Dopo la scontata vittoria – gli scorsi 17 e 28 aprile, rispettivamente in Wyoming e in Ohio – contro un Bernie Sanders ormai ritiratosi (ma comunque aggiudicatosi nel primo Stato il 28% dei voti e, nel secondo, il 16%), Joe Biden è in grande misura fuori dai riflettori mediatici, costretto dal coronavirus a un lockdown personale e politico nel seminterrato della sua casa in Delaware. Sebbene dalla nuova postazione in cui è costretto, non manchi di rilasciare interviste e mandare messaggi online ai potenziali futuri sostenitori, il vice presidente di Obama, che non riveste alcun ruolo ufficiale che gli dia visibilità, sta inevitabilmente conducendo una campagna elettorale assai sottotono.
La nuova situazione di fermo domiciliare in cui si trova, inoltre, gli rende più difficile mettere in atto un’efficace campagna di raccolta sul terreno di fondi individuali (utile anche per stringere relazioni personali con i futuri elettori), dopo che finalmente a marzo era riuscito ad invertire una rotta che lo aveva visto particolarmente penalizzato dagli elettori democratici sotto il profilo economico. Solo dopo il vittorioso Super Tuesday, Biden aveva infatti finalmente raccolto i frutti, anche in dollari, della sua ascesa, con donazioni individuali ammontanti a 46 milioni in 30 giorni.
Un’eventuale battuta di arresto nella raccolta di fondi, che fosse determinata dal distanziamento sociale imposto dalla pandemia, sarebbe particolarmente nociva per il presunto candidato democratico alle presidenziali, giacché a causa della deludente campagna di finanziamento condotta fino a febbraio, il vice presidente di Obama si trova oggi con uno svantaggio economico rispetto a Trump di ben 187 milioni di dollari. Il che significa,
come il 21 aprile il New York Times riporta, che “Biden e il partito democratico potrebbero raccogliere quasi un milione al giorno da ora a novembre e a stento Biden eguaglierebbe la cifra che Trump e il partito repubblicano avevano in banca all’inizio di aprile, senza contare quanto Trump avrà raccolto fino al giorno dell’elezione”. Anche con l’aiuto proveniente dai PACs e dai SuperPACs, come Unite the Country o Priorities USA, insomma, Biden potrebbe trovarsi in grosse difficoltà economiche.
Certo il profilo finanziario può non essere determinante per la vittoria alle elezioni presidenziali, come prova il dato che nel 2016 Trump avesse a disposizione per la sua campagna meno soldi di Hillary Clinton, ma sicuramente l’avere danaro da spendere aiuta parecchio.
Una mano sembra però arrivare a Biden dallo stesso Trump, il cui stile da politico della post-verità -in un momento particolarmente drammatico per gli Stati Uniti in cui i decessi per coronavirus sono più di 50000- preoccupa fortemente il suo partito, che tuttavia, pur dopo gli sconcertanti –anche se sarcastici- suggerimenti del Presidente agli americani di iniettarsi candeggina contro il coronavirus, non riesce a tenerlo lontano dai microfoni per più di due giorni. Per quanto troppo in anticipo per essere veritieri, recenti sondaggi -anche commissionati dallo stesso partito repubblicano- danno Biden in netto vantaggio su Trump nelle elezioni di novembre e indicano come, a causa del disappunto per la sua gestione della crisi, l’incumbent stia perdendo i voti degli ultrasessantacinquenni, ossia dei più colpiti dal virus.
Fra i repubblicani sono, così, in molti a paventare il ripetersi della doppietta che nel 2008 aveva visto vincere Obama, dopo una sconfitta nel mid-term del 2006 dei repubblicani, determinata dallo scontento per la guerra in Iraq condotta da George W. Bush. I segnali del mutato sentimento politico, che nel 2016 hanno trovato evidenza nella conquista della camera da parte dei democratici, fanno infatti temere -oggi più che mai- che Trump possa causare la sua stessa sconfitta elettorale il prossimo novembre. In quest’ottica l’attuale auto-reclusione impostagli dal coronavirus costituirebbe per Biden un vantaggio, giacché egli potrebbe attendere che il cadavere del suo avversario scorra di fronte a sé, evitando un confronto con chi -come Trump- sarebbe certamente in grado di ridicolizzarlo.
