DIARIO DELLE PRIMARIE / 21 – Tutte le donne dei candidati

Elisabetta Grande

Le primarie democratiche procedono stancamente con Joe Biden che, quale unico candidato in lizza, ha per il momento accumulato 1464 delegati pledeged, sui 1991 che gli servono per aggiudicarsi formalmente la nomination alla Convention di agosto. Il 2 giugno, giorno del nuovo mini SuperTuesday, in cui un totale di 8 Stati ospiteranno le consultazioni popolari, “sleepy Joe” – come lo chiama dispregiativamente Trump – potrebbe finalmente raggiungere il numero magico di delegati necessari alla sua consacrazione come candidato presidenziale per il partito democratico.
Nel frattempo sono le donne e le loro, vere o presunte, relazioni sessuali con i futuri candidati di novembre, a tener banco nelle cronache e a rappresentare possibili sorprese nella corsa dei contendenti al titolo presidenziale.
Così, mentre i programmi televisivi favorevoli ai repubblicani e gli spot anti Biden, lanciati dalla campagna di Trump, dipingono l’ex Vicepresidente come un malato di Alzheimer – mandando in onda spezzoni di sue conferenze in cui pare dimenticarsi perfino del ruolo per cui si candida e dichiara di correre per un posto in Senato – o addirittura lanciano il messaggio, neppure troppo subliminale, che si tratterebbe di un pedofilo – trasmettendo ossessivamente immagini in cui sleepy Joe accarezza bambini – è l’accusa di violenza sessuale mossagli da Tara Reade a creare a Joe Biden i maggiori problemi all’interno della sua constituency.  
La donna, oggi 56enne, accusa Biden di averla spinta contro un muro e penetrata digitalmente nel lontano 1993, quando era sua assistente al Senato, e almeno cinque persone -suoi familiari o colleghi di allora- corroborano in tutto o in parte le sue dichiarazioni, ricordando che la donna li aveva già a suo tempo resi partecipi della violenza, o quanto meno delle molestie, subite da Biden. Almeno una sua ex collega all’ufficio del Senato, Lorraine Sanchez, rammenta poi come Tara Reade le avesse detto di avere presentato un esposto culminato in uno suo licenziamento.
Tara Reade non è la sola donna ad accusare Joe Biden di molestie sessuali. Già nell’aprile del 2019 altre sette donne, insieme già allora a Tara, avevano infatti pubblicamente dichiarato di essere state nel passato oggetto di attenzioni sessuali non richieste da parte dell’ex Vicepresidente. E’ tuttavia certamente la pesante accusa della violenza mossagli il 25 marzo scorso dalla sua ex assistente, ad aver creato seri problemi di credibilità a Biden e, soprattutto, ad aver messo in grave difficoltà le donne del suo partito.  Non solo perché nelle lunghe settimane che sono trascorse dal momento dell’accusa al 1 maggio – giorno in cui Joe Biden ha finalmente negato gli addebiti in un’intervista sulla MSNBC – è toccato alle donne del suo partito difenderlo. “Joe Biden deve cavarsela da solo” è stato il secco commento della fondatrice del movimento #metoo, Tarana Burke, di fronte alle parole spese a favore di un Biden silente dalle più alte cariche femminili del partito: da Nancy Pelosi a Kamala Harris, e poi -fra le altre- Kristen Gillibard ed Elizabeth Warren. Le donne del partito democratico si sono anche trovate nella sconveniente posizione di dover scegliere fra due sgradevoli opzioni: apparire ipocrite, dichiarando di credere a Biden (nonostante a fronte di casi analoghi, che coinvolgevano candidati repubblicani, avessero in precedenza affermato quanto importante fosse dar credito alla voce femminile), oppure (come ha fatto Lucy Flores, una ex deputata del Nevada, che pur ne aveva personalmente denunciato l’atteggiamento sessualmente molesto) mostrarsi realisticamente ciniche e affermare che avrebbero votato per lui nonostante tutto, in quanto male minore.
