DIARIO DELLE PRIMARIE / 20 – Sul filo dei grandi elettori
Elisabetta Grande
Mentre Joe Biden, silenziato dal corona virus, continua ad accumulare delegati in primarie di cui non si parla neppure più (raggiungendo –dopo il voto in Kansas dello scorso 2 maggio- la cifra di 1435 delegati, sui 1991 necessari per garantirsi la nomination) due sono le novità che si profilano all’orizzonte, entrambe potenzialmente atte a movimentare la futura competizione presidenziale di novembre.
La prima riguarda l’annuncio di Justin Amash di voler aggiungersi alla corsa elettorale come candidato presidenziale del Libertarian Party, se ne otterrà la nomination. Per molti non si tratta di una sorpresa. Eletto in Michigan deputato repubblicano al Congresso nel 2010 sull’onda del movimento del Tea Party, e da allora sempre riconfermato, già la scorsa estate Justin Amash aveva abbandonato il GOP in polemica con Trump, il cui impeachment lo scorso dicembre aveva poi anche appoggiato.
Qualora dovesse ottenere la nomination in qualità di candidato presidenziale, quasi certamente Justin Amash potrebbe correre in tutti e 50 gli Stati, così come era stato il caso dell’ex governatore del New Mexico Gary Johnson, che aveva rappresentato il Libertarian Party nel 2016 conquistando il 3.3 per cento del voto popolare.
Qualora dovesse ottenere la nomination in qualità di candidato presidenziale, quasi certamente Justin Amash potrebbe correre in tutti e 50 gli Stati, così come era stato il caso dell’ex governatore del New Mexico Gary Johnson, che aveva rappresentato il Libertarian Party nel 2016 conquistando il 3.3 per cento del voto popolare.
Due sono le domande che si affacciano allora alla mente di chi osserva le dinamiche in corso. In che misura la discesa in campo di Justin Amash potrebbe avere un peso nella competizione fra Trump e Biden? E poi, nell’ipotesi in cui una rilevanza la sua candidatura la potesse assumere, chi dei due candidati dei partiti principali ne risulterebbe maggiormente danneggiato?
Per dare una risposta occorre mettere in luce come il sistema elettorale statunitense -così come si è andato strutturando- non consenta ai candidati dei partiti terzi che, come di regola accade, ottengono percentuali di consenso popolare non particolarmente alte, alcuna possibilità di aggiudicarsi grandi elettori e quindi di avere un peso nella conta finale della competizione. Neppure Ross Perot, che nel 1992 ottenne lo straordinario risultato di guadagnare il 18,9 % del consenso nazionale, con punte di più del 20% in singoli Stati, vinse alcuno Stato e quindi alcun grande elettore.
Ciò dipende in grande misura dall’unanime applicazione alle elezioni presidenziali del principio del “the winner takes all” su base statale, che comporta in ciascuno Stato un assegnamento della vittoria – e quindi dell’intero blocco dei grandi elettori ad esso spettanti – a chi prende più voti all’interno di un collegio elettorale che è ampio quanto lo Stato stesso. Qualora gli Stati avessero optato per una pluralità di distretti elettorali uninominali al loro interno (così come accade per le elezioni della Camera dei Rappresentanti), cui associare l’attribuzione di singoli grandi elettori, i candidati di partiti terzi avrebbero certamente ottenuto maggiori possibilità di guadagnare voce nella conta finale per l’attribuzione della presidenza. Vincere uno Stato intero è, infatti, impresa assai difficile per un” third party candidate”: solo George Wallace nel 1968 riuscì a vincere ben 5 Stati del Sud e 46 grandi elettori. Cosicché, quand’anche il candidato di un partito terzo ottenesse un discreto risultato in termini di voti popolari all’interno di uno o più Stati, come fece Ross Perot, non vincerebbe però neppure uno degli “electoral votes” corrispondenti. O tutto o niente, insomma, e niente è assai più probabile che tutto per chi non è il candidato di uno dei due principali partiti.
La possibilità di guadagnare voti elettorali da parte di un candidato terzo è poi particolarmente cruciale in situazioni, come appare quella attuale, in cui lo scarto fra i voti dei grandi elettori nel collegio elettorale a favore di uno dei candidati principali sia molto basso. Se, infatti, il candidato di un terzo partito potesse guadagnare – grazie a una diversa ripartizione dei distretti elettorali all’interno degli Stati, oppure perché talmente forte da vincere almeno uno Stato – uno o più grandi elettori, potrebbe darsi l’evenienza che nessuno dei candidati alla presidenza raggiunga la maggioranza dei voti elettorali richiesti per vincere. In tal caso il dodicesimo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti prevede che, fra i tre candidati che abbiano ottenuto più voti elettorali, sia la Camera dei rappresentanti a eleggere il Presidente, laddove i rappresentanti di ciascuno Stato esprimono un unico voto. Ciò che porterebbe oggi al paradossale risultato che ci si troverebbe nuovamente in una situazione di stallo, giacchè la composizione per affiliazione politica agli Stati della Camera dei rappresentanti, vede 25 Stati a maggioranza repubblicana, 24 a maggioranza democratica e uno Stato, il Michigan, con 7 deputati democratici e 7 repubblicani!
Si tratta tuttavia di scenari del tutto irrealistici, poiché Justin Amash, che corre all’interno di un sistema nazionale del “winner takes all ”su base statale, manca altresì di una forza politica paragonabile, sia pure lontanamente, non soltanto a George Wallace, ma anche a Ross Perot. La sua discesa in campo potrebbe allora incidere in qualche misura sul risultato elettorale solamente nella – non del tutto trascurabile – eventualità di scarti di poche manciate di voti fra Biden e Trump nei singoli Stati. Chi tuttavia Amash sia in grado di danneggiare o favorire è difficile al momento dire, perché se la prima impressione è quella che possa portare via voti repubblicani a Trump, è pur vero che molti indipendenti o ex repubblicani dei sobborghi, che – in odio a Trump (i così detti “never Trump”) – già durante le primarie hanno dato il proprio consenso a Biden, potrebbero votare per Amash.
Nell’attuale probabile contesa sul filo di lana fra i due candidati dei principali partiti, una seconda, assai più insidiosa minaccia per un possibile sparigliamento di carte dell’ultimo minuto si profila però all’orizzonte: si tratta dell’imminente pronuncia della Corte Suprema federale in ordine ai così detti “faithless electors”. Possono i grandi elettori essere infedeli e non votare il candidato alla presidenza nominato alla Convention del proprio partito? La questione si pone perché nella tornata elettorale del 2016, ben 8 grandi elettori, vivendosi non come meri passacarte, ma come liberi attori del gioco elettorale, avevano votato per candidati diversi rispetto a quelli ufficiali. Quattro anni fa ciò non aveva ridotto il risicato margine di vittoria di Donald Trump, anche perché molte delle defezioni avevano coinvolto Hillary Clinton, il cui nome alcuni grandi elettori democratici avevano sostituito con uno diverso. La questione potrebbe però rivelarsi esplosiva quest’anno, perché nulla esclude che possa nuovamente accadere quanto successe nel 2000, quando George W. Bush vinse la presidenza per un solo voto elettorale di differenza.
Sulla questione del vincolo o meno di mandato per i grandi elettori, in relazione a coloro che hanno tradito Hillary Clinton nel 2016, si sono espresse in maniera opposta la Corte Federale di appello del decimo circuito e la Corte Suprema dello Stato di Washington. Sta alla Corte Suprema Federale adesso dare la risposta definitiva a una questione che nulla esclude possa diventare decisiva a novembre.
(11 maggio 2020)
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