In questo quadro, una mossa importante per il candidato democratico presunto riguarda la scelta della sua vice per il ticket presidenziale. Per quanto Biden abbia già dichiarato che si tratterà di una donna, è l’individuazione della vice giusta che potrebbe fare davvero la differenza.
Di nuovo il passato può dare validi suggerimenti. Quando nel 2016 Hillary Clinton si trovò a dover indicare il suo running mate, la scelta cadde su un bianco moderato, il senatore Tim Kaine della Virginia, ritenuto un candidato più tradizionale e quindi più sicuro, rispetto a Cory Booker, senatore del Vermont, l’unico nero fra i papabili. La necessità di motivare la coalizione che aveva sostenuto Obama, nel 2008 e nel 2012, attraverso l’entusiasmo dell’elettorato nero, era stata scartata con supponenza. Il voto nero -così aveva ragionato la Clinton con i suoi consiglieri- era scontato, dato il forte sostegno che la candidata democratica aveva ottenuto da quell’elettorato nelle primarie che l’avevano vista vincitrice.
I risultati delle elezioni del novembre 2016 dovrebbero insegnare qualcosa a Joe Biden: ossia che i voti dei neri delle primarie sono cosa diversa da quelli nelle elezioni generali. Se, nel 2008 e nel 2012, Obama aveva visto un’affluenza senza precedenti di quella fetta della popolazione americana, era perché i più giovani -che normalmente partecipano assai meno alle primarie, vanno meno in chiesa, si identificano meno come democratici rispetto a coloro che votano per le primarie e sono molto più progressisti- erano accorsi in suo sostegno nelle elezioni presidenziali. Nel novembre 2016 la minore affluenza dei neri rispetto alle precedenti tornate elettorali (di ben 7 punti percentuali rispetto al 2012), in particolare delle persone sotto i 65 anni e via via a scalare quanto più si va indietro nell’età, fu invece una delle ragioni della sconfitta della Clinton. “I giovani neri paiono la chiave di volta del declino dell’affluenza. Si sono registrati in numero inferiore rispetto alle presidenziali del 2012 e del 2008, determinando una caduta dei voti neri. E quelli che si sono registrati sono andati a votare in numero decisamente inferiore rispetto a quattro anni fa”, aveva scritto il New York Times a ridosso dei risultati che avevano accordato la vittoria a Trump.
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Per quanto la minore affluenza in generale nel 2016 avesse ridotto a solo un milione e mezzo la differenza di voti neri rispetto alla tornata precedente in termini di fetta complessiva dell’elettorato (passata dal 13 al 12 %), grazie al voto nero la risicatissima vittoria di Trump sulla Clinton avrebbe però potuto trasformarsi in sconfitta.
D’altronde se si mette a paragone la differenza di voti con cui nel 2016 Trump vinse contro la Clinton -in Stati chiave come il Wisconsin, la Pennsylvania o il Michigan- con il numero di elettori neri che non si recarono alle urne, il risultato è strabiliante. Nell’intero Wisconsin, Trump ottenne la vittoria per 23.000 voti, mentre nella sola Milwaukee 93.000 potenziali elettori neri non votarono; in tutta Pennsylvania Trump vinse per 44.000 voti, ma nella sola Philadelphia i neri che non si recarono alle urne furono 283.000; e ancora in Michigan, mentre l’attuale presidente conquistò lo Stato per 11.000 voti, soltanto a Detroit ben 277.000 potenziali elettori neri non votarono.
Di fronte all’esperienza del recente passato, Biden non dovrebbe allora davvero avere dubbi in ordine a quale, fra le quattro donne oggi in lizza, accordare la preferenza. Se vuole evitare di commettere gli stessi
errori di supponenza nei confronti dell’elettorato nero che Hillary Clinton commise nel 2016, la sua scelta -fra Elizabeth Warren, Kamala Harris, Amy Klobuchar e Stacey Abrams- non potrà che ricadere su quest’ultima, nella speranza che l’ex candidata a governatrice della Georgia, nera e progressista, sappia restituire un po’ di entusiasmo a una campagna elettorale per il momento decisamente languente.
(30 aprile 2020)
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