In tutti i casi si tratta di una situazione non facile da sostenere di fronte ai futuri elettori democratici, che in parte richiedono a gran voce una inchiesta che possa far luce sulle accuse rivolte al presunto candidato presidenziale e in parte sembrano aver ritirato direttamente la propria fiducia a un Joe Biden, ormai ai loro occhi non più distinguibile dal sessista maschilista Donald Trump. Un recente sondaggio della CNN chiarisce quanto, a seguito delle accuse, Biden – nonostante appaia sempre in vantaggio rispetto a Trump – abbia perso consenso, in particolare fra le donne e i laureati bianchi: ossia proprio quella fascia di elettori che sembra aver fatto la differenza a favore dei democratici nelle elezioni di mid-term del 2018 nei così detti “swing states”.
Anche Trump non si fa mancare, però, problemi derivanti da pregresse relazioni sessuali extraconiugali, nonostante nel suo caso la questione non provochi un venir meno del consenso da parte dei suoi elettori, abituati -o forse addirittura attratti- dalla sua maschia tracotanza, che sfocia con facilità in atteggiamenti poco rispettosi della donna con tanto di sfoggio di un volgare linguaggio di maschile predominanza (è nota la sua famosa asserzione “I grab the women by the pu**y”).
Nel caso di Trump, si tratta del ben più pericoloso tentativo da parte del procuratore di Manhattan, Cyrus Vance Jr. (rampollo di una nota dinastia democratica) di ottenere il rispetto dell’ordine (subpoena) di fornire le sue dichiarazioni dei redditi di svariati anni precedenti insieme ad altri documenti riguardanti le sue transazioni finanziarie, rivolto non al Presidente stesso, ma al suo commercialista: la società contabile Mazars. L’ordine è impartito nell’ambito di un’indagine penale che, qualora portasse a buoni frutti, potrebbe vedere Trump imputato per violazione delle norme sui finanziamenti in campagna elettorale, per aver pagato nel 2016 il silenzio di due donne con cui avrebbe avuto relazioni sessuali extra matrimoniali. Si tratta di un reato per il quale il suo avvocato Michael Cohen, dichiaratosi colpevole, è già stato condannato a tre anni di carcere, ma rispetto ai cui fatti -che coinvolgono la modella di Playboy Karen McDougal e la porno star Stormy Daniels- Trump si è sempre dichiarato estraneo.  Di fronte all’ordine di consegnare i documenti fiscali e finanziari diretto dal procuratore al suo commercialista, Donald Trump ha opposto l’immunità presidenziale, che Cyrus Vance -cui una Corte d’appello federale di circuito ha già dato ragione- ha contestato mercoledì scorso davanti alla Corte Suprema federale.
Il caso è molto delicato, perché ancora una volta riguarda la possibilità dell’attuale Presidente di affrancarsi dal diritto e, in questo caso, da qualsiasi indagine penale ed eventuale conseguente rinvio a giudizio che lo possa riguardare. E’ assai difficile che la Corte Suprema, per quanto a lui amica, decida in suo favore, accogliendo la tesi del suo avvocato secondo cui nessun ordine di rilascio di documenti né alcuna indagine o rinvio a giudizio è possibile nei confronti di Trump, in quanto Presidente e quindi tutelato dal II articolo della Costituzione. “Anche se compisse un omicidio nella quinta strada”, ha detto il suo legale, Trump non potrebbe mai essere perseguito durante il suo mandato presidenziale. La discussione sull’immunità del Presidente è certamente aperta, ma mai si è arrivati a sostenere una tesi così estrema. Qualora la Corte, non potendo fare diversamente, dovesse avallare l’ordine di rilascio dei documenti, ciò tuttavia non comporterebbe l’immediata pubblicità degli stessi. Questi sarebbero esaminati, infatti, da un grand jury nell’ambito di una procedura assolutamente segreta. Il rischio, però, che qualcosa possa trapelare prima di novembre c’è, ragion per cui la Corte amica sta già pensando di rinviare, sulla base di un mero tecnicismo, la questione a una Corte inferiore, in modo da prendere tempo.
In definitiva, democratici o repubblicani che siano, i candidati uomini si ritrovano impantanati sempre nelle solite, vecchie come il mondo, faccende di sesso extraconiugale. Saprebbero candidate donne far meglio di così? In molti giurano di sì.

(18 maggio 2020)





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