madamin” dei sobborghi a garantirgli la vittoria alle presidenziali di novembre? Sembra di no. I voti della metà meno abbiente degli americani e in particolare dei giovani, che sono anche la fascia più povera della popolazione, paiono determinanti anche per lui. Conquistarli non sarà però per Biden più facile di quanto lo sia stato per Sanders. Il rischio vero è che non soltanto neppure Biden riesca a mobilitare il gigante dormiente, ma che egli perda alle presidenziali anche il voto di quei giovani che Bernie, sia pur in misura assai inferiore rispetto a ciò che sperava, ha finora saputo entusiasmare. E la mezza promessa fatta da “sleepy Joe” -come lo chiama provocatoriamente Donald Trump- di incorporare nella sua piattaforma alcune delle proposte di Sanders, potrebbe non essere minimamente sufficiente a portarli dalla sua parte.
(14 aprile 2020)





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